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Non è un mondo per far figli
di Dante Barontini
Immancabili, come ogni anno, i dati Istat sull’andamento demografico del paese registrano un deciso segno meno”. Che non è grave soltanto in sé, ma soprattutto perché conferma una tendenza di lunghissimo periodo.
Dal 1964 a oggi sono stati pochissimi gli anni in cui le nuove nascite sono state più numerose dell’anno precedente, ma anche a uno sguardo disattento balza agli occhi che la dimensione delle diminuzioni è sempre alta, mente i “rimbalzi” sono sempre appena percettibili.
Il risultato finale, al 2023, non lascia dubbi: i nuovi nati sono stati l’anno scorso 379mila, oltre il 60% in meno del milione e più registrato nel 1964.
Appare scontato, come sempre, che il “tasso di sostituzione” generazionale – a questo livello – non garantisce più la tenuta complessiva del paese, sia per quanto riguarda la produzione di ricchezza, sia per tenuta dei conti pubblici futuri (meno gente al lavoro significa meno entrate fiscali), sia – persino – per le fantasie macabre dei guerrafondai che cominciano a indicare la “leva obbligatoria” come via maestra per contribuire alla guerra contro Russia, Cina e chiunque capiti a tiro.
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Una guida alla lettura del futuro (e del presente)
di Norberto Fragiacomo
Una volta che sia stato rimosso il passato (quello prossimo insieme al remoto) e la Storia sia stata ridotta a cronaca giornalistica, se non a un pettegolezzo incentrato sul qui e ora, qualsiasi accadimento presente acquista un carattere di inedita novità, il raffronto con vicende precedenti diviene improponibile e, di conseguenza, risulta agevole per un sistema informativo monopolistico convincere il suo uditorio che una narrazione di comodo o addirittura artefatta sia veridica.
Lo schema da seguire è abbastanza semplice, e in genere si rivela efficace: il messaggio da diffondere non dev’essere troppo complesso e va ripetuto senza modifiche sostanziali fino allo sfinimento, affinché si imprima nelle menti del gruppo bersaglio e assurga a “senso comune”; per funzionare deve fare appello alle emozioni piuttosto che alla riflessione, gratificando l’ascoltatore (crociata antirussa) o, all’opposto, colpevolizzandolo (tema migranti). Ovviamente il propalatore ha necessità di accreditarsi agli occhi del proprio pubblico, sfoggiando un’autorevolezza derivante dal ruolo ricoperto all’interno della società oppure da un “certificatore” terzo, che può essere un’autorità morale o una disciplina scientifica. Più la versione è banale e manichea e meglio attecchisce, ma occorre ridurre – e ove possibile eliminare – le interferenze: le critiche espresse da chiunque contraddica la “verità rivelata” non vanno perciò prese in considerazione, ma ridicolizzate assieme al dissenziente, oggetto di un’azione delegittimante e demolitrice.
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Mamma li Russi! Ma i vertici europei temono i loro elettori più di Putin
di Gianandrea Gaiani
Negli ultimi due anni ci siamo sorbiti continue prediche sulla disinformazione di russi, filo-russi e “putiniani” nonostante anche Ucraina, UE, NATO e i governi occidentali ci abbiano “bombardato” di bufale, fake-news e propaganda che, a dispetto dell’intenso fuoco mediatico, non sembrano aver prodotto grandi risultati osservando l’orientamento dell’opinione pubblica europea rispetto al conflitto.
Anche in passato ci siamo occupati di come i media abbiano seguito per lo più da “tifosi” il conflitto in Ucraina (vedi l’editoriale “Credere, Obbedire, Soccombere” del febbraio 2023) ma recentemente alcune vicende hanno riportato questo tema alla ribalta.
Due importanti direttori di testate giornalistiche, Paolo Liguori alla testa di TGCOM24 e Maurizio Belpietro che dirige Panorama e La Verità, hanno espresso su questo tema valutazioni impietose. Liguori ha sottolineato come i media statunitensi siano molto più liberi di quelli italiani ed europei per la diffusione di notizie e valutazioni sul conflitto in Ucraina e il ruolo di Stati Uniti e Occidente nel favorirlo che la gran parte dei nostri organi d’informazione ignorano mentre, commentando la vittoria elettorale di Putin, Belpietro ha accusato media e politici di aver mentito per due anni.
Critiche confermate anche dal taglio con cui sono state diffuse un paio di notizie nei giorni scorsi. Leggendo i titoli di buona parte dei media italiani il 28 marzo scorso sembrava che Vladimir Putin avesse minacciato di aggredire NATO ed Europa nonostante che la notizia da titolo cubitale per prima pagina e apertura dei TG avrebbe dovuto essere di taglio opposto considerato che Putin ha definito l’ipotesi di attaccare nazioni europee una “totale assurdità”.
