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Il governo tecnico delle scienze

di Maurizio Merlo

1. Crisi della mediazione scientifica

Una critica che si attardasse a rilevare il deficit di politicità che il governo tecnico apparentemente esibisce e cercasse invece di far valere ragioni di politica di equilibrio e rappresentanza, mancherebbe il suo bersaglio polemico. In quanto determinazione istituzionale interna alla centralità e autonomizzazione degli esecutivi – che si prospetta oramai come una costante di lungo periodo – il governo opera un dislocamento della tecnica della decisione politica dallo stato di eccezione alla produzione e riproduzione di un’omologia strutturale tra scienza e politica della società, tra governo dei saperi e riarticolazione del sociale.

Parliamo di governo tecnico delle scienze dentro l’approfondirsi della crisi generale della media­zione sociale e come caratteristica di lungo periodo della fase attuale. E intendiamo non solo la crisi della rappresentanza politica come istituzione per eccellenza della mediazione, ma della società come tale e in essa del sistema – del ciclo – della formazione.

La legittimità del governo dei saperi sta tutta nella sua distanza dai luoghi della produzione normativa, nella posizione che occupa all’interno delle articolazioni del legame tra messa al lavoro dei saperi sociali e denaro. È il denaro che sovradetermina il rapporto di produzione, piegando a tale sovradeterminazione anche le tradizionali istanze della rappresentanza. Nel rapporto di sottomissione monetaria che i governi cercano di imporre come unico legame sociale vengono ridisegnate le condizioni generali del sistema della produzione e dunque le figure della sussunzione generale al rapporto di capitale. Come il denaro si mostra privo di pathos e libero dalla dimensione passionale e perciò mobile della politica, così il governo tecnico (pur nelle lacrime prive di pathos di una ministra) svolge il proprio ruolo in uno scenario di pretesa ri-naturalizzazione del legame sociale.

Come nelle teste dei portatori delle funzioni del denaro si pretende che, nell’interesse monetario, «il denaro figli denaro» in maniera affatto naturale, obliterando cioè la sussunzione monetaria del sociale, così l’autonomia presunta del capitale monetario si pretende alleata delle qualità cognitive del capitale.

Il governo tecnico punta a una saturazione della sintesi sociale sulla base di omologie tra processi produttivi e processi naturali, omologie che sono intese funzionare come logica del comando. La ricostituzione della logica del comando passa per una rinaturalizzazione del legame sociale attorno al denaro e alle sue funzioni, secondo la coattività oggettiva di imperativi sistemici di assimilazione dello sviluppo della tecnologia (o dell’intelletto sociale) nei processi di produzione ai processi spontanei della natura. Come la scarsità di denaro è condizione interna e non meramente esteriore dei pagamenti, co­stantemente riprodotta dalla rete delle organizzazioni bancarie, così con le competenze ci si muove in un regime di scarsità.

Il governo tecnico dei saperi è l’esito di una fase politica nella quale il general intellect si è materializzato non in una noosfera o nella testa dei lavoratori, ma in un sistema di competenti macchine prescrittive-amministrative (dove macchina sta per «lista di simboli» o «tabella che riporta istruzioni»), sicché ogni rideterminazione pattizia di istanze di giustizia distributiva del prodotto sociale è abbandonata a favore di una amministrativizzazione dell’invarianza del legame sociale. Il governo tecnico è una specifica figura istituzionale in cui prende forma il tentativo di applicare estensivamente alla società i principi dell’organizzazione industriale avanzata, informatizzata, a favore non tanto di un governo della crisi ma mediante la crisi come crisi da scarsità – e però rinunciando a ogni «Teoria Generale» del ciclo dei rapporti di produzione, ossia a tutti gli elementi di socialità sinora concentrata nello Stato.

Nel momento stesso in cui liquida ogni dimensione costitutivamente polemologica della società, il governo tecnico si fa garante della riproduzione sociale. Le competenze organizzate nella «società della conoscenza» sono dentro le trasformazioni del lavoro, della società e dei saperi. Di qui la necessità che l’istanza di governo sia governo dei saperi, ossia governo attraverso un sapere (‘tecnico’) e governo dei saperi nella forma della scienza, delle competenze. Il governo si vuole omologo alle competenze e cresce con esse.

