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sole24ore

Gli squilibri mai corretti e il silenzio dell’Europa

di Luca Ricolfi

Tre cose sembrano chiare, per ora. La prima è che la Grecia non abbandonerà l’euro. La seconda è che l’Europa le presterà altri soldi. La terza è che i politici, greci ed europei, faranno di tutto per nascondere la verità alle rispettive opinioni pubbliche.

La verità, infatti, è indigeribile sia per Tsipras, sia per gli altri governi europei. Per questi ultimi, e in particolare per quelli che hanno dovuto inghiottire le amare medicine (austerità e riforme) imposte dalla Troika, sarà dura spiegare l’ennesimo salvataggio della Grecia. È possibile che le loro opinioni pubbliche non capiscano (o capiscano fin troppo bene), e che in Paesi come la Spagna, il Portogallo e forse anche l’Italia, monti la tentazione di fare come in Grecia, e cresca il consenso ai partiti anti-uro. Per Tsipras, d’altro canto, sarà dura nascondere che il prestito che si accinge a ricevere dall’Europa ha un prezzo politico, e che il suo governo avrà le mani legate più o meno quanto quelli che l’hanno preceduto.

Dunque, prepariamoci. Fin dalle prossime ore, la politica europea si scatenerà nella ricerca di parole volte a nascondere quel che sta succedendo. E non sarà difficile trovarle. Se ci siamo abituati a non pronunciare più parole come spazzino, bidello, cieco, handicappato, e abbiamo imparato a sostituirle con “operatore ecologico”, “collaboratore scolastico”, “non vedente”, “diversamente abile”, ci metteremo pochi minuti a smetterla di pronunciare parole come Troika, salvataggio, memorandum. D’ora in poi, se tutto andrà per il verso desiderato, la Troika (Ue, Bce, Fmi) diventerà “le tre Istituzioni”, il salvataggio verrà chiamato “prestito ponte”, il memorandum verrà ribattezzato “nuovo accordo”.

Niente di male, naturalmente. Fa parte della politica, anzi forse è l’essenza stessa dell’arte politica, manipolare i fatti attraverso le parole. Il problema, tuttavia, è che i fatti resistono. E il fatto fondamentale, che resta in piedi al di là di ogni accordo, di ogni dichiarazione, di ogni promessa, è che l’Europa non solo non è ancora fuori della crisi iniziata sette anni fa, ma non ha trovato alcun meccanismo per far sì che quel che è successo allora non si ripeta in futuro. Qui non mi riferisco all’eventualità che la Grecia debba essere salvata un’altra volta ad agosto, e poi un’altra nel 2016, e poi un’altra ancora negli anni a venire. No, il punto decisivo è che quel che è successo in questi anni, con la Grecia come con gli altri Pigs, potrebbe benissimo ripetersi in futuro. E questo per una ragione molto semplice: nonostante alcuni tentativi di restyling della governance europea, i meccanismi economici di base dell’Eurozona sono rimasti sostanzialmente invariati.

E dopo più di 15 anni di moneta comune tali meccanismi hanno rivelato al di là di ogni ragionevole dubbio che non sono in grado di correggere gli squilibri fra gli stati membri.

Lo squilibrio fondamentale, quello che ha innescato la cri si del 2007-2008, non è tanto l’eccessivo indebitamento di alcuni stati, ma è l’accumularsi sistematico di forti disavanzi della bilancia dei pagamenti in alcune economie (tipicamente in Grecia, Portogallo e Spagna) e di altrettanto enormi avanzi in altri (tipicamente in Germania). In condizioni normali (senza una moneta comune) squilibri di questo tipo si correggono automaticamente con la svalutazione della divisa dei paesi deboli, la cui produttività ristagna o cresce troppo lentamente, e con la rivalutazione della divisa dei paesi forti, la cui produttività corre troppo in fretta. Dopo la svalutazione, i paesi che sono vissuti al di sopra dei propri mezzi sono costretti a importare meno beni prodotti da altri e ad esportare più beni prodotti da sé stessi, mentre l’esatto contrario accade, con la rivalutazione, per i paesi che hanno consumato e investito troppo poco, preferendo accumulare riserve finanziarie.

Ma se si abbandonano le valute nazionali per una valuta comune, il meccanismo del cambio scompare per definizione, e lo si deve sostituire con meccanismi alternativi. I fautori della moneta unica, presumibilmente, pensavano che tali meccanismi potessero essere tre: la convergenza delle dinamiche della produttività, favorita dalla concorrenza e dalla liberalizzazione dei mercati; la capacità delle banche di selezionare oculatamente i clienti, erogando il credito solo a chi avesse buone possibilità di restituirlo; la propensione dei mercati finanziari a punire (con gli alti tassi di interesse) gli Stati troppo spendaccioni. Ebbene, il problema è che in questi 15 anni nessuno di questi tre meccanismi ha mostrato di poter funzionare.

La convergenza delle produttività nazionali non c’è stata perché, in un contesto di stati nazionali con lingue e istituzioni diverse, la liberalizzazione dei mercati e l’armonizzazione delle legislazioni sono difficilissime da realizzare. La selezione dei clienti da parte delle banche non si è realizzata per una pluralità di motivi, primo fra tutti la mancata separazione fra banche d’affari e banche commerciali. Quanto ai mercati finanziari, essi hanno rivelato di essere ottusi nei periodi di vacche grasse (quando chiedevano gli stessi interessi alla Germania e alla Grecia) e iper-sensibili nei periodi di tensione (quando la paura del default di uno stato faceva schizzare all’insù i tassi di interesse, rendendo più probabile il default stesso).

Abbiamo motivo di pensare che qualcosa di importante sia cambiato e che quel che non ha funzionato ieri possa funzionare domani?

A me pare di no. Il problema che l’Eurozona aveva nel 1999, sostituire il meccanismo del cambio con meccanismi alternativi ma altrettanto efficaci, resta tuttora perfettamente insoluto. Ed è inquietante che quel problema, quello di gestire economie con sentieri di crescita divergenti, sia molto più chiaro ai critici dell’Europa che alle autorità europee. Si può (anzi, si deve) dissentire con chi sogna il ritorno alle valute nazionali, così come si può dissentire con chi teorizza lo split della moneta comune in un euro del Nord e un euro del Sud, o con chi propugna la messa in comune dei debiti pubblici. Ma resta il fatto che, se si insiste nella difesa a oltranza dell'euro, bisognerà pure, prima o poi, uscire dal silenzio e porsi il problema che l’adozione dell’euro ha generato: quello di un continente in cui ogni nazione vuol decidere da sola la propria strada, ma nessuna vuole abbandonare il totem della moneta comune.

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