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I gilet gialli. Modernità “à la Macron”, democrazia diretta e ideologia
di Maurizio Gribaudi
Rilanciamo un articolo uscito per storiamestre.it a proposito delle lotte dei cosiddetti “gilet jaunes”, di Maurizio Gribaudi, direttamente da Parigi, . Questo è il primo di una serie di interventi sul tema che Effimera ospiterà, quale occasione di approfondimento riguardo a delle proteste tanto discusse quanto facilmente liquidare e liquidabili nei dibattiti correnti
1. Ecco che persino la Francia, a quanto sembra, comincia a imboccare le stesse strade percorse dai vari demagoghi che hanno occupato la scena pubblica in molte democrazie occidentali. Con uno slancio tanto forte quanto inedito, i messaggi lanciati in rete da cittadini e cittadine disperati hanno dato vita a un movimento nazionale che scuote la maggioranza di governo e preoccupa, a ragion veduta, la Francia umanista e libertaria, inquieta per gli sviluppi che questo movimento potrà avere. Infatti, dietro la massa indistinta dei gilet gialli, alcuni credono di scorgere i foschi contorni della destra conservatrice e reazionaria e dei populismi.
In un contesto del genere, c’è davvero molto su cui interrogarsi. La Francia si sta forse accodando, inesorabilmente, a Orban, Putin, Trump, Salvini, agli inglesi della Brexit o ancora al sinistro Bolsonaro? Interpellato direttamente dai manifestanti, il presidente Emmanuel Macron ha risposto con un messaggio che voleva essere allo stesso tempo fermo e rassicurante. Fermo nell’ostentata certezza di non aver commesso né «errori strategici di governo» né «errori di fondo», e quindi di non dover fare alcun «cambiamento di rotta». Rassicurante nella promessa di impegnarsi, nei mesi a venire, a «riconciliare il popolo francese con i suoi dirigenti».
Eppure il suo messaggio contiene tutte le aporie insite nella visione del presidente, come del resto in quella della quasi totalità dei responsabili politici delle democrazie occidentali.
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Accendiamo una luce sul TAV Torino-Lione?
di Aldo Zanchetta
Cosa sanno gli italiani del Treno Alta Velocità Torino-Lione? Ah no, scusate, del “treno trasporto ad alta intensità di merci” Torino–Lione?
Come, non lo sapevate che è questa in realtà la natura del progetto. L’alta velocità (di trasporto passeggeri) è servita a eccitare la fantasia di quegli italiani, tanti sia destra che a sinistra, ammaliati dal mito del Progresso e dello Sviluppo. Alta intensità di trasporto merci che richiede binari diversi, atti a sopportare grandi carichi, rispetto a quelli per l’alta velocità dei treni passeggeri. Due cose fra loro incompatibili sullo stesso binario.
Ho scritto “progetto” e non “realizzazione in corso”. Anche qui l’informazione corrente ha confuso le idee. Sospendere un “progetto” è ben diverso, dal punto di vista finanziario, che sospendere dei lavori in corso, specie se già avanzati. A parte una serie di lavori accessori, fra i quali il tunnel geognostico di Chiomonte (6 mt di diametro e 7 km di lunghezza; sul significato di questa parola oscura tornerò), nessuna opera di scavo del tunnel è stata fino ad oggi appaltata (sta per esserlo, però) e quindi in caso di cancellazione non c’è nessuna penale da pagare, a nessuno, né alle imprese, né alla controparte francese, solo 500 milioni di euri all’Unione Europea, nulla rispetto ai tanti miliardi per la realizzazione di un progetto inutile, che verrebbero gettati al vento (o meglio, in conti correnti bancari ben precisi).
Inutile trasportare le merci? Ma lo sviluppo, il PIL? Allora iniziamo a vedere meglio le cose.
L’idea di una nuova linea ferroviaria Torino-Lione nacque all’inizio degli anni ’90 del secolo passato nei salotti di casa Agnelli, i grandi patron di Torino. Cioè quasi trent’anni or sono. Coi tempi che corrono 30 anni sono un’eternità. Si prevedeva un ingente aumento di traffico merci con la Francia per cui la linea ferroviaria esistente sarebbe stata presto saturata (ma nessuno ha mai visto le carte su cui era basata la previsione: solo discorsi, non studi circostanziati).
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Italia: Una questione di tassi di interesse e fiducia
di Sergio Cesaratto
Contrariamente all’immagine usualmente trasmessa nei paesi del nord d’Europa, l’Italia non è un paese fiscalmente dissoluto. In verità, l’Italia ha un record di surplus fiscali primari (i saldi del bilancio pubblico che escludono il pagamento degli interessi) dal 1992; solo la Germania può vantare qualcosa di simile (figura 1). Purtroppo, questa serie ininterrotta di surplus di bilancio è stata accompagnata dal 1995 dalla perdita della competitività esterna nella marcia di avvicinamento e poi con l’adozione dell’euro. Questi due fattori combinati hanno costituito la radice ultima della stagnazione di lungo termine dell’economia italiana, in particolare dell’appiattimento della sua produttività.
Figura 1
Fonte: Cesaratto, Iero (2018)
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Gli investimenti pubblici e il "Partito del Pil"
di Leonardo Mazzei
Dopo le buffonate di Confindustria e soci, è possibile discutere seriamente del piano straordinario di investimenti pubblici di cui ha bisogno l'Italia?
Per una strana congiunzione astrale, più esattamente per un'insolita congiuntura politica, sono tornati inopinatamente di moda gli investimenti pubblici. Peccato che tanti li vogliano solo su misura, ritagliati in base ai loro specifici interessi. Generalmente interessi economici, talvolta accompagnati da obiettivi strettamente politici.
Sta di fatto che, all'improvviso, tutti si son messi a parlare di investimenti. Bene, ma un po' d'ordine va fatto. Parla di investimenti il governo, anche se per ora ha messo in cantiere ben poco. Ma ne parlano pure le sfiatate opposizioni, tanto per dire che il governo non gli sta dando la giusta importanza. Parlano di investimenti gli eurofili d'ogni razza e tendenza, giusto per contrapporli a reddito di cittadinanza e "quota 100", sempre dimentichi però del fatto che gli investimenti pubblici son crollati proprio a causa dell'accettazione di quelle regole dell'ordoliberismo euro-germanico che tanto amano.
