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Il Sole dell’Avvenire: chi ha del ferro ha del pane, di Valerio Evangelisti

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di Militant

Sebbene conosciuto principalmente per l’epopea medievale dell’inquisitore Eymerich, Evangelisti sembra giunto all’approdo massimo della sua attività letteraria con questa trilogia sulle lotte di classe in Romagna tra ’800 e ‘900. Il secondo volume conferma il tentativo, quello di creare un grande romanzo popolare delle classi subalterne, ed è sicuramente la scommessa poetica più difficile affrontata dall’autore. Difficile perché Evangelisti sceglie di raccontare la vicenda storica degli sfruttati in tutta la sua interezza, sfruttando però la sineddoche contadino-romagnola. Una chiave di lettura particolare, che impone un punto di vista, quello contadino-proletario, che esce fuori dalle storie dei personaggi, dai loro linguaggi, dalle loro piccole e grandi vicende quotidiane, di un’umanità inserita nel grande processo di emancipazione avviato nell’800 e oggi purtroppo arrestato, almeno in Europa.

La storia segue l’intreccio di vicende di alcune famiglie romagnole, che tra sfruttamento, lotte sindacali, contraddizioni familiari, descrivono la più generale condizione delle classi subalterne italiane d’inizio secolo. Il periodo è il ventennio tra il 1900 e il 1920, che vide lo sviluppo decisivo delle forze politiche socialiste, la quotidiana battaglia contro il padronato agrario e l’emergere del nuovo nemico fascista.

Una storia raccontata sempre dal punto di vista degli ultimi, che tra incerti riferimenti politici sentono di far parte di un insieme umano collettivo e solidale. Il principale merito del romanzo è esattamente quello di “dare voce ai poveri”. Il racconto dei diversi avvenimenti politici è sempre visto con gli occhi di un mondo contadino in fase di trasformazione. Non sono le linee politiche, i grandi avvenimenti o le sintesi intellettuali, ma gli occhi e i pensieri dei contadini a far emergere il quadro complessivo e il significato di quelle specifiche lotte di classe.

Quasi tutti i protagonisti del romanzo sono donne, in lotta contro lo sfruttamento tanto lavorativo quanto familiare e culturale. Donne inserite in un paesaggio, quello romagnolo, descritto con grande efficacia. Il libro è anche, e non per caso, una articolata descrizione di un territorio e della sua gente, dei mille paesi agricoli e delle consuetudini umane di una popolazione solidale, una guida della Romagna che cambia, un racconto affascinante di un contesto ancora oggi particolare, nonostante tutte le trasformazioni a cui è andato incontro. E se c’è una sintesi possibile, questa è racchiusa nel sottotitolo del libro: chi ha del ferro ha del pane, che di per sé ci sembra essere l’unico segno dato dall’autore alle vicende narrate. La via pacifica e parlamentare al socialismo, le riforme progressive, gli accordi elettorali, vengono subiti dal popolo contadino e sempre giustificati dalle organizzazioni politiche come passaggi necessari alla loro emancipazione. Una distanza sempre più incolmabile, e che si farà netta quando alla violenza del fascismo si risponderà con l’inerzia pacifica di chi non saprà leggere la situazione generale in cui di lì a poco precipiterà l’Italia e l’Europa intera. Al contrario, ogni qual volta il popolo contadino e l’embrione proletario in fase di formazione nel contesto romagnolo risponderà con la lotta e con la forza alla repressione padronale, i risultati divengono allora tangibili, i rapporti di forza si riequilibrano e le piccole conquiste lavorative appaiono concrete. Il libro è allora anche una riflessione importante sull’uso della forza, una riflessione non banale e non relegata a disputa tra accademici o avanguardie, ma sempre nella comprensione di questa tra le classi popolari. Classi mai conquistate alla violenza spregiudicata – come dice De Andrè il senso non dev’essere rischiare, ma non voler più sopportare – ma strette tra due tenaglie: da una parte la violenza padronale, dall’altra i tentennamenti politici dei partiti riformisti. Una tenaglia che lascerà nei fatti disorganizzata e impotente la classe operaia alla vigilia del fascismo, così come lo fu nell’entrata in guerra, sia per l’avventura libica che quella europea del 1915.

Ma il libro è anche un grande parallelo tra le trasformazioni sociali dell’Italia dei primi anni del Novecento e quelle attuali. La scomparsa dell’Italia contadina moltiplica le forme di precariato lavorativo, di incertezza sul futuro, di perdita di riferimenti sociali e politici. Una fase simile a quella odierna, in cui la scomparsa dell’Italia industriale e della crescita economica spezzano i riferimenti politici e ideali delle classi subalterne, strette anche stavolta tra improbabili riedizioni di un passato ormai passato e incerte visioni politiche del futuro. Una linea di continuità che spezza le retoriche “nuoviste” odierne, che descrive un processo storico in divenire, simile oggi quanto per i nostri nonni e bisnonni.

L’obiettivo del romanzo, raccontare delle storie che diano autonomia culturale alle classi subalterne, è nei fatti pienamente raggiunto. Il problema rimangono i proletari di oggi, afoni di una visione interna e autonoma dei propri bisogni, le proprie necessità, i propri istinti collettivi. Il romanzo di Evangelisti indica una strada possibile per riscoprire un certo tipo di letteratura di classe. Una strada che andrebbe intrapresa alla volta della ricostruzione di quell’immaginario proletario oggi decisamente in mano alla mediazione mainstream.

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