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Al ladro! Anarchismo e filosofia di Catherine Malabou
di Marc Tibaldi
Al ladro! Anarchismo e filosofia di Catherine MalabouElèuthera, Milano 2024, 374 pagine, 23 euro
Non è un libro per gli anarchici, è per tutti, proprio perché segnala spie d’allarme, nodi da sciogliere, connessioni necessarie, che possono servire a ogni individuo o gruppo sociale che voglia agire in maniera efficace nella realtà. Qual è il nocciolo duro dell’anarchismo politico? L’anarchismo condivide con altri pensieri politici concetti, tensioni, pratiche: solidarietà, mutuo appoggio, autogestione, federalismo, non sono patrimonio esclusivo del movimento che fa riferimento a pensatori quali Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Goldman, eccetera. Quello che invece è peculiarità del solo anarchismo è la messa in discussione, la negazione, di ogni autorità, potere, dominio (su differenze e analogie tra questi concetti è ancora dirimente il saggio di Amedeo Bertolo, pubblicato nel 1983 e disponibile in “Anarchici e orgogliosi di esserlo”, Elèuthera: “Il dominio è possesso privilegiato del potere. I detentori del dominio si riservano il controllo del processo di produzione di socialità, espropriandone gli altri”). Ora, si può deridere questa idea come sogno utopico, chi invece vuole ragionare in maniera non banale, senza ripetere gli errori del passato, è obbligato a prenderla in considerazione.
Come fa questo libro che inizia con una definizione precisa dei termini “anarchia” e “anarchismo” e della loro storia, e una panoramica delle questioni politiche contemporanee che rendono necessario un ripensamento di questi termini e del loro potenziale emancipatorio. Malabou presenta la riflessione di alcuni filosofi proprio sulla questione del potere. “La mia analisi del dominio si concentra su sei pensatori cruciali per la filosofia contemporanea che hanno posto l’anarchia al centro della loro riflessione smarcandosi però dal suo esito, l’anarchismo politico.
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Anche l’Italia è un paese fuorilegge?
di Franco Maloberti
Ho letto un articolo di un americano, Karl Sanchez, che sul suo Substack [1] si pone la stessa domanda relativamente agli USA. La sua analisi parte dalla carta delle Nazioni Unite e, in particolare, l’articolo 2, che al punto 3 dice:
Tutti i Membri risolveranno le loro controversie internazionali con mezzi pacifici in modo che la pace, la sicurezza e la giustizia internazionali non siano messe in pericolo.
Sembra evidente che quanto disposto da questo punto e i successivi siano disattesi non solo dagli USA ma anche da tutte le nazioni che fanno parte della NATO, inclusa l’Italia, e, quindi, sarebbero tutte fuorilegge. Per quanto ci compete, non si può pensare che le controversie tra Russia e Ucraina abbiano riguardato in qualsiasi modo l’Italia, e che l’autorizzino a parteggiare, assieme al cosiddetto occidente, per “difendere” una fazione. In verità, sono stati gli USA, a cui siamo “associati”, che hanno soffiato sul fuoco, istigando e finanziando i contrasti. Tutti sanno che Victoria Nuland è stata protagonista e artefice della politica statunitense in Ucraina (dalla gestione della “rivoluzione del Maidan” nel 2014 al radicamento del controllo di Washington sul governo di Kiev). Il tutto è documentato, incluso il fatto che gli USA hanno investito al dicembre 2013 cinque miliardi di dollari, come ufficialmente indicato dal Dipartimento di Stato USA nel documento [2] e dichiarato dalla stessa Nuland alla US-Ucraine Foundation Conference del 13 dicembre 2013. Solo i ciechi e le cheerleader che si fanno chiamare giornalisti non lo vedono. Dove siano i mezzi pacifici per risolvere le controversie è un mistero e sarebbe bene che il nostro ministro della difesa, ad esempio, spiegasse come le armi inviate in Ucraina (con elenco secretato) siano mezzi pacifici usati dall’Italia per risolvere le controversie internazionali. Se le armi non sono un mezzo che favorisce la pace, allora si deve parlare, anche per l’Italia, di comportamento fuorilegge.
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Fascista è chi fascista fa
di Alba Vastano
"… Il problema è stabilire chi non è in parte coinvolto nella legittimazione del fascismo come metodo, cioè quanto fascismo c’è in quelli che si credono antifascisti. Non tutto è fascismo, ma il fascismo ha la fantastica capacità, se non vigiliamo costantemente, di contaminare tutto” (Michela Murgia)
‘Essere democratici è una fatica immane. Allora perché continuiamo a esserlo quando possiamo prendere una scorciatoia più rapida e sicura?’. Così Michela Murgia, la scrittrice sarda recentemente scomparsa, nel suo pamphlet del 2018 dal titolo provocatorio: ‘Istruzioni per diventare fascisti’.
Con una originale sapienza dialettica, com’era suo stile di comunicazione in ogni dibattito pubblico e nel relazionare sulle grandi ingiustizie e ineguaglianze che affliggono le società odierne, Michela Murgia, nel suo saggio, ci invita a sottoporci a un’analisi introspettiva, perché emerga la parte nera del nostro modo di vedere il mondo. Solo prendendo consapevolezza della parte buia, insita in noi, eredità dall’eterna storia dei potenti contro i più fragili per privarli della libertà e dominarli, potremmo tentare di recidere drasticamente i relitti di quel buio passato.
