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Pil e socialismo. il nuovo corso keynesiano della Cina
di Vincenzo Morvillo
Leggendo, nei giorni scorsi, due articoli, uno pubblicato da La Stampa: “L’Italia si prepara ad aderire alla grande rete infrastrutturale cinese” e l’altro, invece, pubblicato su Contropiano, a firma di Pasquale Cicalese: “La Cina, dopo 40 anni, proietta la sua potenza sul mercato interno” – come tanti altri che leggo sul cosiddetto miracolo cinese, attualmente seconda economia mondiale, proiettata verso un inarrestabile primato – ho, per l’ennesima volta, fatto la stessa identica considerazione.
La Cina compete sul mercato mondiale, nell’epoca della globalizzazione – cioè da circa trent’anni – con tutte le armi tipiche del finanzcapitalismo (per usare la significante locuzione coniata dal sociologo Luciano Gallino), accreditandosi come il più agguerrito antagonista dell’impero statunitense e il suo più legittimo successore, nella guerra interimperialista in atto sullo scacchiere internazionale.
Una guerra innescata a partire dagli anni ’70, da quella che il prof. Luciano Vasapollo indica come crisi sistemica del capitalismo mondiale, all’interno di una civiltà-mondo dominata dal sistema finanziario, finora soprattutto a guida occidentale.
Ne viene, di conseguenza, la seconda, più sofferta e perplessa considerazione. Perché molti compagni guardino alla Cina post maoista e di ispirazione denghista (“arricchirsi è glorioso, compagni”, disse Deng Xiaoping nel 1979. Sic!) come ad un modello, seppur spurio, di paese socialista, sinceramente mi è oscuro. In chiave geopolitica e geostrategica, di contrasto al dominio imperiale a stelle e strice? Posso pure comprenderlo. Ma basta? Francamente, non credo!
La Cina ha innestato, negli ultimi trent’anni, la marcia del neoliberismo più spinto. Il paradigma produttivo è quello sviluppista, tipico dei paesi a Capitalismo avanzato. Il Pil è cresciuto a due zeri. E ora, in fase di leggera, ma pur sempre indiscutibile, flessione dell’export (che ha assicurato al paese proprio quella crescita esponenziale) sta correndo ai ripari. E, ovviamente, lo fa sul piano del sostegno alla domanda interna.
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Sovranità nazionale e immigrazione
Un dibattito tra Fabrizio Marchi e Alessandro Visalli
Riportiamo di seguito uno scambio di opinioni tra Visalli e Marchi a partire dall'Assemblea Nazionale di Patria e Costituzione.
* * * *
“Patria e Costituzione”: luci e ombre
di Fabrizio Marchi
Sono di ritorno dall’assemblea nazionale di Patria e Costituzione (quella di Stefano Fassina, per intendersi), alla quale hanno aderito altre associazioni dell’area della sinistra cosiddetta “sovranista”, come “Rinascita!” e “Senso Comune”. Alcuni di loro – e hanno ragione – trovano improprio l’uso del termine “sovranista” – ma si fa per capirci – altri invece lo rivendicano apertamente). Non so se ce ne siano anche altre ma non importa. Questo non vuole essere un report ma solo un commento all’evento. Saranno, eventualmente, loro stesse a comunicarcelo, se lo riterranno opportuno. Di seguito, il Manifesto per la Sovranità Costituzionale che hanno presentato: https://www.patriaecostituzione.it/wp-content/uploads/2019/02/Manifesto-per-la-sovranit%C3%A0-costituzionale-4.pdf
Sono state dette cose (che già conoscevo) condivisibili e altre meno o per nulla.
Sorvolo su quelle condivisibili perchè le potete leggere sul nostro giornale, e vado rapidamente a quelle non condivisibili che in parte ho già espresso in questo articolo e quindi non mi ripeto:
http://www.linterferenza.info/editoriali/sbaglia-la-sinistra-sovranista/
I punti di dissenso, per quanto mi riguarda (oltre a quelli già affrontati nell’articolo sopra linkato) sono l’immigrazione e il femminismo.
Il primo. Volendo sintetizzare con una battuta, potremmo dire che l’analisi che fanno è del tutto condivisibile; peccato che alla fine la risposta politica che propongono sia un topolino. Un topolino che però rischia seriamente di essere reazionario e criminale.
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I comunisti e la questione nazionale
di Renato Caputo
La duplice lotta dei comunisti contro le posizioni dei social-sciovinisti, che nei fatti sostengono il proprio imperialismo, e dei critici del diritto all’autodeterminazione nazionale dei popoli da posizioni cosmopolite, oggi reazionarie
Dal punto di vista di Marx ed Engels, i fondatori del socialismo scientifico, la questione è chiara: per poter vincere nella lotta di classe e sostituire il modo di produzione capitalistico con quello socialista bisogna muoversi in un’ottica internazionalista. Non a caso concludono il Manifesto del partito comunista con il celebre: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”. Allo stesso modo, non è un caso che Marx ed Engels dedicano la maggior parte delle loro energie allo sviluppo dell’Internazionale, piuttosto che allo sviluppo di partiti socialisti su base nazionale.
Inoltre, dal punto di vista del materialismo storico, dal momento che l’unica scienza è la storia – visto che dal punto di vista radicalmente immanentistico di Marx ed Engels non esiste un piano che la trascende – lo Stato è un prodotto storico e, tanto più, lo Stato nazionale è il prodotto di un determinato sviluppo storico. Se lo Stato sorge dalla divisione del lavoro e dalla conseguente divisione della società in classi, quale strumento di dominio del blocco sociale dominante sui ceti subalterni, lo Stato nazionale è un prodotto molto più recente, dal momento che è la forma di dominio funzionale all’affermazione della borghesia quale classe dominante, in quanto consente lo sviluppo di un mercato nazionale.
In effetti, prima dello Stato nazionale borghese, esistono altre forme di Stato, adeguate ai precedenti modi di produzione, dallo Stato dispotico orientale, allo Stato schiavistico, allo Stato medievale, periodi nei quali lo Stato assume preferibilmente la forma di impero, in quanto tale transnazionale.
Dunque è essenziale, in primo luogo, non cadere nelle trappole dell’ideologia dominante che tende a naturalizzare la società borghese, dando a intendere che la forma dello Stato nazionale è appunto naturale e astorica.
