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Vizi e virtù dei ceti medi

Alberto Burgio

quadri internediQuindici anni fa Paolo Sylos Labini pubblicò un agile libretto per attaccare Marx. Tracciava un bilancio che intendeva mettere in mostra il suo errore fondamentale: la previsione che il capitalismo avrebbe scomposto le società in due blocchi, da una parte i capitalisti, dall’altra i proletari. A questa «profezia» Sylos Labini contrapponeva la crescita della classe media, non solo sempre più vasta e articolata ma anche sempre più influente sul piano politico. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Il cosiddetto neoliberismo ha dispiegato i propri effetti, che la crisi dei mutui ha portato alle estreme conseguenze. Forse, considerando il paesaggio sociale dei paesi a capitalismo maturo oggi, Sylos Labini ci penserebbe su due volte prima di mandare Marx in soffitta.

Gran parte dei ceti medi si ritrova a leccarsi le ferite, non ha capitali, gode di protezioni sociali sempre più incerte, non trova lavoro o ha impieghi precari e sottopagati. Ha raggiunto un elevato grado di scolarizzazione, ma sempre più raramente a questo risultato si accompagna un riconoscimento sociale. La crisi storica del capitalismo (il ridursi, da trent’anni a questa parte, dei margini di profitto del capitale produttivo) si riflette nella proletarizzazione dei ceti medi, un processo che sembra andare nella direzione di quanto ipotizzato un secolo e mezzo fa dall’autore del Capitale e che si profila gravido di implicazioni politiche. L’impressione è che molto, in questo nuovo secolo come già nel Novecento, dipenderà dall’evolversi di questo processo.

La rabbia dei ceti medi, le loro paure e il loro risentimento, ma anche, in positivo, la loro capacità di far valere competenza, creatività e capacità relazionale, incideranno in profondità sul decorso delle gravi malattie (populismo, privatismo, ingiustizia sociale e leaderismo autoritario) che affliggono le democrazie occidentali.

Non solo nelle nostre società. L’interdipendenza tra le diverse regioni del mondo si è mostrata in tutta la sua concretezza nelle rivolte popolari che da tre mesi a questa parte incendiano la sponda meridionale del Mediterraneo e scuotono il Medio Oriente. Cosa le ha provocate? Il peso insopportabile di gerontocrazie tiranniche e corrotte, la distribuzione iniqua delle terre e delle rendite petrolifere, la disoccupazione giovanile, il brutale maschilismo di certa tradizione islamica. E in primo luogo l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, causato dalla speculazione sulle grandi piazze finanziarie. Si è trattato davvero, in principio, di «rivolte del pane», all’origine delle quali hanno pesato le manovre dei mercati speculativi.

Ma la povertà nuda e cruda ha dato fuoco alle polveri anche perché nell’ultimo quarto di secolo il paesaggio sociale nei paesi del Maghreb è radicalmente mutato. Non si comprenderebbero né la straordinaria tenacia né l’efficacia delle insurrezioni in Tunisia ed Egitto, in Yemen, Bahrein e Giordania (con ogni probabilità il caso della Libia è diverso) se a guidare le mobilitazioni non fossero state masse di giovani donne e uomini altamente scolarizzati – laureati e diplomati – consapevoli delle proprie competenze e ragioni e capaci di servirsi delle tecnologie più avanzate per strutturare reti di comunicazione e organizzazione.

Un rapido sguardo allo Human Development Index (che misura la rapidità dello sviluppo principalmente nei settori della sanità e della formazione) permette di farsi un’idea del fenomeno. Ai primi posti nel 2010 troviamo Tunisia, Egitto, Algeria e Marocco. In Tunisia nell’ultimo decennio la frequenza delle scuole superiori si è più che quadruplicata (passando dall’8 al 34%), in Egitto è raddoppiata (dal 14 al 28%). Il punto è che questa enorme massa di forza-lavoro qualificata non trova impiego sul mercato interno. In Egitto ha un diploma oltre il 40% della forza-lavoro e circa l’80% dei disoccupati. Questo stato di cose ha un peso decisivo nel connotare le insurrezioni, che non puntano soltanto a spodestare satrapie corrotte ma mirano a trasformare il modello sociale sovvertendo le gerarchie sociali cristallizzatesi nella modernizzazione imposta dai governi filo-occidentali. Come hanno scritto Hussein Agha e Robert Malley («Le Monde» del 20 febbraio), «non è possibile comprendere le rivolte nel Maghreb senza tener conto della forte sensazione di non potere essere se stessi, di vedersi spossessati della propria identità, costretti ad accettare politiche negatrici di ciò che si è. In questo senso manifestare nelle piazze non è un semplice gesto di protesta, è una dichiarazione di autodeterminazione». Una dichiarazione – vale la pena di aggiungere – che sfata la tradizionale (e rassicurante) rappresentazione del «mondo arabo» come sommatoria di popoli «senza storia», masse amorfe e prive di soggettività fanatizzate dall’integralismo islamico. Qualcuno ricorderà bene quella celebrata icona nazionale che risponde al nome di Oriana Fallaci.

