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Le conseguenze economiche dell’austerità

di Simon Wren-Lewis*

L’impatto delle misure di austerità fiscale sull’eurozona è stato immenso. In un mio recente articolo, stimavo – in maniera un po’ approssimativa – che il Pil della zona euro nel 2013 era calato del 4 per cento a causa dei tagli ai consumi e agli investimenti pubblici. Secondo altri l’impatto è stato ancora maggiore.

Abbiamo ora una nuova stima, molto più accurata della mia. In un loro recente paper, Sebastian Gechert, Andrew Hughes Hallett e Ansgar Rannenberg applicano i moltiplicatori fiscali ai cambiamenti nei saldi di bilancio dei vari stati dell’eurozona a partire dal 2011. Il loro calcolo si differenzia dal mio per il periodo di osservazione ma soprattutto per il fatto di aver incluso tutti i cambiamenti nelle posizioni di bilancio e non solo i consumi e gli investimenti pubblici. È un dettaglio non da poco se consideriamo che una grossa parte del consolidamento fiscale nell’eurozona ha riguardato proprio i trasferimenti fiscali.

Inoltre essi si sono basati su dei “meta-moltiplicatori” (derivati dall’analisi di diversi moltiplicatori) da cui emerge che i moltiplicatori fiscali sono maggiori nelle economie in depressione. Applicando questi meta-moltiplicatori al consolidamento fiscale dell’eurozona risulta che nel 2013 il Pil dell’unione monetaria era più basso del 7.7 per cento a causa delle politiche di austerità (in linea con le conclusioni di altri studi simili).

Queste stime indicano che la distruzione di reddito è stata enorme; una distruzione che la politica monetaria non aveva né la volontà né la capacità di contrastare. Eppure la classe politica europea continua a ignorare la realtà dei fatti. Si veda per esempio questo recente articolo di Marco Buti (direttore generale per gli Affari economici alla Commissione europea) e Nicolas Carnot (suo consigliere economico). Per fortuna, i due ignorano il groviglio di regole tortuose e spesso contraddittorie dell’eurozona e si concentrano solo due parametri: l’output gap (la differenza tra il prodotto interno lordo effettivo e quello potenziale, spesso usato per indicare lo stato di salute di un’economia) e il fiscal gap o scarto di bilancio, che indica lo scarto tra l’effettivo bilancio primario e quello che sarebbe necessario per ridurre gradualmente il debito.

Gli autori sostengono che la politica deve trovare un equilibrio tra le esigenze di ridurre sia uno che l’altro. Sulla base di questi due parametri, giungono alla conclusione che la Germania sta eccedendo nel consolidamento fiscale e dovrebbe incrementare l’attività economica; Francia e Spagna, invece, pur necessitando anch’essi di stimolare la domanda interna, presentano degli scarti di bilancio eccessivi e dunque dovrebbero dare priorità alla riduzione di quest’ultimo gap. La conclusione è che la Germania dovrebbe optare per uno stimolo fiscale, mentre “la via più indicata per la Francia e la Spagna è quella di un moderato consolidamento fiscale”. In generale, scrivono, “l’eurozona dovrebbe mirare ad una posizione di bilancio neutrale o quasi”.

Partiamo da quest’ultima conclusione. L’errore in cui incappano Buti e Carnot è semplice. Nel lungo termine chiudere il fiscal gap è importante, ma quando la politica monetaria raggiunge lo zero lower bound (quando, cioè, i tassi nominali non possono scendere al di sotto dello zero), è da pazzi cercare di controbilanciare l’output gap con l’unico strumento che hai a disposizione per ridurre quel gap, ossia la politica fiscale. La perdurante recessione europea è in buona parte una conseguenza del tentativo di correggere il fiscal gap al momento sbagliato. La cosa giusta da fare in una recessione è prima riportare l’output gap a zero, così da far risalire i tassi di interesse sopra lo zero, e poi preoccuparsi del deficit.

Gli stessi princìpi ovviamente valgono anche per i paesi dell’eurozona. La differenza è che nel caso di una unione monetaria bisogna anche fare i conti col problema della competitività relativa. Se un paese è troppo competitivo rispetto al resto dell’eurozona, dovrà portare il proprio output gap in positivo per il tempo necessario per generare l’inflazione che serve per correggere quella posizione, e vice versa. È questo – e non il fatto che sta eccedendo nei suoi sforzi di riduzione del debito – il motivo per cui la Germania in questo momento ha bisogno di un cospicuo output gap positivo (rispetto all’attuale gap negativo) e dunque di una politica fiscale molto, molto più espansiva di quella attuale. Francia e Spagna, invece, sono più o meno nella media europea in termini di competitività (si veda la figura qui sotto) e dunque hanno bisogno di un’espansione fiscale per chiudere l’output gap.

Purtroppo la tendenza ad un’eccessiva contrazione fiscale, che ha già causato enormi danni all’eurozona, persiste. Di conseguenza l’inutile spreco di risorse causato dall’austerità si fa ogni giorno più grande.

 

*Professore di economia alla Oxford University.

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