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micromega

Se il capitale colonizza le parole della sinistra

Carlo Formenti

Perché e come il capitale è riuscito a trasformare certi concetti di sinistra in altrettanti “cavalli di Troia” per la penetrazione dell’ideologia liberista nelle masse? Questo il tema di un articolo di Alessandro Zabban sul sito “il Becco”.

Il crescente successo di parole come condivisione, sharing, mutualismo, consumo collaborativo, ecc. – strettamente imparentate con il vocabolario della sinistra “benecomunista” – alimenta illusioni in merito alla presunta capacità dei movimenti sociali di esercitare egemonia culturale nei confronti di certi settori imprenditoriali (in particolare di quelli più innovativi, legati alla produzione di piattaforme, applicazioni e servizi per l’economia di Rete).

Niente di più falso, scrive l’autore dell’articolo, il quale, sposando gli argomenti di Luc Boltanski ed Ève Chiappello (cfr. “Il nuovo spirito del capitalismo”, ed. Mimesis) – non lontani da quanto io stesso scrivevo tre anni fa nel mio “Felici e sfruttati” – rovescia completamente la prospettiva: vero è che il capitale è stato capace di appropriarsi,  deformandoli, dei valori della contestazione sessantottina e post sessantottina, trasformandoli in strumenti per dividere i lavoratori e sbarazzarsi delle “rigidità” che stato sociale, diritto del lavoro e organizzazioni sindacali imponevano all’accumulazione capitalistica.

L’elenco degli esempi è lungo. A cominciare dalla trasformazione del software open source – nato come progetto di autogoverno delle comunità di sviluppatori indipendenti – in un modello di business “aperto” che ha consentito a imprese come Google di sfruttare sia il lavoro a basso costo di centinaia di migliaia di giovani freelance, indotti a confrontarsi  in una gara di competizione selvaggia, sia il lavoro gratuito di milioni di prosumer che forniscono ai colossi della Internet Economy la “materia prima” dei propri dati personali. Per finire con la pletora delle nuove piattaforme di sharing di servizi che funzionano con modalità simili a quelle di Uber, la società che gestisce il taxi sharing in molte grandi città del mondo. Per quest’ultima rinvio a un mio recente articolo in cui ho coniato il neologismo “uberizzazione” del lavoro. Più in generale è possibile affermare, in sintonia con l’articolo de “il Becco”, che quasi tutte le esperienze di sharing che vengono descritte come reti di relazioni dirette e orizzontali fra produttori e fruitori di servizi, sono in realtà “spazi privati recintati” in cui chi controlla la piattaforma tecnologica che gestisce la rete realizza sovraprofitti sia a spese di lavoratori sottopagati (presentati come Indipendents Contractors) sia a spese degli utenti che cedono gratuitamente dati e informazioni utili al marketing.

Aggiungo solo una breve riflessione sulle ragioni che hanno facilitato questa operazione di “appropriazione/perversione” della cultura dei movimenti. Ricordate la tesi operaista degli anni Sessanta, secondo cui è sempre la pressione delle lotte operaie a sovradeterminare lo sviluppo del capitale? Quella tesi aveva un fondamento di verità nell’epoca fordista, un modo di produzione che regalava alla classe operaia potenti strumenti di lotta. Purtroppo è stata pedissequamente riproposta nell’attuale realtà del capitalismo delle reti, da parte di chi sostiene che lavoro autonomo, flessibilità e reti di cooperazione e condivisione sono espressione della “autonomia” del lavoro cognitivo che anche oggi detta al capitale tempi e forme del processo di accumulazione. Peccato che siano tempi e forme che hanno annientato la forza operaia, offrendo al capitale la retorica con cui ha ottenuto schiaccianti livelli di egemonia politico-culturale.

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