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Scienza e democrazia
di Stefano Isola e Lucio Russo
Tra gli argomenti che negli ultimi anni dividono l’opinione pubblica in due tifoserie contrapposte, vi è l’atteggiamento verso la scienza e, in particolare, i suoi rapporti con la democrazia.
La tradizionale fiducia verso la scienza, sorretta da un diffuso atteggiamento positivistico e da un più generale apprezzamento del ruolo degli intellettuali, è stata sostituita in larga parte dell’opinione pubblica da un atteggiamento critico che contrappone alla scienza, spesso qualificata dispregiativamente con aggettivi come “ufficiale” o “occidentale”, visioni alternative di diversa origine, spesso esotica.
Solo in Italia, riferiscono alcune stime, negli ultimi anni gli operatori dell’occulto – maghi, guaritori, cartomanti, medium, astrologi – sarebbero quasi il doppio degli psicologi iscritti all’albo. Allo stesso tempo i confini del tradizionale sistema delle professioni liberali si sfrangiano grazie allo sdoganamento di sempre nuove competenze “alternative”: consulenti filosofici, kinesiologi, grafologi, armonizzatori familiari, etc. e un continuum di medici alternativi di vario tipo che occupano lo spazio tra medici e maghi guaritori.
È un fenomeno preoccupante, da molti punti di vista. Ma è altresì un fenomeno complesso, che ha molte facce, un fenomeno che a uno sguardo critico e non alimentato da ansia corporativa appare come un aspetto di una più generale crisi di civiltà. La crescente diffusione dell’analfabetismo scientifico, dovuta a una crisi generale della scuola e, più in particolare, al degrado della didattica scientifica – temi sui quali avremo più occasioni di tornare in questo sito – ne costituisce certamente un aspetto importante. La generale sfiducia negli esperti e nel ruolo degli intellettuali è alimentata anche da una campagna ideologica contro i “professoroni”, concomitante alla diffusione di strumenti, come i social network, che danno l’illusione di “democratizzare” il dibattito su qualsiasi argomento, offrendo a chiunque la possibilità di rivolgersi a una platea virtualmente immensa e nei fatti tanto più ampia quanto più banali sono le tesi esposte.
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Signora mia, i golpe non sono più quelli di una volta
Venezuela, Iran, ecc...
di Fulvio Grimaldi
“La nostra società è governata da dementi per obiettivi demenziali. Credo che siamo governati da maniaci per scopi maniacali e penso che rischio di essere rinchiuso come pazzo per aver detto questo” (John Lennon)
La notte dei morti viventi neocon
A Piazza Santi Apostoli in Roma, il 23 febbraio, ci siamo trovati in un centinaio a manifestare per il Venezuela bolivariano e contro l’ennesima aggressione Usa tramite golpe, terrorismo e fantocci. PRC, PaP, Militant. NoNato, cani sciolti… Cento meschinelli che avevano, però, più buone e giuste ragioni dei 200mila di Milano in marcia appresso a Ong, Boldrini, Zingaretti e Bersani, impegnati a coprire, sotto il lenzuolo iride della pace e dell’antirazzismi, i più efferati crimini di sanzioni, di guerra e contro l’umanità, cioè di vero razzismo ricco, bianco, cristiano, dalla Siria al Venezuela, dallo Yemen all’Afghanistan, alla Somalia, alla Corea del Nord, all’Iran, a mezza latinoamerica, a tutta l’Africa.
In compenso constatiamo con soddisfazione un dato che ai 200mila di Milano e loro guide spirituali non ha fatto per nulla piacere: il colpo di Stato lanciato dagli Usa contro il legittimo e democratico governo bolivariano di Nicola Maduro, utilizzando un teppista da guarimbas, ai primi di marzo, oltre un mese dopo risulta fallito. Il fantoccio che pare la controfigura di un modello di Dolce e Gabbana, percorre invano le Americhe, cercando conforto da altri compari nel lupanare del neoliberismo colonialista. Invano, perché nessuno vuole corroborare una mannaia che, domani, la banda neocon che fa ballare Trump, potrebbe far calare su lui stesso.
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Il Nobel per l’economia? Conformista e prevedibile
Ecco perché bisognerebbe abolirlo (forse)
Andrea Fioravanti intervista Emiliano Brancaccio
Emiliano Brancaccio, professore di politica economica all’Università del Sannio spiega i retroscena e le critiche al premio economico più famoso al mondo nel suo libro "Il discorso del potere" (Il Saggiatore), in libreria dal 14 marzo. E ha previsto il nome del prossimo vincitore
Il premio Nobel per l'economia è come l'Oscar: tutti lo criticano ma ognuno sogna di vincerlo. Non esiste premio più controverso. L'economista più famoso del mondo, John Maynard Keynes non l'ha mai vinto, mentre un matematico come John Nash è riuscito ad aggiudicarselo nel 1994 per la sua "teoria dei giochi". Può capitare che due avversari politici citino in un talk show economisti che l'hanno vinto per giustificare politiche economiche radicalmente opposte. Quasi tutti credono che vincere il premio Nobel dia il potere di cambiare il corso dell'economia, ma raramente queste teorie sono applicate dalla politica che le riscopre 15 o 20 anni dopo. E quando ogni autunno viene pubblicato il nome del vincitore sono in pochi a cercare le motivazioni della vittoria. Per questo Emiliano Brancaccio, professore di politica economica all'Università del Sannio, ha scritto in collaborazione con Giacomo Bracci il libro "Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’economia tra scienza, ideologia e politica" (Il Saggiatore) in libreria dal 14 marzo. Brancaccio da molti anni è protagonista di confronti serrati con i principali esponenti della dottrina economica prevalente, dall’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard all’ex premier Mario Montii. Il suo obiettivo è far conoscere i retroscena, le critiche e il meccanismo del premio economico più famoso al mondo.
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Brancaccio, partiamo dalla provocazione contenuta nelle prime pagine del suo libro. Bisognerebbe abolire il premio Nobel?
L’idea di abolirlo non è certo nostra. Fin dalle sue origini il premio ha attirato polemiche e contestazioni. Addirittura lo stesso Alfred Nobel non aveva previsto questo premio nel suo testamento.