Nel nostro piccolo, vorremmo parlare di investimenti pure noi, ma per farlo in maniera adeguata dobbiamo prima mettere i puntini su parecchie "i".
Partiremo allora dal contesto politico, arrivando alle cose serie (il piano di investimenti da fare), solo dopo aver liquidato quelle non serie, rappresentate oggi dal pittoresco "Partito del Pil", una delle più disoneste congreghe messe in piedi dall'inizio del secolo, che pure di buffonate ne ha già proposte diverse.
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L'invasione degli ultratabù
di Il Pedante
Ogni civiltà ha i suoi tabù, perché di ogni civiltà è il sacro. Ciò che è sacro è intoccabile, inavvicinabile, perché in origine maledetto. Scrive Pompeo Festo (De verborum significatione) che l'homo sacer è «quem populus iudicavit ob maleficium... quivis homo malus atque improbus». Tra le etimologie proposte, l'accadico sakāru rimanda appunto all'atto del bloccare, interdire, ostruire l'accesso. In una comunità di persone il sacro postula l'indiscutibile, i riferimenti invalicabili dell'identità e dei valori comuni di norma rappresentati nella sintesi di un simbolo o di una formula rituale. L'ambivalenza del sacro è prospettica: nel tracciare un confine inviolabile discrimina ciò che deve restare fuori - il tabù - da ciò che sta dentro e attorno a cui ci si deve raccogliere - il totem. Il binomio freudiano svela così i due volti del sacro: dove c'è un totem c'è un tabù, e viceversa. Se la Repubblica Italiana si rispecchia nel totem dell'antifascismo, il fascismo è un tabù. Se una chiesa fissa il suo totem nel dogma, i tabù sono l'eresia e la bestemmia che lo negano.
Non si ha notizia di civiltà senza tabù, perché il sacro soddisfa un fabbisogno spirituale che si riscontra ovunque. Sarebbe perciò sciocco credere che i tempi laici in cui viviamo si siano emancipati dal sacro e quindi dai tabù. L'errore nasce dalla confusione di sacer e sanctus, dove il secondo rimanda in modo specifico alla sacralità religiosa. Sanctus è participio passato di sancīre, attestato anche nel significato di interdire, separare, dedicare (a una divinità), accomunato a sacer da una possibile radice comune sak-. La convergenza e quasi sovrapposizione nell'uso dei due termini sembra illustrare un processo che dall'era classica a quella cristiana ha progressivamente «relegato» il sacro nelle cose ultraterrene, con il vantaggio di trattare più pragmaticamente le cose umane e della terra, di schivare cioè il rischio di sacralizzarle rendendole così inconoscibili perché inaccessibili al λόγος. Un rischio che si sarebbe confermato e si sta più che mai confermando reale.
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Uno sguardo indietro
Cosa ha significato realmente la “condivisione del rischio” nell’Eurozona
di Marcello Minenna
In questo post sul Financial Times Marcello Minenna, Responsabile dell’Ufficio Analisi Quantitativa e Innovazione Finanziaria della Consob, spiega, dati alla mano, che l’Italia ha sempre dato all’Unione Europea molto più di quanto ha ricevuto, e che i nostri soldi sono andati a vantaggio dei paesi “core” dell’UE, in primis Germania e Francia, anziché aiutare i paesi della periferia che versavano in difficoltà finanziarie. Ribadire in modo informato questi fatti diventa particolarmente importante oggi, mentre il nostro paese subisce attacchi quotidiani da chi ci accusa di avere “vissuto al di sopra delle nostre possibilità” e di aver approfittato indebitamente della generosità dell'”Europa”
Uno dei dibattiti ricorrenti dopo l’eurocrisi è stato se gli strumenti di stabilità dovessero servire per condividere il rischio tra gli Stati membri o, al contrario, a isolare il rischio all’interno dei singoli paesi. Mentre nella zona euro si discute – rinviandole – su vere misure di condivisione del rischio, come l’assicurazione europea sui depositi, è importante ricordare cosa è successo quando i rischi sono stati condivisi e chi ne ha effettivamente beneficiato.
Condividere i rischi quando necessario
La narrazione comune è che i programmi di salvataggio avrebbero aiutato paesi in grave difficoltà ad evitare la bancarotta sovrana o fallimenti bancari diffusi. In realtà, nell’evitare tali esiti estremi, questi programmi proteggevano anche le banche dei paesi core – Germania e Francia, in particolare – che avevano accumulato enormi esposizioni verso la periferia prima della crisi. In quel momento, la condivisione del rischio (per quanto sgradevole) era la migliore opzione disponibile per i governi dei paesi core. Li ha salvati dall’intervenire direttamente (a spese dei loro contribuenti) per sostenere i propri sistemi bancari nazionali.
La “condivisione del rischio”, a partire dalla crisi, è sempre stata un “doppio salvataggio”. Un salvataggio per le banche della periferia, che a sua volta offriva un altro piano di salvataggio alle banche del centro.
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Spread, mutui e crisi: come funziona la gabbia dell’Europa
di coniarerivolta
Un recente contributo dell’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard lancia l’allarme: la manovra economica dell’attuale Governo potrebbe rappresentare un caso di espansione fiscale restrittiva. La questione è interessante perché Blanchard, uno dei più autorevoli ed ascoltati economisti mainstream contemporanei è stato, in tempi recenti, sostenitore della necessità di un intervento dello Stato nell’economia, per uscire dalle secche di una recessione come quella nella quale siamo invischiati ormai da dieci anni. Probabilmente tormentato da scrupoli di coscienza e sensi di colpa per avere raccomandato per decenni dosi da cavallo di austerità, Blanchard ha infatti scoperto che i moltiplicatori fiscali possono essere maggiori di 1. Quindi, un euro di spesa pubblica può stimolare la produzione in maniera maggiore dell’euro speso dallo Stato. Volgendo la sua attenzione al corrente dibattito italiano, però, Blanchard mette in guardia il lettore: nonostante il tentativo dei gialloverdi di rilanciare la produzione ricorrendo a spesa finanziata in deficit, la produzione potrebbe addirittura contrarsi. Già questo breve accenno potrebbe farci sospettare che Blanchard sia totalmente fuori strada. Sappiamo, infatti, che la manovra presenterà verosimilmente un 2% del PIL di deficit complessivo. Interpretati correttamente, però, i numeri ci parlano di un avanzo primario (l’ultimo di una lunga serie) di circa l’1.5%: in altri termini, l’ennesima misura di politica fiscale restrittiva e quindi neanche una traccia della politica espansiva di cui Blanchard parla.