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Voglia di Rivoluzione. Tra censure e bugie la libertà svanisce
di Vincenzo Maddaloni
I due anni della pestilenza da Covid-19 si sono rivelati una grande imprevedibile opportunità per testare il livello di ubbidienza che, si può ottenere applicando un regime disciplinare come lo è stato l’obbligo di vaccinarsi, appunto.
La narrativa secondo la quale il barbaro no-vax e chi lo sostiene rappresentano il Male, e quindi vanno denigrati, censurati, emarginati, criminalizzati ha funzionato. Pertanto, lo stesso identico canone è stato applicato su una nuova dicotomia buono-cattivo nella politica internazionale.
Stesso manicheismo, stessa censura, stessa martellante propaganda con l'invito a schierarsi dalla “parte giusta”, stessa creazione di un'opinione pubblica a molla che reagisce pavlovianamente con strabuzzamenti d'occhi e sdegni emotivi.
Ora, diciamo una cosa semplice e, spero, chiara.
Nei sistemi formalmente democratici il potere passa attraverso il dominio dell'opinione pubblica. Idealmente in un sistema di pluralismo dell'informazione, della ricerca, del dibattito, l'opinione pubblica dovrebbe formarsi liberamente e approssimare il vero attraverso la ragione dialettica.
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Il terrorismo ucraino e le velleità interventiste occidentali
di Fabrizio Poggi
L’avesse compiuto, per dire, il Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, un gesto come quello del suo omologo britannico David Cameron, recatosi in “visita di lavoro” da Donald Trump in USA, intrattenendosi – magari – in Germania, con Sahra Wagenknecht, per di più alla vigilia delle elezioni, il coro liberal avrebbe subitamente gridato alle «interferenze russe nei processi democratici dei paesi liberi».
Ma fatto tra “alleati”, per di più di estrazione anglosassone, la cosa rientra nella normalità e, trattandosi della “democratica Ucraina aggredita dal dispotismo russo”, la faccenda diventa addirittura “doverosa”, dato che quei testardi di repubblicani yankee non si decidono a sbloccare i fondi per la junta nazigolpista di Kiev.
E poi, gli “alleati” europeisti già danno Joe Biden per liquidato e dunque, essendo la cosa della massima urgenza, più pratico trattare direttamente col probabile prossimo presidente USA.
C’è quantomeno da tentare di dar continuità a quel fiume di soldi che, in larghissima parte ha preso e prende la strada Occidente-Ucraina (a scapito beninteso non dei capitali occidentali, bensì delle spese sociali delle masse popolari), ma che non ha tralasciato il percorso Kiev-Cipro-Kiev.
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Israele non vince, Hamas non perde - LA PALESTINA ACCENDE IL MONDO - Quisling collaborazionisti fuorigioco
di Fulvio Grimaldi
Byoblu-“Che idea ti sei fatto”. Davide Porro con Roberto Hamsa Piccardo, già rappresentante delle comunità islamiche in Italia, Fulvio Grimaldi, Lorenzo Bernasconi, Istituto Machiavelli
https://www.byoblu.com/2024/04/08/gaza-orrore-senza-tregua-che-idea-ti-sei-fatto/
Un’analisi di cosa succede e di cosa si prospetta in Medioriente, a partire dal genocidio in atto a Gaza, dalla rivolta generale palestinese, dallo scontro tra Stato Sionista e Asse della Resistenza in Libano, Siria, Iraq, Yemen, all’indomani dell’attacco israeliano all’ambasciata iraniana a Damasco.
Una panoramica che parte dalla ritirata della FOI (Forza di Offesa Israeliana) dalla metà sud di Gaza, dopo sei mesi di offensiva del presunto “esercito più potente del Medioriente” che non è riuscito a controllare la Striscia, annientare Hamas e a ottenere il rilascio dei coloni israeliani catturati. Sconfitta secca. Catastrofe morale irreversibile.
Ciò che viene sempre trascurato, anche in ragione di una pervicace disinformazione dei noti media di servizio, è la feroce repressione condotta in Cisgiordania dai coloni, affiancati dalla FOI, contro quanto rimane della presenza autoctona, che si vorrebbe destinata, qui come a Gaza, a scomparire dalla faccia della Terra.
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9 Aprile di sciopero per la Palestina: dalle università, alle fabbriche e ai porti, costruiamo una vera mobilitazione generale!
di Mattia Giampaolo
In vista della settimana di mobilitazione dei lavoratori all’interno dell’accademia italiana, proponiamo qui un resoconto delle linee d’intervento del movimento negli ultimi mesi, mettendo al centro i punti politici principali che stanno caratterizzando le proteste dei lavoratori e delle lavoratrici dell’università di concerto con i movimenti studenteschi. Si tratta di una riflessione che vuole essere un punto di partenza che ci porti allo sciopero del 9 aprile di tutto il mondo universitario, una data che deve essere un punto di partenza per estendere la lotta a tutta la classe lavoratrice.