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A 200 anni dalla nascita di Marx
L'attualità di un pensiero e di una battaglia rivoluzionaria
di Mario Lupoli
200 anni dalla nascita di Karl Marx. Un’occasione per avviare una nuova riflessione sull’attualità del suo pensiero e della prospettiva della sua militanza rivoluzionaria. Consapevoli che il futuro, che oggi sembra negato dal dominio capitalistico, è in realtà nelle mani della maggioranza dell’umanità attiva: nelle mani del proletariato
Non la critica, ma la rivoluzione
è la forza motrice della storia
(Karl Marx)
Marx, 200 anni dalla nascita. Un anniversario che, come sempre, è occasione di bilanci e di commemorazioni. Non possono che venire in mente, come istintiva strategia difensiva, le note parole con cui V. Lenin aprì il suo opuscoletto Stato e rivoluzione:
«Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con incessanti persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l'odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a "consolazione" e mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si avvilisce. La borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il marxismo a un tale "trattamento". Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si esalta ciò che è o pare accettabile alla borghesia. Tutti i socialsciovinisti - non ridete! - sono oggi "marxisti". E gli scienziati borghesi tedeschi sino a ieri specializzati nello sterminio del marxismo, parlano sempre più spesso di un Marx "nazionaltedesco" che avrebbe educato i sindacati operai, così magnificamente organizzati per condurre una guerra di rapina!»[1].
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Rosso di sera
di Lanfranco Binni
L’elettorato del Pd, travolto e tramortito dalle disfatte renziane del 4 dicembre 2016 e del 4 marzo 2018, da più di due anni spettatore passivo di una deriva politicista dell’apparato di un ex partito di potere in crisi, nelle primarie del 3 marzo ha finalmente lanciato un segnale chiaro di discontinuità con il renzismo. È un elettorato composito in cui coesistono gruppi sociali e orientamenti diversi: dalle confuse eredità Pci-Pds-Ds a quelle cattoliche della Margherita, dalle componenti anziane del sindacalismo confederale ad alcune aree di voto al M5S rifluite sul Pd in dissenso con le politiche dell’attuale governo gialloverde. Il segnale è comunque importante e sollecita i gruppi dirigenti del Pd a “cambiare rotta”, affidando questo compito impegnativo al nuovo segretario eletto. Ora il problema è proprio questo: su quale linea politica l’apparato del Pd (parlamentari, amministratori locali, funzionari) potrà cambiare rotta rispetto alle pratiche berlusconiane, liberiste e atlantiste della stagione renziana. Il tutto in presenza di un governo nazionale in cui l’abbraccio letale tra M5S e Lega, determinato dallo stesso Pd dopo le elezioni del 4 marzo 2018, sta provocando il rafforzamento della Lega su una linea di estrema destra e l’evidente crisi del M5S su una non-linea «né di destra né di sinistra».
Ma l’elezione di Zingaretti come opzione di centro-sinistra plurale e aperto alla “società civile” testimonia anche la forza oggi determinante degli elettorati (tutti) nella crisi del sistema politico italiano e della democrazia “rappresentativa”. Siamo all’interno di una crisi profonda di sistema: politico, economico e culturale. In crisi il sistema politico e la credibilità delle istituzioni, in crisi il sistema economico (né “crescita” né “sviluppo” di un modo di produzione in crisi nell’intero Occidente), in crisi l’assetto tradizionale, a pretesa radice unica, di una società multiculturale in rapida trasformazione demografica.
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“Siamo all’offensiva?”
di Elisabetta Teghil
Siamo tante, siamo all’offensiva, il movimento delle donne salverà il mondo. Questo è il refrain che circola in lungo e in largo. E non sarà questo lo specchio dei tempi? Cioè che un movimento senza nessuna possibilità di incidere e di cambiare alcunché sembri vincente?
Quello che viene propagandato come “movimento delle donne” è dichiaratamente interclassista, le sue rivendicazioni sono di richiesta di riconoscimento e di tutela allo Stato e ha un’impostazione esplicitamente corporativa.
Lo sciopero è un’arma di lotta che dovrebbe mirare a cambiare un rapporto di forza attraverso il danneggiamento della controparte e a ottenere un risultato preciso. Si può fare sciopero bloccando tutto il servizio del pubblico trasporto perché non si vuole la privatizzazione del servizio, tanto per fare un esempio, o si può fare sciopero generale bloccando tutti i servizi della città perché non si vuole l’approvazione di una legge che sta passando in parlamento come il finanziamento delle missioni militari all’estero, tanto per farne un altro, ma è impensabile fare sciopero per la pace nel mondo. C’è forse qualcuno/a che non è d’accordo sulla pace nel mondo? Farebbero sciopero anche quelli che le guerre le fanno e le fomentano. Quindi ciò che salta agli occhi di primo acchito è che non può essere impostato uno sciopero contro la violenza sulle donne o sulle ingiustizie di questa società perché tanto sono d’accordo tutti e tutte, compresi tutti gli uomini e tutte le donne che sono direttamente responsabili della costruzione della società neoliberista e della perpetuazione del patriarcato.
Però, con una lettura più attenta ma neanche chissà quanto approfondita, il motivo vero balza fuori evidente. Le donne della socialdemocrazia riformista che hanno impostato qui in Italia questo movimento vogliono soldi, vogliono finanziamenti, vogliono carriere, vogliono che sia riconosciuto il ruolo delle donne che in questa società in effetti fanno parte della struttura di dominio ai livelli e nelle modalità più disparate.
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La recessione interiore
di Giovanni Iozzoli
Avete presente i vecchi film di indiani in cui improbabili Apaches si mettevano a culo in aria, con un orecchio ben piantato per terra, onde avvertire in lontananza l’arrivo del treno o lo scalpiccio dei cavalli? Ecco, quella è la postura assunta da imprenditori ed economisti italiani negli ultimi cinque mesi – più o meno dall’ultimo trimestre del 2018. Solo che i pellerossa in fase di ascolto erano intrepidi e impassibili, mentre le nostre sedicenti classi dirigenti, appaiono tremebonde, spaesate, sempre sull’orlo della crisi di nervi. E quell’orecchio schiacciato sui pavimenti dei loro eleganti uffici riceve solo segnali preoccupanti. Si sa che il nemico è in avvicinamento, se ne vedono tutti gli effetti già pienamente squadernati: fatturati, ordinativi, scorte, inflazione, tutti gli indicatori hanno il segno meno, e con persistente continuità.