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Monti e l’arrivo dell’ “effetto Tsipras”
Il tempio del potere
di Alessandro Visalli
Sul “Corriere della Sera” Federico Fubini ha pubblicato una intervista al senatore a vita ed ex premier Mario Monti nel quale quest’ultimo ha prodotto una serie notevolissima di affermazioni e minacce.
Inizia chiamando “realtà oggettiva” la “realtà internazionale”, con i suoi rapporti di forza e la divisione del lavoro che comporta[1], e quindi apparenza fittizia la condizione materiale nella quale vive la maggioranza del paese, con la quale questo governo, nel bene come nel male, ed in entrambe le sue componenti, è in contatto come non accadeva da decenni, più precisamente ha paragonato lo stato delle forze politiche che dall’opposizione sono giunte nelle stanze dei bottoni (o, meglio, come vedremo, nella sua anticamera) a “l’equivalente politico di una bolla speculativa”.
Leggiamo:
“Vede, credo che le forze che sostengono questo governo non avessero mai avuto veri momenti di confronto con la realtà oggettiva, con la realtà internazionale. Vivevano nell’equivalente politico di una bolla speculativa”.
Cosa succede adesso secondo Monti? Molto semplicemente, che la realtà si è presentata.
“Ora mi pare che l’impatto con la Commissione europea sia stata la prima vera occasione di scoperta della realtà, per politici che avevano in testa solo una propria versione di essa tutta costruita per demonizzare il passato”.
La “realtà” è dunque incarnata nella Commissione Europea, questa ne è il sancta sanctorum.
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Il populismo e il grande complotto rossobruno
di Lenny Benbara
Ormai dall’inizio dell’estate è in corso un’offensiva ideologica per demonizzare quello che è generalmente definito “populismo di sinistra”. Accusata di mescolare le frontiere ideologiche con l’estrema destra, se non addirittura di condurre ad una deriva autoritaria o analoga al cesarismo, l’ipotesi populista sarebbe un pericolo mortale per la democrazia [1]. Peggio ancora, per coloro che si identificano con la sinistra, il populismo significherebbe abbandonare la “società” in favore del “sociale”. Dando la priorità alla questione sociale e gerarchizzando le “lotte” si verrebbe a creare la necessità di rivolgersi all’elettorato popolare del Front National mettendo nell’armadio il femminismo, i diritti LGBT, l’ecologia, la lotta contro il razzismo, ecc. Questo dibattito ci porta in realtà completamente fuori strada.
* * * *
La Francia è immersa nel vecchio dibattito tra la sinistra giacobino-marxista e la seconda sinistra [2] .
La Francia non ha ancora digerito l’innovazione intellettuale della scuola populista, della quale si parlerà più avanti. Innanzitutto è necessario affrontare il contesto ideologico attuale. La sinistra giacobino-marxista viene regolarmente opposta alla seconda sinistra, figlia della critica del Maggio ’68 e della nascita di nuovi movimenti sociali come il femminismo e i diritti LGBT, per citarne solo alcuni.
La prima accusa la seconda di essere stata integrata nel neoliberalismo, che assume come proprie una parte delle nuove richieste di uguaglianza e di democrazia. Questo processo è poi culminato con la nota di Terra Nova [3] del 2011 che ha reso un conglomerato di minoranze il centro della maggioranza elettorale della sinistra detta “liberale-libertaria” e individualista.
La seconda critica la prima per la sua visione ormai antiquata di Stato e organizzazione, per il suo patriottismo, ma anche per il suo riconoscimento tardivo delle rivendicazioni di uguaglianza delle minoranze. In breve, si utilizza il termine “rossobruno” per identificare l’unione di posizioni sociali progressiste con idee più o meno reazionarie sul piano dei valori.
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L’insurrezione francese
di Toni Negri
Ragioniamo su quanto avvenuto in queste ultime tre settimane in Francia. Si può chiamare insurrezione? Dipende da come s’intende la parola insurrezione – certo, comunque la si intenda, qualcosa del genere c’è stato. E probabilmente continua. E non son tanto, a mostrarlo, i violentissimi scontri che ormai da due sabati si verificano nella metropoli parigina. Non sono le barricate, gli incendi di automobili sulle strade del centro parigino a mostrarlo e neppure le jacqueries che qua e là si hanno in Francia e i blocchi stradali che si distendono ovunque. Lo dicono quei due terzi di francesi che approvano il movimento generale che l’aumento del prezzo della benzina ha determinato. E questa approvazione va molto al di là dell’eventuale condanna dei disordini accaduti. Interessanti sono a questo proposito gli accenni di insubordinazione che animano gli stessi comportamenti dei pompieri e dei corpi di polizia.
Certamente, c’è ormai in Francia una moltitudine che insorge violentemente contro la nuova miseria che le riforme neoliberali hanno determinato. Che protesta per la riduzione della forza-lavoro al precariato e per la costrizione della vita civile nell’insufficienza dei servizi sociali pubblici, per la bieca tassazione di ogni servizio del welfare, per i giganteschi tagli alle finanze dei governi municipali ed ora, sempre di più, per gli effetti (che si cominciano a misurare) della Loi Travail, e si preoccupa per gli attacchi prossimi al regime di pensionamento ed al finanziamento dell’educazione nazionale (università e scuole secondarie). C’è in Francia, dunque, qualcosa che insorge violentemente contro la miseria e fa seguire a questo un “Macron, démission!” – un attacco cioè alle scelte del banchiere Macron a favore delle classi dominanti. Gli obiettivi dell’insurrezione sono Macron e le tasse.