Puntare lo sguardo sui processi di formazione e in particolare sulla «università di ceto medio» in crisi di mediazione serve a comprendere la crisi generale della società – che è stata sinora ‘società borghese’ ossia inclusiva mediante i ruoli, come terreno tradizionale della riproduzione della forza lavoro e dunque del rapporto di capitale. La crisi della società va letta anche in questo senso, come venir meno del tradizionale ruolo specifico sinora svolto dalle istituzioni della formazione – scuola e università in primo luogo – come produzione della «merce specifica» forza lavoro e dunque come cerniera tra sistema produttivo, società e Stato. Questa cerniera assicurava la produzione e la riproduzione del sistema di separatezze dei processi di formazione della forza lavoro dai processi concreti del suo uso e consumo dentro il ciclo produttivo, mediante il divario tra cultura e scienza e tra queste e il lavoro. Nella crisi della mediazione sociale precipita la riproduzione di questo sistema di separatezze. Per comprendere la crisi del sistema della formazione come crisi di mediazione sociale, basti pensare che sinora la formazione dal punto di vista dell’impresa è stata attività ‘politica’ di integrazione e manipolazione della soggettività dei lavoratori-cittadini in funzione dell’accumula­zione capitalistica, e sviluppo di una serie di funzioni riproduttive: nella crisi della famiglia in quanto istituzione della riproduzione sociale, e nella fascia ‘bassa’ della formazione, nella scuola, come istituzione di welfare a basso costo. I processi di riforma della formazione scolare e universitaria, a partire almeno dal famigerato «pro­cesso di Bologna» (ossia il modello europeo qui delineato nel giugno del 1999) si configurano come volano per far crollare i tre momenti della formazione tradizionale (quello culturale-umanistico, quello scientifico, quello politico-istituzionale e ideologico) e sostituirvi una scolarità in generale come parametro ‘meritocratico’ di gerarchizzazione basato sui differenziali salariali (e contrattuali) di una forza lavoro sostanzialmente uguale e tendenzialmente omogenea.


2. La tecnica della funzione

Si tratta perciò di iniziare a leggere il rapporto costitutivo tra tecniche e organizzazione sociale: il governo dei saperi è portatore di organizzazione come funzione di comando di un sistema complesso e peculiare sia per quanto riguarda l’univocità della direzione del processo sia quanto all’auspicata efficienza e radicalità dell’innovazione. Non si tratta solo della correlazione tra certe tecniche particolari e modi della sintesi sociale ma del comando, esercitato dalle condizioni del modo di produzione nella sua sintesi istituzionale, sui saperi e sulle tecniche. La tecnica è considerata unicamente nella sua natura organizzativa e perciò politica. Il governo tecnico dei saperi è un tentativo di riproduzione, al livello dell’intera sintesi sociale, della stessa logica dell’agire strumentale che da sempre ha dominato l’ambito della produzione: una trasposizione – che si vuole integrale – delle regole tecniche di produzione e controllo all’intera organizzazione sociale, con la conseguente sostituzione di ogni interazione conflittuale con una amministrazione tecnico-operativa.

Si è sufficientemente sottolineato in questi anni il carattere linguistico-comunicativo del lavoro co­gnitivo. Meno, invece, si è messo in luce il nesso sempre più stretto tra competenza e funzione, dove la prima viene a dipendere interamente dalla seconda, in base a una scalarità gerarchica che le è presupposta e che viene rivestita, nella retorica neostoica monetarista del sacrificio, del manto dell’apologetica di un «merito» assegnabile in base alla competenza. Ma qui si gioca anche un limite evidente dell’immaginario funzionalista: esso si mostra incapace di garantire inclusione mediante i ruoli e di assicurare mobilità sociale ‘verso l’alto’ – cosa che invece il vecchio modello delle separatezze in qualche modo assicurava. Il funzionalismo delle competenze formalizza la interscambiabilità degli individui che è propria della società salariale, rendendo ancora più stretta la dipendenza monetaria – nell’apparenza giuridica del contratto privato – degli individui stessi dal sistema di impresa. L’insistenza dei modelli di riforma del ciclo della formazione sul carattere ascrittivo della funzione, ovvero sull’assegnazione di una collocazione e di un ruolo – rispetto all’insieme sociale – dell’individuo «sul filo del suo destino», rinvia a un’immagine d’ordine che si pretende libera da ogni immaginario polemologico del legame sociale.