In Italia siamo passati da un periodo di contenuta euforia – la crisi è passata, concentriamoci sulla terribile bellezza e la geometrica potenza dell’industria 4.0 –, all’attuale panico mal dissimulato. Il dio capricciosissimo del ciclo economico sta compilando nuovi elenchi di predestinati all’inferno: i fedeli non si salveranno mediante le opere – eppure ci danno dentro di brutto, attraverso l’intensificazione dei ritmi, le condizioni di sfruttamento, la compressione dei salari, il dumping contrattuale. Fanno il loro dovere, gli imprenditori italiani: piangono e fottono, soprattutto i lombardo-veneti – che dentro la crisi, con riflesso automatico, abbandonano le compassate velleità mitteleuropee e si riscoprono interpreti del più melodrammatico mammismo mediterraneo. Aiutateci, aiutateci tutti a stare in piedi, a rimanere sul mercato, compattiamoci, abbiamo bisogno.
Adesso la panacea di tutti i mali, il rimedio anticiclico per eccellenza, sono diventate le grandi opere – come se la realizzazione di una bretella stradale Sassuolo-Campogalliano, nel modenese, ad esempio, potesse invertire il corso della crisi globale.
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La de-globalizzazione e il recupero della sovranità nazionale sulla governance
di Jacques Sapir
La globalizzazione continua ad essere data per scontata e inevitabile, eppure il processo di de-globalizzazione è già iniziato e avanza, a partire dagli Stati Uniti e dalla stessa Europa, con un movimento di recupero della democrazia nazionale sulla “governance” in cui economia e finanza prevalgono sulla politica. Ne discute l’economista francese Jacques Sapir in un lungo articolo di cui pubblichiamo qui la prima parte. (Traduzione in collaborazione con Attivismo.info)
Quando ho scritto il mio libro La Demondializzazione, pubblicato nel 2011 dalle edizioni Seuil, era già chiaramente possibile percepire i segni di una crisi della globalizzazione e persino l’inizio di un processo di de-globalizzazione. La conclusione minima che si può trarre dagli ultimi dieci anni è che questa mondializzazione, o globalizzazione, è andata molto male e che ha generato forze profonde e potenti di protesta. Oggi siamo in grado di vedere meglio ciò che era evidente sin dall’inizio: questo processo è in contraddizione con l’esistenza stessa della democrazia. Ciò che colpisce oggi è che queste patologie politiche hanno raggiunto un punto di rottura nel Paese che si è presentato come il cuore stesso del processo di globalizzazione, gli Stati Uniti
Considerando le questioni sociali, le questioni ecologiche o direttamente le questioni economiche, i segni di un esaurimento del processo, ma anche di una messa in discussione del processo stesso, si accumulano. Il ritorno in prima linea delle nazioni come attori politici era evidente [2]. Vari eventi, dal referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea (il “Brexit”) all’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, comprese le reazioni ai tentativi degli stessi Stati Uniti di istituzionalizzare l’applicazione extraterritoriale del diritto USA e l’ascesa dell’euroscetticismo, che è oggi molto importante nei Paesi dell’Unione europea, valgono a confermare l’analisi.
Quindi oggi parliamo di rischi di guerra su scala globale. Ed è vero che le tensioni geopolitiche sono aumentate. Ma, bisogna sapere, “la globalizzazione” non ha mai interrotto le guerre.
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Manifesto per la sovranità costituzionale
di Carlo Formenti
Il riuscitissimo evento di ieri ha raccolto centinaia di persone al Teatro dei Servi di Roma per la presentazione del Manifesto per la sovranità costituzionale lanciato da Patria e Costituzione, Rinascita e Senso Comune. E' così iniziato un percorso che dovrà condurre alla formazione di un nuovo soggetto politico all'altezza delle sfide che l'attuale crisi del capitalismo globale e delle sue istituzioni impongono di affrontare. Qui di seguito pubblico il testo integrale del mio intervento introduttivo.
* * * *
Compagni e compagne, penso che chi oggi è qui, avendo letto il Manifesto sottoscritto da Patria e Costituzione, Rinascita e Senso Comune, sia consapevole dell’ambizione che ispira il percorso politico di cui l’incontro odierno costituisce un primo passo: si tratta di farsi annunciatori di un’alternativa di sistema, nella speranza di poter essere, in un futuro non troppo lontano, parte attiva nella sua realizzazione. Non ci interessa rianimare né riscattare una sinistra che si è fatta destra, abdicando al ruolo di rappresentante degli interessi delle masse popolari per sposare l’ideologia liberista. Non vogliamo “rifare” la sinistra, non solo per motivi di opportunità linguistica, visto che la maggioranza del popolo disprezza ormai questa parola, ma perché riteniamo che il binomio destra/sinistra, da quando essere di sinistra non significa più nutrire la speranza in un cambio di civiltà, rappresenti unicamente un gioco delle parti fra le caste politiche che gestiscono gli affari correnti del capitale.
Andare oltre la dicotomia destra/sinistra significa andare oltre il paradigma politico, sociale, economico e culturale di cui questi termini sono espressione. Un paradigma che ha perso ogni legittimità dopo quella crisi del 2008 che ha segnato il culmine degli sconvolgimenti epocali iniziati negli anni Settanta del secolo scorso.
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Russiagate. Troll to control
di Giovanna Baer
Per chi ha raggiunto la maturità nel secolo scorso, IRA significa probabilmente Irish Republican Army, la celeberrima associazione militare clandestina sorta con lo scopo di liberare l’Irlanda del nord dal dominio britannico. Ma quell’IRA è storia vecchia, e oggi il suo acronimo designa un’organizzazione che ha a che fare con la propaganda del Cremlino attraverso Internet e i troll. Non stiamo parlando delle familiari creature mitologiche: i nuovi troll sono soggetti che, in una comunità virtuale, interagiscono con gli altri utenti attraverso messaggi provocatori con l’obiettivo di fomentare gli animi e disturbare la comunicazione.
È opportuno sottolineare, prima di proseguire, che quando ci si muove in questo campo molte sono le supposizioni, molto gioca la propaganda in tutte le direzioni - Stati Uniti vs Russia, Russia vs Stati Uniti, Unione europea vs Russia, Russia vs Unione europea... - ma prove tangibili sembra che gli investigatori statunitensi le abbiano trovate.