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Dagli scioperi delle donne a un nuovo movimento di classe
La terza ondata femminista
di Cinzia Arruzza
Il 23 ottobre scorso, migliaia di lavoratrici delle pulizie di Glasgow, hanno dato il via alla manifestazione sindacale per la parità salariale organizzata da PSI, Unison e GMB Union con un minuto di silenzio, in ricordo delle lavoratrici morte prima di poter vedere il giorno in cui al proprio lavoro venisse finalmente accordata la stessa dignità e lo stesso valore del lavoro dei propri colleghi uomini. In questo atto si esprimeva piena consapevolezza di una lunga storia fatta di umiliazioni grandi e piccole, di lavoro invisibile, non riconosciuto o sottopagato, di ingiustizie e meschinità, così come dell’enormità della sfida lanciata con lo sciopero delle donne. Parità salariale: un obiettivo ragionevole, quasi banale, e tuttavia così difficile da realizzare. A tal punto che il Forum economico mondialeha calcolato che – sulla base delle tendenze e dei dati attuali – ci vorranno almeno 217 anni perché si possa finalmente colmare il gap salariale tra donne e uomini a livello globale. Ammesso che il mondo sia ancora abitabile tra 217 anni.
Una settimana dopo lo sciopero e i picchetti di Glasgow, migliaia di lavoratrici e lavoratori di Google, da Tokyo a New York, hanno abbandonato le proprie scrivanie e postazioni e sono scesi in piazza a protestare in risposta a una serie di rivelazioni pubblicate dal New York Times, concernenti casi di molestie sessuali perpetrate da diversi manager del gigante hi-tech e tenute convenientemente sotto silenzio. Non a caso: Google, al pari di altri giganti dell’economia digitale come Facebook, indossa da anni la maschera del capitalismo progressista, quello che sfrutta, sì, ma senza far discriminazioni tra donne e uomini, trans e cis, gay ed etero, e anzi è contento di pagare i costi di congelamento degli ovuli e tecniche di riproduzione assistita. La protesta, tuttavia, non si è limitata alla denuncia dei casi di molestie sessuali sul lavoro, ma ha articolato una serie di rivendicazioni tra le quali spiccava la richiesta di protezioni e diritti sindacali.
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Sparigliare i giochi pericolosi in Italia e in Europa
di Sergio Bruno
La situazione è difficile e pericolosa, non per la pretesa fragilità dell’economia italiana, ma perché gialloverdi, Commissione europea e molti stati Ue hanno aperto sul caso Italia un grottesco conflitto, perché si sta discutendo di una sanzione che verrebbe inflitta sulla base di stime e aspettative e non di fatti
Ci vuole poco ad argomentare i tratti negativi e pericolosi dei gialloverdi: il loro far leva sull’odio, l’ignoranza del quadro istituzionale, la mancata distinzione tra rispetto delle regole democratiche e maggioranza dei voti, l’insipienza e le contraddizioni del programma di governo su flat tax, condoni, provvedimenti per la povertà, ecc.; ma purtroppo sono proprio questi tratti che spiegano il loro vistoso successo elettorale. Quindi, da sole, queste argomentazioni non servono a molto. Più difficile è per la sinistra capire le poche cose sulle quali i gialloverdi hanno ragione, riconoscere i propri errori pregressi, prendere atto della propria scarsa efficacia persuasiva.
Esemplifico. Quando Salvini afferma che l’erroneità delle prescrizioni della Commissione europea è resa evidente dal fatto che le politiche di centrosinistra, a quelle prescrizioni fedeli, non hanno sostanzialmente inciso sul rapporto debito/Pil, dice cosa giusta e, quel che più conta, politicamente (con)vincente. Tutti sanno infatti che quando le terapie praticate per anni si sono rivelate controproducenti, il loro abbandono appare ai più, a torto o a ragione, molto sensato, mentre non sembra il caso di dar retta ai solenni moniti dei precedenti “professoroni”! Difficile obbiettare, soprattutto se i moniti sono basati su vecchie argomentazioni. Ed il problema non è solo italiano.
I gialloverdi cavalcano un numero limitato di cavalli: tra di essi quello dell’esigenza di avere un saldo di bilancio più espansivo in funzione dello sviluppo e quello di combattere la povertà. Gli obbiettivi sottostanti sono degni e giusti, anche se gli strumenti per perseguirli non lo sono.
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Una coalizione a perdere per la “patria europea”? No grazie, abbiamo già dato
di Domenico Moro e Fabio Nobile
Recentemente il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, si è fatto promotore di un percorso che dovrebbe portare a una lista per le elezioni europee. Questo percorso sembra aver raccolto l’interesse anche di alcuni partiti, tra cui il Partito della Rifondazione comunista e Sinistra italiana. Si tratta di una proposta all’altezza delle difficoltà di questa fase storica? La risposta va definita sulla base dell’esperienza degli ultimi dieci anni. In questo periodo sono stati messi in campo molti progetti politici con esiti fallimentari. Non solo perché non hanno portato a eleggere, con l’eccezione dell’Altra Europa (tre deputati eletti al Parlamento europeo) ma soprattutto perché queste coalizioni hanno mostrato la corda o sono state superate all’indomani delle elezioni. L’Arcobaleno, la Federazione della sinistra, Rivoluzione civile, l’Altra Europa, Potere al popolo sono solo alcune delle sigle succedutesi l’una all’altra. In mancanza di continuità non si sono accumulate forze, anzi quelle raccolte sono state disperse, riducendo progressivamente i consensi e il radicamento sociale.
Certamente il difficile contesto economico e politico ha giocato un ruolo importante nell’indebolimento progressivo. In primo luogo il quadro generale della crisi capitalistica ha determinato nuove condizioni oggettive sul piano dell’articolazione di potere delle classi dominanti, nonché sul terreno della composizione di classe dei settori sociali subalterni. Tuttavia, come sempre, i risultati dipendono anche da come reagiamo soggettivamente alle condizioni oggettive.
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A sinistra, ma contromano
di Norberto Fragiacomo
Appunti sparsi su un testo, quello di Fabrizio Marchi, da leggere per capire e imparare qualcosa di utile
Confesso che mi sono accostato a Contromano – Critica dell’ideologia politicamente corretta con estrema curiosità e un tantino di diffidenza: la prima frutto della sincera stima che provo per l’autore, Fabrizio Marchi (uomo di vasta cultura oltre che piacevolissimo commensale), la seconda derivante dal fatto che sovente le raccolte di articoli o riflessioni mancano di unitarietà, sballottano il lettore a destra e a manca negandogli il legittimo piacere di raggiungere infine la meta.