E in Europa? In Italia? Hanno la stessa cifra qui da noi le prese di posizione delle classi medie? L’impressione è che in questo caso la realtà sia più complessa.

Il quadro è ambivalente. Il movimento degli studenti medi e universitari e del precariato intellettuale ha rappresentato uno degli aspetti più interessanti sullo scenario sociale nei mesi scorsi. Il saccheggio delle risorse pubbliche praticato dai governi nel nome del «risanamento dei bilanci» (non soltanto in Italia, anche in Inghilterra, in Germania e in Francia) ha devastato scuole e università, e nelle «riforme» varate a suon di tagli e di più alte tasse di iscrizione i giovani hanno letto con precisione il destino che si prepara loro, fatto di precarietà, povertà e dequalificazione. Le manifestazioni hanno denunciato la volontà restauratrice di restituire al sistema formativo il ruolo di filtro per la selezione di classe che esso ha svolto sino agli anni Sessanta.

Alla luce di questa consapevolezza è possibile comprendere l’intreccio tra la protesta di studenti e ricercatori precari e la lotta degli operai metalmeccanici italiani contro l’attacco al contratto collettivo nazionale, e il collegamento di entrambe alle mobilitazioni del «popolo viola» – erede del movimento dei girotondi ed espressione dei «ceti medi riflessivi» – contro il dilagare dell’illegalità e della corruzione come metodi di governo. La stretta interazione tra queste lotte riflette la capacità di riconoscere le connessioni che saldano l’attacco al lavoro dipendente e la disoccupazione intellettuale di massa alla protezione di grandi patrimoni e rendite parassitarie. Si tratta, mutatis mutandis, di un paesaggio oligarchico per molti versi somigliante a quello dei paesi del Maghreb, benché la nostra supponenza eurocentrica e l’abuso della retorica democratica rendano difficile cogliere qualsiasi analogia.

Ma i ceti medi in Europa sono anche la principale base di consenso della destra. In Italia costituiscono il blocco sociale che più si avvantaggia dell’illegalità legalizzata a mezzo di ricorrenti sanatorie edilizie e fiscali e di un sistema impositivo che premia l’evasione. In tutta Europa il mondo delle libere professioni e del commercio, la dirigenza e la burocrazia reagiscono ai rischi del declassamento con il classico risentimento antioperaio. Il pessimismo e l’incertezza sui destini della discendenza alimentano in questi settori sociali pulsioni antipolitiche, nostalgie autoritarie e non di rado attitudini razziste. Un emblema di questa chiusura allarmata è la riscoperta della cosiddetta meritocrazia, un discorso nel quale la preoccupazione per il proprio ruolo sociale si traveste da scrupolo etico e da sollecitudine per l’equità e il buongoverno. Chi potrebbe non auspicare il riconoscimento dei talenti e dei meriti? Guai, però, a mettere in discussione i criteri di valutazione e soprattutto le posizioni di partenza. La borghesia ha costruito l’Europa moderna a propria immagine e somiglianza, ne è artefice e pretende di rimanerne padrona. Agita istericamente, da un paio di secoli, i principi delle proprie rivoluzioni, ma non ne tollera la declinazione universalistica che rischierebbe di legittimare trasformazioni radicali.

Insomma, si ha una sensazione: o ci si prende la briga di capire meglio che cosa ribolle nella pancia delle nostre società di cui le classi medie sono grande parte, o non si uscirà dall’incubo di una crisi sempre più minacciosa. Capire non significa fare come, da vent’anni a questa parte, la sinistra postcomunista e postsocialdemocratica, che ha abbandonato il lavoro dipendente nella convinzione che le classi medie siano per natura e in toto portatrici di modernità e di progresso. Al contrario. Implica distinguere, disaggregare, cogliere contraddizioni e dilemmi, a cominciare dal paradosso per cui la semplificazione sociale generata dall’impoverimento dei ceti medi produce complessità politica per l’intensificarsi delle paure e delle pulsioni reazionarie. Capire impone, in altre parole, di tornare a fare «inchiesta sociale» e di studiare dal vivo quella che un linguaggio che a qualcuno parrà arcaico definisce «composizione di classe». Si potrebbero fare esperienze interessanti, verificando, per esempio, sino a che punto abbia lavorato anche da noi il nesso tra proletarizzazione di massa, scolarizzazione e accumulazione tecnologica. E forse si potrebbe stabilire se anche nelle nostre società blindate vi sia, nonostante tutto, la speranza di mandare a fondo i satrapi che ci opprimono con il pretesto della democrazia.

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