* * * *
Le azioni militari contro la Striscia di Gaza, così come l’intensità dell’occupazione dei Territori Occupati palestinesi in Cisgiordania e della repressione dei cittadini palestinesi all’interno di Israele aumentano ogni giorno di più. Le cifre dei morti ammazzati sono sotto gli occhi di tutt*; allo stesso tempo, non è passato in sordina il più grande furto di territorio da parte dei coloni israeliani, spalleggiati dallo stato sionista, buono per 800 ettari della Cisgiordania occupata. Di fronte a tutto a ciò, al di là della retorica della cosiddetta comunità internazionale, sembra non esserci alternativa se non quella della mobilitazione internazionale che non si limiti alla mera denuncia, ma che prenda azioni concrete che colpiscano gli interessi economici e politici che sottostanno al genocidio del popolo palestinese.
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“Sul genocidio in Ruanda una disinformazione gigantesca”
Geraldina Colotti intervista Rosa Moro
Trent’anni dopo il genocidio in Ruanda, innescato dall’abbattimento dell’aereo privato su cui viaggiavano il presidente del Paese e il suo omologo del Burundi, e spacciato per l’esplosione di un conflitto etnico tra Hutu e Tutsi, si continua a discutere sulle cause del massacro di quasi un milione di persone. Dopo tre decenni, si evidenziano implicazioni che gettano una luce meno semplificata su quegli eventi drammatici: a cominciare dal ruolo delle grandi potenze che cercavano di accaparrarsi le enormi risorse strategiche nella regione dei Grandi Laghi dopo la caduta dell’Unione Sovietica.
Ed ecco un punto su cui si concentra il libro della spagnola Rosa Moro, intitolato “El genocidio que no cesa”, Il genocidio che non finisce, edito da Umoya. Moro, giornalista e analista internazionale, riprende le analisi, le inchieste e i documenti di numerosi studiosi africani antimperialisti, definendo, con le parole di Charles Onana, quel genocidio “un capolavoro di disinformazione, una perfetta intossicazione”. Con lei abbiamo parlato del libro e del genocidio, nel contesto dell'Africa di allora e di oggi.
* * * *
Qual è la sua interpretazione del genocidio? Perché sono state evidenziate le appartenenze etniche di tutsi e hutu a scapito delle differenze di classe?
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Il silenzio dopo Gaza? Un seminario per ripensare umanismo e antiumanismo*
di Valerio Romitelli
I
Nel 1949, fu detto, da Adorno, che dopo Auschwitz anche far poesia sarebbe divenuto atto barbaro[1]. Che si potrà dire dopo Gaza? Il timore è che non se ne dirà nulla: che l’orrore della disumanità sarà diventato normalità.
La svolta in atto nella nostra civiltà, che si tenga o meno a questa parola, è comunque clamorosa. Per averne una qualche misura occorre quanto meno risalire ai primi anni Novanta, quando a seguito del crollo dell’Urss nulla parve più moderare l’euforia dell’impero americano. La sua immagine da trionfatore del XX secolo poteva allora arricchirsi di un nuovo trofeo: dopo la vittoria su nazifascismo, poteva infatti vantare anche la disfatta di quella patria del comunismo già sua alleata e concorrente principale sulla scena mondiale. Venne quindi il gran momento delle dottrine neoliberali accompagnato da altri fenomeni per lo più mai visti, quali la globalizzazione dei mercati, il diffondersi della rivoluzione informatica, la fede in una definitiva democratizzazione dell’intero pianeta. A consacrare questa aura magica scorsero fiumi d’inchiostro tra i quali eccelse il celeberrimo libro di Fukuyama sulla fine della storia[2].
La storia stessa, come concetto designante il divenire controverso e incerto dell’umanità, si trovò così screditata: anche le sue figure protagoniste fino ad allora più riconosciute a livello di opinione cominciarono a divenire quanto meno sospette. Va da sé che il bersaglio grosso più o meno dichiarato era quella concezione che aveva istruito più generazioni del personale dirigente degli stati socialisti e dei partiti comunisti, oltre che dei militanti di movimenti “di classe”: la concezione materialista della storia come storia della lotta di classe.
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L’indispensabile servizio sanitario pubblico
di Chiara Giorgi
Il premio Nobel Giorgio Parisi e altri tredici scienziati hanno lanciato l’appello “Non possiamo fare a meno del servizio sanitario pubblico” chiedendo al governo un finanziamento della sanità adeguato a mantenere i risultati finora ottenuti nella tutela della salute. È una mobilitazione che ci riguarda tutti
Ci vuole un premio Nobel e alcune delle firme più prestigiose del mondo scientifico per fare arrivare in prima pagina il dramma della sanità pubblica italiana sotto l’attacco del governo Meloni. Un attacco che segue anni di politiche di austerità, la pandemia da Covid-19, una crisi sanitaria e socio-economica di vasta portata, aggravata dalle conseguenze dell’inflazione.
È stato pubblicato il 3 aprile il documento “Non possiamo fare a meno del servizio sanitario pubblico” firmato da quattordici scienziati e intellettuali, tra cui il fisico Giorgio Parisi, Enrico Alleva, Nerina Dirindin, Silvio Garattini, Paolo Vineis.