3. La cognizione della funzione

L’acquisizione di competenze – obiettivo dei processi di riforma della forza lavoro in formazione – mira allo sviluppo da parte dei «futuri lavoratori della conoscenza» di una generica capacità di autoadattamento alle caratteristiche specifiche del proces­so di qualificazione/acquisizione delle competenze medesime. Questa capacità generica va sviluppata in maniera affatto individualizzata, libera da ogni ‘contagiosa’ coazione alla generalizzazione delle competenze. Competenza si mostra affine a concorrenza, poiché entrambe giacciono sotto la medesima coperta, quella di un ideale pedagogico capitalistico-borghese che risolve la spassionatezza e la distanza dell’individuo dalle proprie competenze in un rapporto privatizzato e libero da ogni forma di codificazione. Di qui di nuovo anche una fondamentale ambivalenza di questo processo – ambivalenza che è sintomo di una contraddizione materiale, in processo, che è anche un limite di ogni intenzione funzionalistico-sistemica, una contraddizione che va fatta esplodere politicamente: la competenza può porsi come forma di equilibrio sociale perché principio di equiparazione e differenziazione orizzontale, di contro alla necessità di ricostituire, qui e adesso, gerarchie funzionali permanenti legate alla concretezza degli specialismi, dei lavori concreti.

L’insistenza (addirittura eclatante sin dalla riforma Berlinguer e in quelle successive) sugli aspetti metacognitivi della formazione; la crisi (imposta dall’alto) della scuola trasmissiva mediante l’introduzione della nuova equazione tra organizzazione (il cui sapere si pretende universale e omo­geneo) e discipline, con la devastazione dei contenuti disciplinari, ridotti a criteri e procedure unica­mente operativi; la riduzione della scolarità a cantiere di regolamenti o a laboratorio di sperimenta­zione di funzioni politiche di procedura e controllo amministrativo per rendere operativo il rapporto tra saperi e formazione, tra cultura e professionalità, tutto ciò non è che propedeutico al nodo es­senziale: la (ri-)scoperta dell’intreccio profondo tra lavoro intellettuale e attività produttiva, in quanto entrambi basati su un’analoga struttura di regole.

Definiamo le discipline scientifiche oggetti sociali costituenti, poiché esse letteralmente costituiscono, mediante le competenze, funzioni necessarie della sintesi sociale. La qualità non cumulativa dei saperi è assunta come presupposto di un’operazione di segmentazione delle discipline – in quanto oggetti sociali costituenti – in funzione di una loro riduzione operativa a concetti maneggevoli da riorganizzare in mappe concettuali che sostituiscano i nessi logici astratti con figure e immagini. Basti pensare alle prove Invalsi: esse sono un tentativo di incidere sui processi di insegnamento/apprendimento scomponendo i contenuti disciplinari in obiettivi traducibili operativamente – obiettivi che vengono poi stigmatizzati in comportamenti finali attesi e perciò come performance e acquisizione automatica di competenze e norme di comportamento, in breve: in termini di produzione di permanente disponibilità all’adattamento, sia da parte della forza lavoro in formazione sia da parte del corpo docente, sottoposto a un dispendioso quanto inefficace sistema di valutazione del loro lavoro. In effetti, se intendiamo l’intelletto generale mediante la categoria di protesi cognitiva, esso richiede innanzitutto adattamento.

L’intenzione dei processi di riforma pare univoca: chiudere con i «segmenti» e passare ai «bastoncini», chiudere con la costruzione concettuale astratta e aperta per passare a immagini unidirezionali che vanno imitate e riprodotte. Delle immagini si valorizza innanzitutto il carattere prescrittivo, di comando. Comprendiamo così perché nel processo di acquisizione dei saperi – di quelli scientifici in particolare – si insista non tanto sul doppio livello, astratto-teorico e concreto, delle conoscenze bensì sulla metacognizione delle procedure operative necessarie a raggiungere obiettivi misurabili e certificabili. Nella logica delle tecnoscienze, dominante nei programmi quadro promossi dall’Unione Europea, la riduzione della trasmissione di strumenti concettuali a favore di una logica che asserve la conoscenza a una immediata spendibilità in termini di competenze, mira a innalzare il tasso di prescrittività degli assunti scientifici senza per questo rinunciare a rivestirli di un’aura magica di mistero e incomprensibilità.