Orbene, il testo ha fugato sin dalle pagine iniziali i miei timori, convincendomi e appassionandomi sempre più: nessuna frammentarietà, al contrario una lucida visione d’assieme che abbraccia ambiti apparentemente distanti ed estranei l’uno all’altro, svelando analogie spesso inquietanti, e riesce a tracciare grazie all’acutezza dell’osservatore un identikit realistico della società capitalista contemporanea. Un saggio vero e coerente, insomma, ma anche indigesto per chi seguita ad abbeverarsi alle fonti dell’informazione sistemica e, per credulità, superficialità o codardia intellettuale, persevera nel ritenere quest’obbrobrio quotidiano “il migliore dei mondi possibili”. Mi correggo: questa categoria di telespettatori giammai si confronterà con l’opera che ho davanti agli occhi e, se per puro caso vi s’imbattesse, la getterebbe lontano inorridita – meglio le favole che ci raccontano.
Su molte di quelle favole Marchi si sofferma, e lo fa affidandosi – oltre che a dati pubblici ma “invisibili” per una platea distratta – a un modo di ragionare rigoroso e serrato che non sente mai il bisogno di sbalordire il lettore con paroloni ed effetti speciali: “si accontenta” di prospettargli un’interpretazione controcorrente del reale.
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Gas per Tafazzi!
di Fulvio Grimaldi
Quando un paese si martella le gonadi per compiacere chi gli ha venduto il martello
C’è chi martella chi se lo merita
Francia, specchio dei tempi e dello scontro di classe le cui nuove forme le cosiddette sinistre radicali non vogliono capire: quelle della guerra sociale, culturale e geopolitica dei popoli, pressochè tutti proletarizzati dal globalismo neoliberista, contro le élites. Lotta insurrezionale che presenta affinità stretta con quella del 1789, per la sovranità del popolo (lavoratore, operaio, contadino, intellettuale) contro la sovranità del sovrano e dei ceti alle sue fortune legati e dai suoi poteri beneficiati e che, ammaestrata dalla rivolte soprattutto contadine e dalle insubordinazioni dei barbari nel fine-impero, si accoppia al monopolio della forza. Sovranità e monopolio di cui i gruppi dell’accumulazione e della predazione, della menzogna e della cospirazione, sono tornati padroni, dopo che rivoluzioni e rafforzamento in varie forme della volontà, coscienza, conoscenza, forza, dei dominati se l’erano conquistata, o, quanto meno, l’avevano condivisa. Vedi, da noi, le costituzioni, dallo Statuto Albertino a quella antifascista del 1948. Vedi la cubana, quella di Thomas Sankara nel Burkina Faso e la venezuelana, la migliore in assoluto.
Lo strumento di corruzione psicologica impiegato dai gruppi di potere, oggi contestati in varie forme, è la criminalizzazione del termine sovranità, spesso deformato e, nelle intenzioni, vilipeso, in “sovranismo”. Poi si arriva alla separazione tra manifestanti buoni e cattivi, a volte sfruttando l’inserimento di provocatori di regime. Nel caso francese, tra i fermati non si sono trovati i famigerati Black Block, ma solo infermiere, camionisti, contadini e altra gente ridotta allo stremo dagli assiomi della globalizzazione. Di fronte hanno l’uomo di Goldman Sachs, cioè della cima della Piramide.
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Stagnazione Secolare: politiche fiscali inadeguate o trappola della liquidità?
di Stefano Di Bucchianico
Politiche fiscali | Nei modelli economici della teoria dominante non è concepibile che politiche fiscali coraggiose guidino la crescita. Bisogna guardare ai modelli post-keynesiani. Il dibattito sulla Stagnazione Secolare e i suoi limiti
Un recente dibattito tra Larry Summers e Joseph Stiglitz apparso su Project Syndicate ha riacceso i riflettori sulla ‘teoria della Stagnazione Secolare’ (in seguito SS); successivamente, Paul Krugman ha preso parte alla diatriba con un intervento sul suo blog sul New York Times. Come si vedrà dalla ricostruzione del dibattito, a confronto vi sono la posizione di Stiglitz, che guarda alla stagnazione come risultato di una inadeguata politica fiscale espansiva, e quella di Summers e Krugman, i quali da un lato ritengono necessario uno stimolo fiscale in situazioni di trappola della liquidità, ma dall’altro giudicano la polemica di Stiglitz priva di contenuti realmente nuovi rispetto a quanto da loro proposto.
1. Il dibattito
La SS, coniata originariamente da Alvin Hansen (1939) durante gli anni ’30 a seguito della Grande Depressione che colpì gli Stati Uniti, è stata ripresa e riaggiornata negli ultimi anni da Larry Summers (2014, 2015). Krugman (1998) ne propose una versione embrionale già nei tardi anni ’90, discutendo le possibili cause della perdurante stagnazione giapponese; in seguito ha sostenuto la pressoché totale sovrapponibilità tra la sua spiegazione e quella data da Summers. Nella più recente versione di Summers la rilevanza della politica fiscale torna in auge; in situazioni di stagnazione persistente essa è giudicata preferibile rispetto alle misure di politica monetaria che convenzionalmente agiscono tramite un abbassamento del tasso di interesse di riferimento controllato dalla Banca Centrale. Tale prescrizione di politica economica sarebbe preferibile in quanto la politica monetaria avrebbe esaurito la propria efficacia una volta raggiunto il cosiddetto ‘zero lower bound’ sul tasso nominale dell’interesse di politica monetaria.
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Dell'immediatezza
Editoriale del n. 2 di Figure
È passato un anno da quando abbiamo pubblicato il nostro primo numero, dove abbiamo tentato di analizzare retoriche e immaginari legati al concetto di creatività, mostrandone la presenza costante e apparentemente immotivata all’interno della contemporaneità. Chiuso quel primo numero ci siamo guardati, stremati ma felici come lo si è dopo un primo travaglio, chiedendoci: e adesso? Una domanda semplice ma che sottintendeva quanto dovessimo ancora sforzarci non solo per farci conoscere (la presenza nei canali social e nel mondo reale), ma anche per individuare un nuovo nodo sul quale costruire il numero successivo.