Si chiede un finanziamento del Servizio sanitario nazionale (SSN) che passi dal 6,2% previsto per il 2025 ad almeno l’8%, pari agli standard degli altri paesi europei. Senza queste risorse il SSN rischia di perdere il ruolo che ha avuto fin dalla sua nascita per tutelare la salute di tutti gli italiani, migliorare la qualità della vita della popolazione, combattere gli squilibri e le diseguaglianze sociali e territoriali del paese, superando le storture del precedente sistema mutualistico, garantire servizi di cura nell’interesse di ogni singola persona e della collettività.
I problemi che oggi affliggono il SSN – ricordati anche nell’appello – sono numerosi: una forte riduzione della spesa sanitaria in termini reali, i processi di privatizzazione favoriti dal dirottamento di risorse pubbliche verso la sanità privata e oggi il disegno di legge sull’autonomia regionale differenziata che farebbe esplodere le disparità di salute.
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La tendenza e il residuo: a partire da Arrighi, Lin Biao, Gosh, Keller Easterling, Liu Cixin, Panzieri e Anders
di Franco Berardi “Bifo”
In vista dell’incontro di presentazione della nuova edizione del libro di Giovanni Arrighi e Beverly J. Silver, Caos e governo del mondo (Mimesis, Milano, 2024), che si svolgerà sabato 6 aprile a Milano (Libreria Aleph, h. 15.00), pubblichiamo un intervento di Franco Berardi “Bifo”
“A partire dagli anni Sessanta Arrighi si era impegnato (nel confronto con Amin, Franck, Wallerstein) nella costruzione di un modello interpretativo che tenesse insieme la questione del dominio spaziale e quella del dominio di classe…” (pagina 12)
Con queste parole, nella sua introduzione al libro Adam Smith a Pechino, Salvo Torre delinea il senso generale dell’azione teorica condotta da Giovanni Arrighi.
L’espressione “dominio di classe” si riferisce alla tendenza fondamentale del capitalismo che è la trasformazione del tempo in valore, e l’accumulazione di valore grazie alla sottomissione del lavoro umano ridotto ad astrazione.
L’espressione “dominio spaziale” si riferisce all’estendersi territoriale del dominio del capitale, nelle forme del colonialismo, dello schiavismo, del genocidio e dell’ecocidio.
Il pensiero di Marx costituisce uno sforzo titanico mirato a ridurre l’infinita varietà degli eventi del mondo a una tendenza iscritta nella relazione tra gli uomini, e più precisamente nei rapporti di produzione che di quella infinita varietà sono la fonte e la misura. Quello sforzo titanico non era (nelle intenzioni del titano) meramente descrittivo, ma implicava l’azione pratica della minoranza cosciente della società, un’azione che definiamo lotta di classe.
Il cuore dell’evoluzione storica sta nell’intreccio di tendenza all’astrazione (trasformazione in valore del tempo concreto) e persistenza del residuo (il proliferare di eventi e di cose esterne al processo di astrazione).
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Complessità e politica
di Pierluigi Fagan
Ricerca sull’ambiente teorico che ha indagato i nessi, relazioni e problematiche tra complessità e teoria politica
La cultura della complessità, non si è mai davvero confrontata e declinata sull’aspetto politico. L’unico che lo ha fatto è stato per certi versi Edgar Morin, amico personale e intellettuale del filosofo greco-francese Cornelius Castoriadis[i], fautore della democrazia radicale (vedi NOTA finale) quale anche chi scrive aderisce ideologicamente.
Morin[ii], politicamente, seguirà una parabola che lo porterà da ambienti e convincimenti di area marxista postbellica ad altri successivi di area socialista a seguito della presa di distanza dall’URSS che coinvolse buona parte dell’Intellighenzia francese, dentro una impostazione filosofica decisamente neo-umanista[iii], con forte sensibilità al contesto ecologico. Arriverà così a uno dei suoi temi preferiti che è quello della navicella spaziale Terra e quindi Terra-Patria[iv] per tutti noi, pur divisi in gruppi a volte reciprocamente animosi, una comunità di destino obbligata. Siamo nell’alveo delle idee che discendono da James Lovelock (un irregolare di questa cultura), cioè Gaia, a cui poi ha di recente puntato anche Bruno Latour[v]. Su questa strada si è di recente incamminato in riflessione anche Peter Sloterdijk[vi].
Ne “I miei filosofi”[vii], onorati Eraclito e Spinoza, Morin ammira il coraggio autodidatta di Rousseau e si confronterà poi con l’enigmatica nozione di “volontà generale”, parallela per problematicità a quella di “interesse generale”. In breve, si tratta di un problema sistemico. Un sistema è fatto di parti, ma interesse e volontà delle parti, sommate, non danno volontà e interesse generale dove il generale è del sistema non delle parti (teorema di Kenneth Arrow, in parte discusso criticamente poi da Amarrtya Sen).