4. Le competenze misurate

Di faccia alla moltiplicazione e articolata differenziazione dei valori d’uso sociali della conoscen­za, appare scontata la risposta istituzionale in termini di segmentazione dei saperi. Al di là della fac­cia risibile e smaccatamente, miserabilmente ideologica con cui si magnifica l’uso delle tecnologie, si tratta di una fondamentale riorganizzazione del rapporto tra sapere e condizioni di produzione che subordina il primo alle seconde passando per uno svuotamento delle conoscenze proprie del lavoro in formazione, passando per una sottrazione di intelligenza al lavoro. Produrre e riprodurre forza lavoro come ‘merce povera’ è il progetto di lungo periodo – con immediati effetti ‘a breve’ – dei governi della formazione.

Si sovrappongono perciò i due archi lungo i quali si dispongono i valori d’uso della conoscenza: l’arco tecnologico e quello dell’alterazione in senso prescrittivo delle discipline, adattate a forme di tecnologia di uso (non di produzione e innovazione) e dunque ridotte a strumentazione culturale-ideologica quale protesi decisiva dell’organizzazione sociale per il profitto.

Ciò coincide con la crisi degli impianti epistemologici delle singole discipline e dunque degli im­pianti organizzativi degli istituti della formazione chiamati a progettare la propria offerta formativa. La costruzione di nuove competenze misurabili in termini di operatività e trasversalità, e necessarie a nuove figure di ‘operatori sociali’ su scala territoriale, l’organizzazione di «nuove identità sogget­tive» definite dalla cittadinanza, non pare avere alcun rapporto con le tradizionali differenziazioni settoriali merceologiche, bensì è formazione di conoscenze che si applicano all’interno di ogni ciclo produttivo e riproduttivo, assegnando la formazione delle gerarchie non alle differenze tra lavori concreti bensì alla disponibilità a adattarsi a imperativi sistemici di volta in volta definiti. Viene meno in questo processo, alla fine del quale si conferisce al singolo una capacità di lavoro spendibile come merce povera, la tradizionale distinzione tra addestramento, preparazione e qualificazione. È così spezzato il rapporto tra università e mobilità sociale – e anche quello tra cicli di scolarizzazione ‘professio­nale’, o specializzazione, e impiego – tanto che lo stesso abusato termine «mercato del lavoro» risulta insufficiente a descrivere tale dinamica nella struttura occupazionale. Non si tratta solo della dismissione di funzioni tradizionalmente attribuite allo Stato dal sistema della formazione, di processi di de-istituzionalizzazione degli itinerari formativi e lavorativi, ma del fatto che le cerniere selettive si spostano sempre più nel ciclo produttivo, dentro la sua crisi, secondo nuove gerarchie, assecondando la tendenza ad affidare alle imprese, direttamente o indirettamente, la dettatura di tempi e dei modi dei processi formativi (salvo che esse non intendono minimamente farsene carico). Per quanto sino a ieri le istituzioni della formazione – in quanto istituzioni della società – fossero preposte alla mediazione tra ciclo della produzione e Stato, il fatto che ora questa funzione fondamentale venga meno, rende ancora più acuta ed esplosiva la contraddizione materiale centrale che era rimasta aperta tra lavoro sociale in formazione e concreta struttura d’impresa dei lavori, della cooperazione.

La riduzione forte dei contenuti disciplinari a favore di metodologie operative e funzionali della formazione tocca direttamente non solo questi contenuti ma anche il loro assetto istituzionale, sconvolgendo le gerarchie naturali funzionali proprie della formazione trasmissiva e facendo assumere a tali gerarchie nuovi profili, riconfigurandole come mere gerarchie di ri-organizzazione anche della didattica, in funzione di obiettivi raggiungibili solo nel reticolo cooperativo (implementato da elementi autoritativo-consensuali) del lavoro di formazione comandato. Non ne va qui del nesso tra il sapere e i suoi ‘organi’ o le sue concrete articolazioni nel processo di trasmissione e acquisizione delle conoscenze; si tratta bensì di un depauperamento radicale della «scienza»  in quanto forma costitutiva dell’organizzazione dei saperi e perciò della società come tale.