A un anno di distanza eccoci qui. Il metodo è sempre lo stesso, basato sulla convinzione per cui una serie di fenomeni politico-economico-sociali non debba rimanere irrelato; che anzi proprio questa frantumazione dei nessi fra una realtà e l’altra, alla quale assistiamo quotidianamente, contribuisca alla determinazione di un pulviscolo intellettuale favorevole al mantenimento dello stato di cose. Al frammento continuiamo in questo numero a privilegiare la visione d’insieme, come ad un preciso corpo celeste preferiamo la costellazione all’interno del quale esso è innestato, nel tentativo di lasciar intravedere i legami latenti che, tra diversi universi di realtà, esistono. Allo stesso modo gli articoli presenti in questo numero potranno essere letti individualmente, ma potrebbero risuonare di un significato ulteriore se letti alla luce degli altri.
È cambiata invece la figura. Abbiamo intitolato il secondo numero della rivista Figure dell’immediatezza. Immediata è la percezione della realtà per come ci si para davanti.
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La sinistra, i "gilet gialli" e la crisi della forma soggetto
Note a proposito di un movimento in atto
di Clément Homs
1 - Decomposizione del capitalismo e crisi della forma soggetto: Gilet gialli, ideologie di crisi e populismo produttivo trasversale
I gilet gialli che si sono mossi per bloccare le rotatorie, le autostrade, o gli accessi alle zone commerciali - così come è avvenuto per altri movimenti sociali - esprimono fondamentalmente parte di quella multiforme esperienza negativa derivante dalle sofferenze sociali che il processo della valorizzazione in crisi, e la fine della congiuntura che, nel quadro di un «capitalismo inverso» (Trenkle & Lohoff, 2014), può continuare solo grazie al gonfiaggio del capitale fittizio infliggono agli individui rimasti intrappolati nella forma soggetto.
La questione della tassa sui combustibili fossili, vale a dire questa dimensione «anti-fiscale» del movimento dei gilet gialli, è solo apparentemente il motivo dell'azione, perché anche se questo contenuto ideologico non è affatto banale, e ci dice già molto della maniera in cui viene soggettivizzata la «blindatura» del soggetto moderno in crisi che reprime la propria determinazione politico-statale per credere di poter camminare senza stampelle, non è altro che la superficie dell'iceberg dei gilet gialli. Se questo obiettivo anti-tasse esprime già una forma di auto-rappresentazione del soggetto moderno adeguata alla «fine della politica» (Robert Kurz) e alla de-nazionalizzazione dello Stato, e costituisce quindi una delle forme di espressione del soggetto di crisi (homo oeconomicuis forever!), cosa che rende anacronistico ogni raffronto fra i gilet gialli e le rivolte fiscali premoderne dal XV al XIX secolo (cosa che invece non sembra capire Gérard Noiriel nel suo testo «Les gilets jaunes et les leçons de l'histoire» [**1], questa faccenda delle tasse è solo la goccia che fa traboccare il vaso di un'esperienza negativa ancora più vasta di quelle che sono le sofferenze sociali inflitte dalla relazione feticista-capitalista in crisi. Quello che i gilet gialli pongono, al di là della tassa sui prodotti energetici, è la questione più globale del calo del potere di acquisto.
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L’Inverno della ‘quinta onda’ di Kondrat’ev1
di Eros Barone
È possibile applicare la teoria delle ‘onde lunghe’ di Nikolaj Dmitrievič Kondrat’ev (1892-1938) allo studio della periodicità dei conflitti militari? La risposta è affermativa: infatti, l’economista russo ha individuato una correlazione tra lo scoppio delle guerre e la periodizzazione basata sulle ‘onde lunghe’ di durata cinquantennale, la cui manifestazione empirica è costituita dalla coincidenza dei grandi conflitti militari con l’apice dei cicli lunghi, coincidenza in forza della quale tali conflitti si verificano a ridosso delle fasi di prosperità economica. La coincidenza è comprovata sia dal ciclo delle guerre napoleoniche (1803-1815), sia dal ciclo delle guerre europee, in cui, fra l’altro, si inseriscono le guerre risorgimentali italiane (1853-1870), sia dal ciclo delle guerre imperialistiche (1904-1918). Anche qui l’opera di Mercurio si alterna a quella di Marte secondo una periodicità all’incirca cinquantennale. È tuttavia opportuno sottolineare che nel XX secolo la nozione stessa di ciclo economico perde la chiarezza che aveva nel XIX secolo, quando si conoscevano cicli di un solo tipo, quelli scoperti da Juglar,2 la cui durata varia in media dai nove agli undici anni. Nel 1923 Crum e, indipendentemente da lui, Kitchin constatavano, studiando le serie statistiche americane, la presenza di un ciclo più corto, di circa quaranta mesi. Qualche anno dopo un articolo di Kondrat’ev renderà accessibili agli economisti occidentali i risultati delle ricerche di questo studioso sovietico che aveva scoperto un ciclo lungo dalla durata all’incirca semisecolare.3
Kondrat’ev ha spiegato, alla luce del marxismo, il rapporto di causa-effetto che intercorre fra l’economia e la guerra: «Le guerre non cadono dal cielo e non derivano dall’arbitrio di singole personalità … Nascono dal sostrato dei rapporti reali, specialmente economici … e si succedono con regolare periodicità e soltanto durante la fase di ascesa delle ‘onde lunghe’ perché trovano ragione nell’accelerazione del ritmo e nella tensione della vita economica, nella intensificata lotta per i mercati e per le fonti di materie prime»4 .
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Ancora su David Harvey, Marx e la follia del Capitale
di Giovanni Di Benedetto
“Date la triste condizione e la traiettoria confusa del capitalismo globale dal crollo del 2007-2008, e date le loro conseguenze disastrose per la vita quotidiana di milioni di persone, sembra sia un buon momento per rivedere ciò che Marx era riuscito a capire. Forse qui c’è qualche idea utile per chiarire la natura dei problemi che abbiamo di fronte oggi”
(David Harvey, Marx e la follia del capitale).