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Siamo la scorta mediatica dei massacri
di Raffaele Oriani
Il 25 febbraio l’aviere statunitense Aaron Bushnell si dà fuoco in divisa davanti all’ambasciata israeliana di Washington. Aaron ha 25 anni, ci sono foto che lo ritraggono sorridente, paffuto, il classico ragazzone americano con tutta la vita davanti. Prima di immolarsi scrive un post su facebook: “È capitato a molti di noi di chiedersi ‘Cos’avrei fatto al tempo della schiavitù? O dell’apartheid? Cosa farei se il mio Paese commettesse un genocidio?’ La risposta è quello che stai facendo ora. Proprio ora”. Alla Corte di giustizia dell’Aja si sta dibattendo se quello che succede a Gaza in risposta ai massacri di Hamas del 7 ottobre sia o meno un genocidio. Con una sentenza provvisoria la stessa Corte ha riconosciuto la “plausibilità” del genocidio. Ci sono i morti, certo – tra accertati e dispersi al momento quasi 40mila. Ma non solo. C’è la distruzione di tutto. Ci sono le dichiarazioni dei leader politici israeliani, che fanno intendere la volontà non solo di sconfiggere ma di sterminare il nemico: ricordatevi di Amalek, ha detto il premier Netanyahu in un’allocuzione alle truppe, con implicito riferimento al passo biblico che invita a “uccidere uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini”. E poi ci sono le immagini che i soldati israeliani si scambiano freneticamente nei social: “Questa è dedicata a mia figlia, la principessa Ayala per il giorno del suo secondo compleanno” ride un soldato mentre fa saltare una casa palestinese. “Eccoli, gli unici civili innocenti” ride un altro, filmando due capre che brucano. Da sei mesi a Gaza succedono cose che non siamo abituati a vedere. Le vediamo poco, in realtà. Ma sono così gravi che, anche se la Corte dovesse decidere che questo non è un genocidio, la domanda del soldato Aaron continuerebbe a interrogarci: “Cosa facciamo noi mentre accade tutto questo?”.
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Considerazioni sulle lotte sindacali dei lavoratori dell'auto statunitensi
di Ezio Boero
Dal numero 6/2024 di “Collegamenti” riportiamo questa importante analisi di EZIO BOERO sulle recenti lotte dei lavoratori del settore automobilistico negli Stati uniti
Il 15 settembre scorso, dal palco della manifestazione di Detroit che aprì la vertenza sindacale delle 3 grandi imprese statunitensi dell’auto, Shawn Fain, presidente di United Auto Workers (UAW), dichiarò: “Siamo stati accusati di causare una guerra di classe ma la guerra di classe è già stata fatta per 40 anni in questo Paese: la classe dei miliardari si è presa tutto e ha lasciato la classe lavoratrice rosicchiare ogni mese la propria busta paga per cercare di sopravvivere”. Daniel Vicente, responsabile UAW della Regione 9 (New York, New Jersey e Pennsylvania) aggiungeva: “C’è un incendio nel movimento operaio degli Stati Uniti”.
Una qualche forma di incendio si è in effetti manifestata a partire dalla mezzanotte del 15 ottobre 2023, alla data di scadenza dei contratti di lavoro con le Big 3 dell’auto (Ford, General Motors e Stellantis, negli USA ex Crysler). E immediatamente sono iniziati gli scioperi articolati, con la nuova forma dello sciopero progressivo dello Stand Up Strike (delle cui modalità parleremo oltre). Durato 46 giorni consecutivi, esso ha sollevato interesse nella Nazione ben aldilà del numero dei lavoratori coinvolti nella vertenza dell’auto.
Gli operai dello stabilimento Ford di Detroit, che produce i modelli Bronco e Ranger, sono stati gli operai Ford entrati in sciopero per primi. Le fabbriche Ford non avevano più visto alcuno sciopero dal 1978. Gli operai sono rimasti sorpresi quando è giunta dal Sindacato, alle ore 22 del 15 ottobre, l’indicazione di uscire dai reparti. Alle 23 la direzione, sorpresa come loro, ha mandato tutti a casa. Un’ora dopo, i picchetti, mobili, come prevede la normativa USA sugli scioperi, hanno iniziato ad apparire ai numerosi cancelli dell’impianto. Sostenitori dello sciopero si sono radunati dall’altra parte della strada. Veicoli di passaggio su Michigan Avenue suonavano i clacson a mo’ di sostegno, mentre si alzava lo slogan No deals, no wheels!, “senza contratto, nessuna auto (prodotta)”.
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Il vero motivo per cui Yellen è tornata a Pechino
di Giuseppe Masala
È certamente corretto sostenere che le motivazioni che stanno spingendo Washington a mettere sotto assedio Pechino sono di natura economica. Paradossalmente questa tesi è stata infatti espressa indirettamente dalla stessa Segretario al Tesoro Yellen, in una intervista della settimana scorsa che non ha avuto la risonanza che avrebbe meritato nonostante anticipasse i temi che la stessa Yellen sta trattando con l'élite politica cinese nel suo viaggio diplomatico in corso in questi giorni.