5. Technical Intellect

In tale quadro, il preteso carattere diffuso del general intellect si scontra con l’inequivocabile dato di fatto che è la stessa divisione del lavoro – nell’articolazione complessa del sapere contemporaneo – a rendere irrealistica ogni ricomposizione in un medesimo individuo – per quanto ‘connesso’ – dell’insieme di competenze manuali e intellettuali necessarie.

Se l’implementazione di un processo in un dispositivo richiede frammentazione e specializzazione delle competenze in quantità tali da non essere padroneggiabili dal singolo individuo, o tali da essere controllabili soltanto in misura molto parziale, se la possibilità di accesso alla conoscenza comune va oltre il singolo lavora­tore e oltre il lavoratore collettivo cooperante, il dato rilevante pare essere che lo specialismo o competenza fa leva sull’interesse generale a economicizzare e a rendere meno gravoso il rapporto di ognuno con la società. Frammentazione e specializzazione minano sin dalle radici la possibilità di intendere la questione della riappropriazione del sapere sociale come esito di una qualità immediatamente e per così dire ‘naturalmente’ cooperativa del lavoro sociale comandato. Più in generale, mutano i termini stessi con cui si è pensato sinora l’0ggetto stesso di una riappropriazione. Il dominio esercitato in maniera specifica attraverso la tecnica (in quanto pensiero socializzato e materializzato) muta forma e luogo: non si esaurisce in ciò che sta «intorno» al lavoratore, ma passa per processi di «espropriazio­ne» dell’intelligenza del lavoro che non si identificano con la proprietà di una «potenza» (intellettuale e incorporata in macchine-protesi) che governi un certo processo di produzione – e alla quale pro­prietà sarebbe da contrapporre un supposto bene comune – bensì con la mancanza o privazione dell’accesso alla ricchezza sociale e alle fonti dell’informazione. Non siamo tutti uguali, rispetto all’intelletto sociale. I differenziali di accesso al sapere riportano in primo piano squilibri di potere in termini di classe. Sul piano dei saperi e dell’accesso alla conoscenza/informazione, il sistema capitalistico si riproduce come società monetaria specifica, definita non tanto dalla proprietà quanto dal possesso di un potere di accesso al denaro, all’equivalente generale, in quanto capitale. La retorica del «capitale umano» di cui ognuno disporrebbe ha il sapore della beffa.

Vi è chi distingue tra i networkers, una piccola percentuale di dirigenti e specialisti che hanno un effettivo potere discrezionale nell’organizzazione del lavoro, accesso all’informazione e capacità di produrre sapere; i networked, lavoratori inseriti nel processo produttivo ma privi di capacità decisio­nali; gli switched-off, scollegati dal processo produttivo principale e capaci solo di mansioni specifiche, scarsamente interattive. Ma, senza attardarsi sulle tipologie del lavoro complesso, dobbiamo cominciare a leggere i processi di formazione in un’ottica diversa non solo da quella che regge l’apologetica della cosiddetta società della conoscenza, ma anche da quella che afferma che – manifestandosi il virtuosismo umano in competenze generalmente linguistico-comunicative, in performance dialogiche e condivise che costituirebbero il tratto rilevante dell’attuale organizzazione sociale – la conoscenza dà forma a uno spazio intermedio di connessioni nel quale relazioni di lavoro e di apprendimento danno vita a relazioni sociali informali e cariche di soggettività. Non si comprende, infatti, come qualche apologeta della società della conoscenza possa esaltare questa informalità nel suo lato soggettivo facendo appello non a processi di ricomposizione politico-organizzativa di classe, ma al linguaggio del Censis, che legge la crisi della società come emergenza di una «mucillagine sociale», di un coacervo di nuovi ceti e di omologie identitarie che procedono lungo le linee delle segmentazioni giuridico-amministrative che includono per differenziazioni multiple i «lavoratori della conoscenza» nei mercati del lavoro nazionali e transnazionali. Invece di fantasticare su una omogeneità del lavoro che non si è mai data, è necessario ricominciare a pensare i saperi in termini di composizione politica di classe.

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