Secondo il rapporto Assessing Russian Activities and Intentions in Recent US Elections (1), datato 6 gennaio 2017, appena due mesi quindi dalle elezioni
presidenziali americane, e realizzato congiuntamente dalle tre più importanti agenzie di intelligence americane, la Cia, l’Fbi e la Nsa, il presidente russo Vladimir Putin nel 2016 avrebbe ordinato operazioni mirate a influenzare le elezioni presidenziali. “Gli obiettivi della Russia erano di minare la fiducia del pubblico nel processo democratico degli Stati Uniti, di denigrare il segretario Clinton e di danneggiare la sua campagna elettorale per evitare che diventasse Presidente”. Le tre agenzie ritengono inoltre “che Putin e il governo russo abbiano sviluppato una chiara preferenza per il Presidente eletto Trump”.
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Huawei, Cina, Usa e la lotta per il primato tecnologico
di Vincenzo Comito
La disputa tra Cina e Stati Uniti, e l’accordo commerciale che si sta discutendo, a partire dal primato della compagnia Huawei nella tecnologia G5. Con l’Europa in ordine sparso. Ma delle 20 più grandi imprese nelle tecnologie avanzate, 11 sono statunitensi e 9 cinesi. Nessuna europea
Cosa sta succedendo alla Huawei
Intorno ai casi di Huawei, la grande compagnia di telecomunicazioni cinese, si vanno sviluppando da qualche mese molte questioni e diversi interrogativi, insieme a parecchia confusione. Appare importante soffermarsi sulle vicende di questa impresa, cruciali da molti punti di vista, per valutare tra l’altro in che direzione sta andando l’innovazione tecnologica nel mondo, come si presenta poi il quadro della situazione competitiva tra Cina e Stati Uniti, quali i risultati dei tentativi sempre più marcati di un’applicazione extraterritoriale delle leggi americane, quali infine i possibili sviluppi delle vicende relative nel prossimo futuro.
Il peso della società nei suoi mercati di riferimento
Preliminarmente ad un’analisi del quadro politico della situazione, appare opportuno ricordare il posizionamento della società cinese sui suoi due mercati principali, gli smartphone e gli apparati per telecomunicazioni.
Il mercato dei telefonini
Qualche settimana fa la Apple annunciava che l’azienda stava vendendo meno smartphone che in passato a causa di un rallentamento generale del mercato cinese. Si trattava di un annuncio che in realtà affermava al massimo solo una mezza verità.
E’ certamente vero che il mercato cinese degli smartphone sta rallentando, non si sa se temporaneamente o meno, ma è anche vero che la Apple sta vendendo di meno nel Paese anche, se non soprattutto, perché essa sta perdendo quote di mercato a favore dei produttori cinesi ed in prima fila di Huawei. Quest’ultima invece sta collocando sempre più prodotti non solo sul mercato interno, ma anche all’estero (tranne che negli Stati Uniti, dove il suo sviluppo è sostanzialmente impedito politicamente). E la Apple sta lentamente perdendo quote su tutti i mercati, non soltanto in Cina.
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Manifesto per la Sovranità Costituzionale
Istruzioni per l’Uso
di Ugo Boghetta
La presentazione del Manifesto per la Sovranità Costituzionale ha suscitato attenzione e consensi, ma anche dissensi e critiche. E’ normale. Per questi motivi, in questo scritto, cercherò di dar conto – dal mio punto di vista – del percorso fatto e dell’approccio che ha portato alla stesura del Manifesto in questa forma. Il tutto tenendo conto delle obiezioni avanzate in modo critico ma costruttivo. Di tutti gli altri: “Non ti curar di lor ma guarda e passa“.
Va detto in primo luogo, che il Manifesto è il frutto della convergenza di associazioni che provengono da esperienze diverse. Rinascita! nasce dal rifiuto di aderire all’esperienza di Potere al Popolo in quanto segnata dall’autoreferenzialità e dal sinistrismo. PeC nasce dal fallimento della sinistra di mezzo. Mentre Senso Comune prende il via da una lettura del populismo in senso democratico. Ciò significa che c’è tanta strada da fare. E’ tuttavia di buon auspicio che questa convergenza si sia sviluppata in modo così rapido. Con altri, ad esempio Marx21, il confronto è aperto. Il FSI ha rifiutato la proposta.
Nonostante queste diverse provenienze la discussione tuttavia è stata convergente sui temi principali.
L’obiettivo condiviso è quello di costruire un campo, un’area, un soggetto politico sovranista, costituzionale, socialista. La ricerca è stata quella di capire quale fosse il modo migliore per impostare e comunicare le questioni principali. Solo il tema dell’ immigrazione ha comportato una discussione di merito partendo da posizioni in parte diverse o, come spesso accade rispetto a questo argomento, da malintesi. La posizione assunta è quella della solidarietà internazionalista per il diritto a non essere costretti ad emigrare, e regolazione e controllo dei flussi per poter consentire una vera integrazione ed evitare, non a chiacchiere, la guerra fra poveri ed i rigurgiti razzisti e fascisti.
Il tratto comune è l’uscita dalla sinistra. Per questo motivo dobbiamo continuare a combattere contro il sinistrismo che è ancora in noi: in tutti noi.
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Sulla cibernetica socialista, i sogni accelerazionisti, e gli incubi di Tiqqun
di Paul Buckermann
Nikita Krusciov era scettico sul fatto che i computer potessero contribuire a promuovere la storia in direzione del comunismo. Nondimeno, era disposto a fare un tentativo in proposito, ed aveva ordinato un super-computer che supportasse il socialismo sovietico. I migliori e più preparati ingegneri sovietici avevano installato il computer, e gli avevano chiesto di testare subito la macchina. Krusciov, che non era ancora convinto, aveva deciso di porgli una domanda incredibilmente difficile e complessa: «Quando si arriverà al comunismo?» La scatola cominciò a tremare e a fare degli scatti, finché con voce metallica disse: «Fra diciassette chilometri.» Krusciov scoppiò a ridere e ripeté di nuovo la sua domanda, pronunciandola in maniera ancora più chiara. Stavolta, la macchina rispose subito «Fra diciassette chilometri». A questo punto, il compagno cominciò ad arrabbiarsi e chiamò i suoi ingegneri per lamentarsi della stupidità del costoso macchinario. I tecnici si mostrarono sorpresi, dal momento che i test precedenti erano andati tutti sufficientemente bene; per cui chiesero gentilmente al computer di spiegare la sua risposta. La macchina, ferma sul tavolo, senza paura rispose: « Il risultato di diciassette chilometri si basa sui dati provenienti dall'ultimo discorso del compagno Krusciov, durante il quale ha detto che ad ogni piano quinquennale ci saremmo avvicinati di un passo al comunismo».