Di importanza capitale per comprendere la situazione a cui siamo di fronte è questo passaggio dell'intervista: «In particolare, sono preoccupata per le ricadute globali derivanti dall'eccesso di capacità che stiamo vedendo in Cina. In passato, in settori come l'acciaio e l'alluminio, il sostegno del governo cinese ha portato a sostanziali investimenti eccessivi e a un eccesso di capacità che le aziende cinesi cercavano di esportare all'estero a prezzi bassi. Ciò ha mantenuto la produzione e l'occupazione in Cina, ma ha costretto l'industria nel resto del mondo a contrarsi. Ora assistiamo allo sviluppo di capacità in eccesso in "nuovi" settori come quello solare, dei veicoli elettrici e delle batterie agli ioni di litio».
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Fabio Mini e il tempo delle guerre infinite
di Piccole Note
Pubblichiamo un estratto della prefazione del libro “Ucraina, Europa, mondo. Guerra e lotta per l’egemonia mondiale” di Giorgio Monestarolo (Asterios, Trieste, pp.106, euro 13). L’autore è ricercatore presso il Laboratorio di Storia delle Alpi dell’Università della Svizzera italiana e docente di Storia e Filosofia al liceo Vittorio Alfieri di Torino.
La prefazione è del generale Fabio Mini, che tra le altre cose è stato generale di Corpo d’Armata, Capo di Stato Maggiore del Comando NATO del Sud Europa e comandante della missione internazionale in Kosovo (KFOR). Figura autorevole, che sa bene cosa sia la guerra e, per questo, quanto preziosa sia la pace e quanto urge perseguirla. Nel volume, alcune citazioni di Piccolenote – non avremmo mai pensato di finire su un libro… – particolare che spinge vieppiù a pubblicizzarlo presso i nostri lettori.
* * * *
L’autore di questo libro è ricercatore e insegnante di Storia e Filosofia e la sua opera riguarda le guerre di oggi, ma da storico che non si limita a ribadire i concetti e i legami del presente con il passato, unisce la testimonianza diretta con la conoscenza delle “cose”, che è il presupposto base della sapienza.
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T.I.N.A. 2.0.
di Pierluigi Fagan
Volete uscire dal dominio neoliberista, volete allentare la morsa della gabbia d’acciaio capitalista, volete invertire l’allungamento in corso da decenni della scala sociale di cui tra l’altro vi è vietato l’uso per provare a scalarla. Avete idee di mondo migliore, più giusto, qualsiasi sia la vostra idea di “giusto”. Tutto ciò è politico.
Ma la vostra società non è ordinata dal politico, è ordinata dall’economico. È l’economico il regolamento del gioco sociale, è lui a dettare scala di valori, premi, punizioni, mentalità e cultura comune. E l’economico è a sua volta ordinato non dal mercato come alcuni pensano, ma dal controllo oligarchico, da interessi di Pochi. In termini ordinativi, il finanziario è sottosistema dell’economico ma è giusto rilevare come nelle società occidentali, almeno da quaranta anni, esso abbia svolto a sua volta una funzione ordinativa sia dell’economico, sia della società e quindi del politico. È la natura ambientale del finanziario ad aver ulteriormente ristretto la composizione dei Pochi a quel punto anche iperpotenziati da livelli di capitale storicamente inusuali, di più diviso in meno.
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Enrique Dussel, “Marx e la modernità”
di Alessandro Visalli
Nelle Conferenze di La Paz, nel 1995, il teologo e filosofo argentino, tra i pionieri della Teologia della Liberazione e in esilio dalla sua patria durante il regime fascista sviluppa la sua attentissima lettura di Marx dal punto di vista rivendicato dell’esternità e del lavoro ‘vivo’; ovvero della persona effettiva, reale, completa. Questo, declinato nelle sue diverse forme, marginali e ‘poveri’, stati subalterni e periferici, è il tema centrale della filosofia e della prassi politico-culturale ed etica di Dussel. Proviamo, dunque, a ripercorrere i temi principali che ancora ci parlano del testo. Intanto cosa è, nella sua essenza al tempo pratica e onto-teologica il “capitale”? per il Marx di Dussel: “il capitale è lavoro morto che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo, e più vive quanto più ne succhia”[1]. In questa frase di Marx (dal Capitale[2]), che ha in sé il risuono di motivi ebraici, quello che chiama “l’istinto vitale” del capitale, che ha un’anima la quale sovrascrive quella del temporaneo agente possessore (ma che è, al più ed al contrario posseduto), si manifesta come istinto a valorizzarsi. Tecnicamente ad assorbire con l’azione della sua parte costante tanto più pluslavoro possibile (in modo da incarnarsi nel plusvalore che poi può, o meno, ‘realizzarsi’). Si tratta, ancora una formula evocativa, di una “cosa [che non] ha cuore che le batta in petto”[3].
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Nato in NATO
di Fulvio Grimaldi
FINLANDIA: dodicenne entra in classe e uccide compagni
Come ha potuto succedere? Che mostruosità! Tutte quelle armi che circolano! Ma in che tempi viviamo! Colpa dei genitori….Colpa della scuola….
Sono le esclamazioni dei manigoldi ipocriti che tendono a ottunderci il cervello mentre cerchiamo di farci capaci dell’enormità di un bambino di dodici anni che entra in classe con una pistola e spara e uccide suoi compagni.