In un precedente scritto dedicato al libro di David Harvey Marx e la follia del Capitale (Feltrinelli 2018) si è provato a fornire, in un compendio generale e provvisorio a un tempo, un resoconto del taglio complessivo utilizzato dall’autore per illustrare, marxianamente, il modo in cui le leggi del moto del capitale influenzano la vita quotidiana delle persone. Il libro, tuttavia, è ricco di spunti e di riferimenti problematici. Vale forse la pena individuarne almeno alcuni, che hanno destato l’attenzione di chi scrive, per svolgerli più distesamente.
Harvey si concentra innanzitutto nell’analizzare il ruolo svolto nella contemporaneità dal capitale produttivo di interesse, diventato uno dei fattori dell’accumulazione più decisivi e potenti. Anche se ne è risultato un incremento della funzionalità della circolazione, infatti, il risultato non sembra essere dei più felici: speculazione, crescita del debito, impazzimento del sistema bancario e via discorrendo mettono in discussione l’idea che possa esservi una qualche relazione, seppur contraddittoria, tra il denaro e il rapporto di valore sottostante. Peraltro, tale forma contraddittoria si amplifica ancora di più con l’accrescimento della complessità della divisione sociale del lavoro e dei rapporti di scambio.
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La sinistra dopo la sinistra
di Raffaele Cimmino
Scrive Alex Honneth: “E’ dalla fine della seconda guerra mondiale che non si registrava un’indignazione popolare di tale entità, alimentata dalle dinamiche sociali e politiche innestate dalla globalizzazione dell’economia … stante il disagio crescente è come se venisse a mancare la capacità di pensare a qualcosa in grado di spingersi oltre l’esistente, di immaginare una realtà sociale oltre il capitalismo. La divaricazione tra sdegno esperito e una qualsivoglia aspettativa futura e lo svincolamento della protesta da ogni visione di un possibile miglioramento è un fenomeno effettivamente nuovo nella storia delle società moderne a iniziare dalla Rivoluzione francese”(1).
La presa d’atto di questo stato di cose è il livello minimo dal quale fare ripartire ogni riflessione e ogni possibile rifondazione, se si passa il termine, della sinistra nello spazio nazionale e in quello europeo. Ma non si avanza di un passo né sulla questione della crisi della sinistra né nel contrasto alla destra se non si affronta la questione cruciale che affonda tutta ancora nei ruggenti anni ’90 – e in verità anche prima. Per dirne una, la globalizzazione, che per i suoi cantori di sinistra sembrava un processo progressivo e inarrestabile. Aver assunto questo polo discorsivo ha lasciato del tutto sguarniti davanti alla de-globalizzazione, o globalizzazione nazionalista, che ha la sua espressione più visibile nella presidenza Trump e nella guerra dei dazi in corso.
Finita la fase ascendente della liberalizzazione globale, che doveva portare ovunque la democrazia e decretarla “fine della storia”, si assiste al ritorno alla luce del sole di conflitti per il controllo del mercati e dei flussi di merci, mentre la rivoluzione digitale apre la prospettiva della cancellazione di milioni di posti di lavoro, non sostituibili se non cambia il modello di sviluppo. Tutto dice che siamo non più soltanto ai prodromi di una transizione egemonica da Occidente e Oriente: le rumorose farneticazioni di Trump e il silenzioso lavorìo della leadership cinese sono manifestazioni eloquenti(2).
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Contro l’universalismo (debole) dei diritti umani
Appunti per una nuova “politica di classe” in Italia
di Lorenzo Cini e Niccolò Bertuzzi*
È utile mettere al centro del discorso politico l'individuo? E qual è il rapporto fra individuo e soggetti collettivi? Che ruolo svolgono le identità religiose e culturali nel processo di emancipazione? A partire dal saggio di Cinzia Sciuto, "Non c’è fede che tenga", gli autori propongono una disamina critica della teoria dei diritti umani, considerata un universalismo "falso e, soprattutto, dannoso", al quale contrappongono la necessità di una nuova politica di classe
Disclaimer. Questo è un articolo polemico. La polemica è rivolta a chi ancora oggi spaccia vecchie idee come nuove ricette nel dibattito politico sul come rilanciare la sinistra in Italia. Punto di partenza e spunto per la nostra riflessione è la ricezione complessivamente positiva che in questo dibattito sta avendo il libro di Cinzia Sciuto, Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (Feltrinelli 2018), una disamina critica ben fondata e, per molti aspetti, condivisibile sull’adozione di approcci multiculturalisti in società multietniche (come potrebbe ben presto diventare la società italiana).
Tuttavia, il libro spesso acquisisce una vita propria e, con essa, anche il contenuto originario si rende indipendente, giungendo così a significare qualcosa di completamente diverso. Questo ci sembra precisamente il caso del volume sopracitato, la cui divulgazione in Italia ha suscitato un rilevante dibattito pubblico, sulla necessità di rimettere al centro del vocabolario progressista la politica dei diritti individuali. Nucleo centrale di questa tesi è la seguente proposizione: per portare avanti un nuovo e coraggioso progetto riformatore occorre rilanciare con forza la politica dei diritti umani. In particolare, diritti umani da contrapporre ad ogni forma di autorità e identità religiosa e culturale. Lo diciamo subito: a noi questo approccio non convince. Non ci sembra coraggioso e onestamente nemmeno efficace. Ma soprattutto non aggiunge nulla di innovativo nell’odierno scenario politico, incancrenitosi nella contrapposizione apparentemente alternativa tra “sovranisti” e “globalisti”. A nostro modo di vedere, la politica dei diritti individuali non solo non offre un’alternativa credibile, ma di fatto propone un punto di vista che può potenzialmente piacere, su vari aspetti, ad entrambe le fazioni. Più radicalmente, la retorica liberale dei diritti umani contribuisce a rafforzare la dicotomia conservatrice tra “nuovi” nazionalisti e “nuovi” liberali.
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Aprire la storia
di Antonio Martone
Recensione a: Fabrizio Marchi, Contromano. Critica del politicamente corretto, Zambon 2018
In un tempo in cui vengono stampati testi, nel migliore dei casi, di mera erudizione o atteggiati in maniera filosoficamente storiografica, il libro di Fabrizio Marchi segna uno scarto patente quanto potente.