Questa vecchia barzelletta sovietica indica come ci sia un abisso fra il potenziale tecnologico ed il progresso emancipatorio. La storia ha almeno due diversi possibili finali: o l'immaginario computer viene distrutto in quanto dimostra chiaramente quella che è l'attuale insufficienza della politica sovietica, oppure la potenza del computer viene invece assunta come punto di partenza per calcolare e decidere che cosa fare, anziché dipendere dalle deboli macchine umane e dai loro milioni di pezzi di carta.
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Il Capitale e il suo punto cieco: il denaro come tecnica di misura
di Frank Engster*
Abstract: In the 1960s, a logical-categorial reading of Marx’s Capital began, especially with focus on the value-form analysis, from which the so-called «New Marx Reading» in Germany was one of the outcomes. These readings on the one hand found, with the necessity of synthesizing the theory of value with that of money, the key to opening up the further development of the capitalist mode of production. On the other hand, they stayed fixed on money’s second function as a medium of exchange and on money-mediated commodity exchange, remaining trapped in the contradiction between use-value and exchange-value and the need for an abstraction to quantify the commodity relations. In contrast, the thesis of this paper is that it is money’s first function as a measure of value which is decisive for the development of the inner connection of money and value and for the capitalist mode of production as a whole. Only through the first function can the technique of quantification be deduced, the technique to turn the negativity of a pure social relation into the positivity of quanta and to release with this turn the productive power of the capitalist mode of production. Quantification in capitalism is neither an abstraction, nor a reduction or a form of counting. Rather, in capitalism society is subjected to a measurement of its own productive power; a productive power which through its measurement is, in the first instance, released and systematically expanded. Developing the capitalist mode of production from the “standpoint” of money – the standpoint of an ideal unit which becomes by money’s main function the measure of value, the means of the realization of value and the form of its valorization – opens up an adequate understanding of how to make society an object of both science and critique
«Tutte le illusioni del sistema monetario derivano dal fatto che dall’aspetto del denaro non si capisce che esso rappresenta un rapporto di produzione sociale, sia pure nella forma di una cosa naturale di determinate qualità». (Marx 1961, 22)[1]
C’è un compito della critica dell’economia politica che precede l’esposizione vera e propria del modo di produzione capitalistico. La prima sfida – nel senso più autentico del termine – è motivare perché la società capitalistica possa essere in generale per noi oggetto di critica e al contempo di scienza[2].
La pretesa critica della critica marxista in quanto tale e, per così dire, l’assioma materialistico che la fonda, è il tentativo di comprendere le categorie economiche come «modi d’essere, determinazioni dell’esistenza» sociali (Marx 1961, 635; cfr. anche Marx 1976, 40). Ciò significa che le categorie sono tanto forme soggettive del pensiero, della conoscenza, e necessità logiche quanto categorie dell’oggettivo esserci sociale. Esse sono inoltre storicamente connotate, e più precisamente capitalisticamente connotate, dunque non prestabilite sovratemporalmente dalla natura o da Dio, né determinate antropologicamente od ontologicamente.
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Capitali in fuga. Il grafico definitivo
di Giuseppe Masala
Potete apprezzare come in Italia siano impiegati quasi 300 miliardi di capitali esteri a fronte di quasi 800 miliardi di capitali italiani impiegati all’estero. La più grande fuga di capitali
Se guardate il grafichetto qui sotto, che rappresenta il saldo Target2 della BCE sommata al saldo cumulato della Bilancia dei Pagamenti italiana, potete apprezzare come in Italia siano impiegati quasi 300 miliardi di capitali esteri a fronte di quasi 800 miliardi di capitali italiani impiegati all’estero. Ciò significa chiaramente che siamo di fronte alla più grande fuga di capitali dal Sistema-Italia della storia.
Quasi 500 miliardi di risparmi italiani utilizzati all’estero. Come mai questi danari sono impiegati all’estero e non Italia? Semplice, perché lo stato italiano non può indebitarsi in ossequio ai parametri di Maastricht. O meglio ancora, chiamiamo le cose con il significato proprio: lo Stato italiano non può mobilitare il risparmio degli italiani per erogare beni e servizi agli stessi italiani. Il debito pubblico così va inteso (e così andrebbe chiamato): “Risparmio interno mobilitato dallo Stato”. Il debito pubblico non è il debito del bottegaio.
Dunque, si può dire senza tema di essere smentiti che il debito pubblico (o le “risorse italiane mobilitate dallo stato italiano”) potrebbe essere più alto di quasi 500 miliardi, senza che lo stato italiano assorba neanche un centesimo dal risparmio dei nostri “amici” stranieri. [Ovviamente semplifico, perché è chiaro che se lo stato italiano desse una spinta poderosa alla spesa pubblica, agli investimenti, dovrebbe mobilitare meno perché una determinata quantità Q della cifra in questione verrebbe mobilitata dalle imprese private e dalle famiglie].
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Un “Piano B”, anche per Potere al Popolo
di Mauro Casadio*
Com’è noto le elezioni producono “in automatico” accelerazioni e sintesi politica. Questo sta accadendo anche nel contesto del prossimo passaggio elettorale per le europee. Il tentativo – al quale Potere al Popolo ha aderito definendo con chiarezza i propri punti “non trattabili” – di dare vita alla sinistra del PD ad una lista che facesse riferimento a Luigi De Magistris, è fallito in quanto il sindaco di Napoli ha ritirato la propria disponibilità dichiarando che: “Per quanto mi riguarda non ci sono gli spazi per essere presente alle europee e nemmeno con una lista che faccia riferimento al movimento demA”.
E’ noto anche che i motivi del mancato accordo ruotano tra l’altro attorno alla questione della “rottura dei trattati europei”, la quale ha segnato un solco invalicabile per Sinistra Italiana, Possibile e Diem, con un ruolo “centrista” del PRC che comunque sarà presente alle elezioni con il simbolo della “Sinistra Europea”, cercando di coinvolgere nella sua lista tutti quelli che in Italia si riconoscono in quell’area politica.
Se è necessario tentare di praticare tutti i passaggi elettorali, che in Italia però hanno una defatigante e deviante cadenza quasi annuale, è evidente come, appena si esce dall’ambito della miope politica delle alleanze elettorali e si arriva ai contenuti, riemerga prepotentemente la natura dei partiti e dei gruppi della sinistra nostrana.