Si assembrano sugli schermi e nelle paginate psicologi, sociologi, esperti di ogni risma da un euro all’etto a disquisire sul fattaccio. E tutti, indistintamente, a mancare scaltramente la risposta principale.
Che è: CI VOGLIONO COSI’.
La Finlandia, dagli ampi e sempre vegeti trascorsi nazisti, si era fatta imporre dal Forum Economico Mondiale, quello del Grande Reset, una prima ministra di nome Sanna Marin, che, tra un festino alcolico e l’altro, ha fatto del suo paese il propulsore più accanito dell’attacco alla Russia, con implicito ingresso nella NATO e la gloriosa prospettiva di grandi mattanze reciproche.
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Qual è la strategia iraniana?*
di Shivan Mahendrarajah
L’apparente moderazione dell’Iran di fronte all’aggressione israeliana non dovrebbe essere confusa con la debolezza. Teheran esercita costantemente pressioni su Tel Aviv attraverso i propri metodi, preparando attentamente il terreno per il disfacimento di Israele.
«La leggenda narra che una rana posta in una pentola poco profonda piena d’acqua riscaldata su un fornello rimarrà felicemente nella pentola d’acqua mentre la temperatura continua a salire, e non salterà fuori anche se l’acqua raggiunge lentamente il punto di ebollizione e uccide la rana. Il cambiamento di un grado di temperatura alla volta è così graduale che la rana non si accorge di essere bollita finché non è troppo tardi».
Sebbene la storia sia un apologo – una bella favola intesa a trasmettere una lezione significativa – è spesso invocata da militari e geopolitici per descrivere il “lungo gioco” per raggiungere obiettivi strategici.
Oggi, sono l’Iran e i suoi alleati regionali che stanno utilizzando un approccio misurato per aumentare le temperature nell’Asia occidentale fino a far bollire a morte le “rane” statunitensi e israeliane. Strategia, disciplina e rara pazienza – l’antitesi del breve termine occidentale – porteranno alla vittoria dell’Iran. Per citare i talebani : “Gli americani hanno gli orologi, ma noi abbiamo il tempo”.
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La fine di Israele
di Franco Beradi Bifo
La cultura ebraica può essere considerata come il fondamento dell’universalismo razionalista e dello stesso internazionalismo operaio. Il sionismo è il tradimento di quella vocazione universalista. Amos Oz, più di altri, aiuta a capire il paradosso mostruoso di Israele. Scrive Bifo: “Credo che ben presto ci renderemo conto del fatto che Israele non ha niente a che fare con la storia del mondo ebraico… Lo stato di Israele, strumento del dominio euro-americano sul Medio Oriente e sul petrolio è destinato a esplodere presto…”
Più passano i giorni, più Israele procede nella sua campagna di sterminio, più si isola dal resto del mondo, più comprendo che il pogrom del 7 ottobre, pur essendo, come non può che essere un pogrom, un’azione atroce moralmente inaccettabile, è stato un atto politico capace di cambiare la direzione del processo storico. La conseguenza immediata di quell’azione è stata lo scatenamento di un vero e proprio genocidio contro la popolazione di Gaza, ma il genocidio era in corso in modo strisciante da settantacinque anni, nei territori occupati, in Libano, in Siria.
Nel medio periodo, però, credo che lo stato colonialista di Israele, sempre più apertamente nazista nel suo modo di operare, non sopravviverà a lungo.
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La trappola del debito
di Eugenio Donnici
La questione del debito pubblico e privato, sebbene sia diventata un tabù, pesa come un macigno sulle decisioni di politica economica. Debiti e crediti sono dei pilastri sui quali si regge il modo di produzione capitalistico, ma tali relazioni sociali, anche se in forma rozza, hanno influenzato la vita associata degli individui appartenenti alle città-stato, i regni e gli imperi del mondo antico, quando i loro governanti hanno iniziato a coniare monete o meglio quando gli scambi commerciali, mediati dal denaro, s’imposero, in qualche misura, sul baratto.
Nei rapporti tra debitori e creditori, occorre precisare che affinché un debito possa essere estinto, è necessario, in primo luogo, che esso non sia astronomico, altrimenti si rientra nel circolo vizioso dell’usura, sul quale ritornerei nel procedere del discorso.
Nel mondo antico, stando alle fonti storiche, durante il regno di Hammurabi, re di Babilonia (1792-1750 A.C.) ci furono quattro annullamenti del debito, proprio perché partirono dal presupposto che i sudditi non potevano pagare quelle cifre. Annullamenti del debito avvenivano anche durante il Giubileo per i cristiani e il Torà per gli ebrei. La valenza di una preghiera come il Credo, con la quale i credenti si rivolgono a Dio, racchiude il concetto del “rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Ovviamente, prima che si affermasse il modo di produzione capitalistico, l’annullamento dei debiti era più semplice, in quanto la somma data in prestito non generava l’interesse o quantomeno non si applicava la legge dell’interesse composto. Con lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, dapprima in Inghilterra, come ci ricorda Marx, il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria.
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