Fin dalla modalità espressiva, per nulla accademica ma anzi costruita sulla base di scandagli di pensiero puntuali e concretissimi, si comprende assai chiaramente che il volume intende porsi come un documento di rottura. Insomma, abbiamo a che fare con un libro che non nasconde di voler essere interferente e contromano – appunto – rispetto al mainstream del pensiero e della prassi politica contemporanea.
In quale maniera, pertanto, Marchi intende manifestare il proprio essere eretico? Quali sono gli argomenti sulla base dei quali l’A. si spinge a sostenere la sua eterodossia rispetto all’ortodossia del nostro tempo, smascherandone così la falsa coscienza e mettendo a nudo le sue contraddizioni? E, preliminare a tutto ciò, che cosa afferma oggi il pensiero e la prassi politica dominante?
L’intero scenario politico contemporaneo, per Marchi, dal sovranismo di destra, al liberal-capitalismo interclassista e multinazionale di sinistra, appare all’A. diviso soltanto su fatti marginali e contingenti, poiché in realtà esso condivide fortemente i valori e gli obiettivi fondamentali, ossia l’appartenenza indiscutibile e a-problematica all’orizzonte del mercato capitalistico e all’attuale strutturazione delle classi.
Mentre in altre fasi storiche del capitalismo occidentale la triade Dio, Stato e famiglia costituiva un punto di riferimento fortissimo e, di fatto, con quella triade ideologica, il potere aveva assolto assai bene la sua funzione di “verità/sapere, oggi quella triade non appare più consona alla mutata condizione storica. Il capitalismo – è noto a tutti – costituisce una struttura mobile che deve la sua forza fondamentale alla capacità spregiudicatamente metamorfica. La triade di un tempo, così, si è mutata in altre parole d’ordine, finalmente adatte al contemporaneo.
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Le miserie della flat tax e gli strali dei liberisti
di coniarerivolta
Mentre il Governo inizia a calare le braghe sulla dimensione della manovra, proviamo in questo contributo a tenere alta l’attenzione sul contenuto della stessa, focalizzandoci sugli interventi previsti in materia fiscale.
Transitata nei meandri del convulso dibattito politico che ha preceduto la finanziaria di settembre, la cosiddetta flat tax, nome in codice propagandistico della riforma fiscale voluta dal governo, è infatti entrata nella Legge di bilancio in modo fortunatamente assai ridimensionato, depotenziando fortemente la sua stessa natura costitutiva. Al momento, data la transitorietà della stessa manovra finanziaria sottoposta ad una prima bocciatura dell’UE e quindi ad un iter di probabile modifica, non sappiamo se la riforma fiscale disegnata sarà davvero definitiva. Possiamo però limitarci a capirne la sostanza e a svelare, ancora una volta, la natura miserevole del dibattito che si è scatenato attorno a tale misura.
Dal mito dell’aliquota unica su tutti i redditi al 15% propagandato dalla Lega in campagna elettorale, si era al principio passati all’idea di una tassa duale con doppia aliquota al 15% fino a 75.000 euro e al 20% oltre tale soglia. Nella legge di bilancio, invece, appare una misura assai diversa, ovvero un’estensione del già esistente regime forfettario riservato ai redditi indipendenti (di lavoro autonomo o di impresa) dalla soglia di 30.000 di fatturato alla soglia di 65.000. Incerto, ma probabile, l’ampliamento del regime alla fascia da 65.000 a 100.000 euro con un’aliquota del 20% a partire però dal 2020. Insomma niente flat tax, ma una pallida flataxina o, meglio ancora, una mera modifica quantitativa del regime forfettario. Ma di cosa si tratta?
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Manovra 2019: problema di spread o di qualità?
La tesi dell’espansione restrittiva di Blanchard e Zettelmeyer e tutti i suoi limiti
di Felice Roberto Pizzuti
Manovra 2019. Spread e reazione dei mercati possono compromettere l’efficacia della manovra economica italiana? Felice Roberto Pizzuti contesta questa nuova tesi di Blanchard e Zettelmeyer e spiega che quello che conta non è lo spread ma la qualità delle misure previste
1. Nel dibattito sulla Nota aggiuntiva al documento di economia e finanza (Nadef) 2018 si evidenziano contributi anche autorevoli che, tuttavia, rischiano di aumentare gli elementi di confusione che lo caratterizzano. La manovra, anche per come viene presentata dal Governo nelle trattative con l’Unione europea (UE), presenta delle criticità che ne pregiudicano l’efficacia e, nel suo insieme, mostra di non avere la visione di lungo respiro necessaria ad affrontare i problemi organici della nostra economia, approccio che sarebbe particolarmente congruo all’inizio di una legislatura “di cambiamento”. Tuttavia, le critiche che la manovra merita non dovrebbero distogliere l’attenzione dalla maggiore pericolosità insita in altri ingiustificati rilievi che le sono rivolti con i quali si cerca di riproporre la stessa concezione economica della “austerità espansiva” già rivelatasi molto dannosa non solo per il nostro paese, ma per la stessa costruzione europea la quale, peraltro, è resa sempre più necessaria dall’evoluzione degli equilibri economici e politici globali.
2. In un articolo tradotto sulla Voce.Info del 27 ottobre[1], O. Blanchard (tra l’altro, ex capo economista del FMI) e J. Zettelmeyer (tra l’altro, ex direttore generale per le politiche economiche del Ministero tedesco degli Affari economici e l’energia), attualmente entrambi membri del Peterson Institute for International Economics, sostengono che l’obiettivo della crescita del Pil perseguito dal governo italiano con l’aumento del deficit di bilancio al 2,4% non sarà raggiunto poiché l’intento espansivo sarà più che compensato dall’effetto contrario derivante dall’aumento dei tassi d’interesse provocato dalla stessa manovra.
I due autori (B&Z) concordano che “Nonostante ”strette fiscali espansive” e “espansioni fiscali restrittive” siano teoricamente possibili, una politica fiscale espansiva generalmente aumenta la produzione e una restrittiva la rallenta – anche in paesi con un alto debito pubblico”.
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