Ovvero si evidenzia la subalternità di questi alle politiche del centrosinistra/PD, in particolare sul feticcio dell’Unione Europea, che diviene lo spartiacque strategico tra chi si oppone alla Ue reale, materiale, quella dei capitali, e chi continua a parlare di una ipotetica Europa dei popoli. Paradossalmente, questo tipo di UE oggi viene evocata anche dai cosiddetti “sovranisti di destra”, che si sono convertiti sulla via di Damasco – al mantenimento dell’Unione e dell’Euro – soprattutto dopo aver accettato a Dicembre i diktat di Juncker e Moscovici sulla legge di bilancio.
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La moderna teoria della moneta II
Una rete di protezione a favore del capitalismo
di Michael Roberts
La MMT mira a rattoppare i fallimenti della produzione capitalistica, non a rimpiazzarla
Dopo un lungo articolo che analizza la Teoria della moneta moderna (Modern monetary theory - MMT), in questo contributo, esaminerò gli aspetti pratici di questa teoria. In altre parole, quali sono le proposte politiche che i sostenitori della MMT propongono al governo per creare più posti di lavoro con salari milgiori senza provocare inflazione?
Dopo la Grande Recessione, gli economisti di sinistra hanno cercato di confutare le teorie economiche neoliberiste che impongono l’equilibrio nei bilanci pubblici e una riduzione degli alti livelli di debito pubblico. Le politiche di austerità che scaturiscono dal punto di vista neoliberista hanno significato il taglio del welfare state, la riduzione dei servizi pubblici, la stagnazione dei salari reali e l'aumento della disoccupazione. Naturalmente, il movimento operaio vuole invertire queste politiche che fanno sì che i lavoratori paghino per il fallimento delle banche e del capitalismo.
L’alternativa tipica viene dal keynesismo tradizionale, ovvero dalla convinzione che una maggiore spesa pubblica (tramite deficit sui bilanci annuali dello stato) può aumentare la domanda effettiva nell'economia capitalista e creare posti di lavoro e aumentare i salari. Ed è qui che entra in gioco la MMT. Come dice uno dei suoi esponenti, Randall Wray, ciò che la MMT aggiunge alla politica di stimolo fiscale di stampo keynesiano è l’argomento teorico secondo cui “a un governo sovrano non può scarseggiare la propria moneta”. Fin tanto che lo stato ha il monopolio nello stabilire l'unità di conto (dollari, euro o pesos), può creare quanta moneta abbisogna, distribuirla a entità “non statali”, aumentare la domanda e quindi fornire posti di lavoro e redditi. Stephanie Kelton, uno dei principali esponenti della MMT e consigliere di Bernie Sanders, afferma: “L’entità che emette moneta non può mai rimanere senza denaro perché può sempre stampare o coniare più dollari, pesos, rubli, yen, ecc.”
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L'Unione Europea di Hayek
di Giovanna Cracco
Ci attende una lunga campagna elettorale in vista delle europee di maggio. La complessità dei Trattati, degli accordi intergovernativi (come il Fiscal compact) e della struttura legislativa e istituzionale Ue non facilita i cittadini alla comprensione del 'sistema' Unione europea, e una politica sempre più spettacolo e povera di cultura avrà gioco facile ad appoggiarsi a slogan e dogmi. Eppure non è affatto complicato capire dove siamo. Certo occorre uscire dal postmodernismo e portare la riflessione sul piano storico e teorico, l'unico che consente di guardare l'Unione europea senza le lenti distorcenti della propaganda, a favore o contro; perché l'Unione europea, come tutti i progetti umani, e quelli politici ed economici non fanno certo eccezione, è figlia di un pensiero, di un'idea di società. Facciamo quindi un passo indietro.
L'affermarsi del sistema economico capitalistico ha prodotto il suo specifico conflitto sociale. Ben prima dei cosiddetti Trenta gloriosi - gli anni del dopoguerra caratterizzati, nei Paesi europei, da politiche socialdemocratiche di stampo keyne-siano - il potere politico è intervenuto nella sfera economica per disinnescare il conflitto di classe, agendo principalmente su due piani: operando una redistribuzione attraverso le politiche fiscali, e implementando uno stato sociale - la prima a strutturarlo è stata la Prussia di Bismarck di fine Ottocento, dopo aver cercato inutilmente di contenere le rivolte del nascente movimento operaio attraverso la repressione. Per il pensiero economico liberista è una inaccettabile invadenza: Friedrich von Hayek, tra i massimi esponenti della Scuola austriaca, assertore dell'esistenza di una autoregolamentazione del mercato, di un ordine spontaneo che agisce attraverso la concorrenza, sostiene che il mercato non deve subire limiti. L'economista inizia dunque a riflettere su come eliminare l'ingerenza: individua il problema nella piena sovranità che contraddistingue gli Stati nazione, che consente loro il controllo sulle politiche monetarie ed economiche e sui fattori della produzione - capitali, merci, persone - e trova la soluzione nella sua "abrogazione".
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OIL, il Lavoro è povero. Figuriamoci lavoratori e lavoratrici
di Alessandro Perri
Quando Marx, quello “vero”, dei testi letti direttamente dall’originale in tedesco e non tramite compendi terzi, carenti in termine di comprensione; ebbene quando fece il suo ingresso in Italia, lo fece per mezzo della penna di Antonio Labriola negli ultimissimi anni del XIX secolo.
Questi, fine filosofo prima ancora che socialista della primissima ora, era solito insistere su un punto fondamentale: la praxis, ossia il lavoro come energia, è l’essenza dell’essere umano («l’uomo», scriveva in realtà Labriola…). L’individuo è il suo lavoro, e poiché sono le azioni dell’essere umano che fanno la storia (la cui scrittura, poi, è un capitolo a parte), quest’ultima va intesa come la storia del lavoro, ossia dell’insieme delle attività del genere umano.
A livello «concreto», ne consegue che le condizioni in cui è dato all’essere umano di esprimere la propria natura sono quelle, nel modo di produzione capitalistico, del mondo del lavoro propriamente detto, e dello “stato sociale” in cui queste si esprimono.
Se così stanno le cose, allora il World employment and social outlook, “Prospettive occupazionali e sociali nel mondo” rilasciato pochi giorni fa dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil, Ilo nella versione internazionale), riveste un’importanza decisiva, al netto della retorica istituzionale e del linguaggio tendente al neutro, come rilevanza-accademica-vuole, per avere un quadro più ordinato del mondo nel suo insieme.
Senza remore, possiamo affermare che il documento rilasciato è un bollettino di guerra, per come questa è intesa al giorno d’oggi nei confronti del mondo del lavoro. Come riassume l’«executive summary» dello studio, che di seguito vi riportiamo nella traduzione italiana, sono molti i dati allarmanti di cui nel futuro difficilmente saremo, o meglio, chi di dovere sarà, in grado di venirne a capo.
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Henri Lefebvre: una teoria critica dello spazio
di Sonia Paone
Pubblichiamo la prefazione di Sonia Paone al libro di Francesco Biagi, Henri Lefebvre: una teoria critica dello spazio, Jaca Book, Milano, 2019, uscito da poche settimane. Buona lettura
Henri Lefebvre è stato un importante intellettuale e prolifico autore, avendo pubblicato nel corso di una lunga vita, che ha attraversato buona parte del Novecento, una sessantina di opere, alcune delle quali possono essere considerate un punto di riferimento per le scienze sociali e per quelle territoriali. In questo ultimo ambito le sue considerazioni e intuizioni sulle trasformazioni dei territori e sul destino delle città sono di grande attualità.
Lefebvre aveva evidenziato la forza distruttrice che accompagnava l’affermazione dell’urbano, ovvero l’avvento di una fase storica in cui la città si sarebbe identificata con la forma complessiva della società. E da qui aveva individuato e preconizzato una serie di fattori di crisi: l’impatto della produzione capitalistica sulla organizzazione dello spazio urbano e la sua conseguente mercificazione, la città diviene un mero oggetto di scambio e di profitto; la progressiva urbanizzazione del mondo intesa come espansione del cosiddetto tessuto urbano, ovvero un processo economico-culturale che avrebbe fatto aumentare la segregazione e la frammentazione urbana e avrebbe assoggettato il rurale, facendo scomparire la campagna, attraverso l’industrializzazione della produzione agricola; il declino della vita rurale tradizionale e la distruzione del suolo e della natura. Oggi ci confrontiamo sostanzialmente con gli esiti di quelle direttrici di sviluppo che Lefebvre aveva tracciato, siamo infatti nell’epoca dell’urbanesimo planetario visto che dagli inizi del nuovo millennio la maggior parte della popolazione mondiale risiede nelle città, ma questo traguardo è coinciso con l’esplosione della marginalità urbana poiché i tassi di urbanizzazione sono cresciuti e continueranno a crescere nei prossimi anni nei paesi poveri. Siamo anche nell’epoca del pieno dispiegamento delle logiche della valorizzazione economica sui territori, sia nel contesto urbano che in quello rurale.
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Venezuela, i 30 giorni nei quali Juan Guaidó non è andato da nessuna parte
di Gennaro Carotenuto
Escludendo l’intervento militare in Venezuela, la riunione del gruppo di Lima (il consesso dei governi latinoamericani di destra, riuniti ieri a Bogotá) ha chiuso nella sostanza la parabola del tentativo di Juan Guaidó come presidente autoproclamato del Venezuela e allo stesso tempo evitato la regionalizzazione della crisi. Proviamo a mettere insieme elementi di analisi sugli ultimi 30 giorni e in particolare sull’ultimo lungo fine settimana al confine tra Colombia e Venezuela.
La guerra si allontana dai Caraibi?
Partiamo dalla fine, da Bogotá e dal cosiddetto Gruppo di Lima, creato solo nel 2017 dagli USA come istanza multilaterale per risolvere la crisi venezuelana, e che, solo a gennaio, per riconoscere Guaidó aveva registrato la defezione di un pezzo da novanta come il Messico di Andrés Manuel López Obrador, messosi alla testa della linea del dialogo con Maduro. Pur con l’augusta presidenza del vice di Trump, Mike Pence, alla quale quasi tutti i convenuti riconoscono ben più di una primogenitura, dimostrando anche plasticamente come l’America latina sia tornata subalterna a Washington, questa volta tutto è andato male per il giovane capo (forse) dell’opposizione venezuelana. Salta infatti all’occhio che questa volta la riunione è stata appena per vice-presidenti, ma soprattutto che il Perú prima, il Brasile soprattutto, abbiano escluso la soluzione militare alla crisi sulla quale ancora poche ore prima batteva la grancassa mediatica.
Del Brasile diremo di più subito sotto. Perché i latinoamericani siano riottosi sull’intervento militare è presto detto: ne hanno paura e hanno paura di opinione pubbliche nelle quali il discorso integrazionista non si è mai spento. Una guerra civile in Venezuela rischia di creare un movimento enorme e armato, brigate internazionali in difesa del Venezuela.
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La ragionevole inefficacia della scienza di base (per la spiegazione della natura umana)
Alessandro Della Corte conversa con John Dupré
John Dupré si è principalmente occupato della filosofia delle scienze della vita. Un aspetto molto interessante del suo lavoro riguarda le ricadute dello studio degli organismi viventi su problemi classici dell’epistemologia come quelli riguardanti riduzionismo, determinismo e libero arbitrio. Spero che i lettori di Anticitera apprezzeranno l’intervista che Dupré ha gentilmente accettato di concederci.
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Nei suoi scritti lei ha criticato il riduzionismo, e in particolare la possibilità teorica di spiegare tutti i fenomeni naturali (inclusi comportamenti e abilità complessi tipici dell’uomo) utilizzando la fisica fondamentale. Oggi il riduzionismo è probabilmente meno popolare tra i filosofi rispetto a qualche anno fa, ma spesso continua a essere il modello epistemologico di riferimento (esplicito o implicito) per molti scienziati. Come mai, e che c’è di sbagliato in esso?
Penso che scienziati e filosofi diano alla parola riduzionismo significati leggermente diversi. Per gli scienziati, spesso è poco più che la convinzione metodologica che sia tipicamente una buona idea analizzare le varie parti di un sistema e descrivere le loro interazioni se si vuole spiegare il suo comportamento. I filosofi di solito intendono qualcosa di molto più forte, che ogni cosa è spiegabile, in linea di principio, in base alle proprietà e alle interazioni delle sue parti. Dal momento che le spiegazioni sono di solito supposte transitive, questo potrebbe implicare che tutto, in linea di principio, è spiegabile con la fisica fondamentale. L’espressione “in linea di principio” gioca un grande ruolo qui; vista la complessità dei calcoli richiesti, potrebbe essere necessario Dio per avere una vera spiegazione.
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