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Il nodo del fisco

di Aldo Giannuli

Per quanto possa sembrare scandaloso al lettore europeo, la legislazione americana prevede una tassazione “regressiva” sul reddito, per cui i lavoratori dipendenti pagano le tasse per una aliquota del 35% mentre i redditi superiori al milione di dollari annuo pagano il 15% (1). Questo in ossequio al mantra neo liberista, per cui sono i ricchi a consumare ed investire, quindi devono pagare meno tasse degli altri, perchè così investono e stiamo meglio tutti.

Infatti, i ricchi investono, ma in altri titoli finanziari per fare altro denaro che reinvestiranno in altri titoli finanziari e così via, senza che questo crei un solo posto di lavoro. La cosa, a pensarci bene, fa un po’ ribrezzo, al punto che persino quel gentiluomo di Warren Buffet si è detto stufo di pagare tasse percentualmente inferiori a quelle della sua segretaria.

Anche il Presidente della Francia, Françoise Hollande (2), minacciava sfracelli tributari contro i ricchi (per la verità, lo ha fatto un po’ meno in occasione della sua visita alla City a Londra, quando ha spiegato che non ce l’ha con la finanza). E dunque si levi il grido: “Tasse ai ricchi!”. Giustissimo, ma come?

Il guaio è che noi non sappiamo quanto sono ricchi i “ricchi”. Innanzitutto, richiamiamo una delle cose dette all’inizio: da un punto di vista economico, quello che conta non è il numero delle persone da tassare ma la quantità di ricchezza posseduta, per cui, anche se i ricchi in America sono circa 400 famiglie (cioè 1 persona ogni 250.000), e, dunque sembrano irrilevanti numericamente, quello che conta è che hanno la fetta più rilevante della ricchezza nazionale. C’è un modo di ragionare sbagliato, nel quale spesso cadono anche persone di sinistra, che suona più o meno così: “se i cittadini che hanno un reddito superiore al milione di euro (o dollari) sono solo 500, questo vuol dire che la loro ricchezza complessiva ammonta a qualcosa di più di 500 milioni di euro, forse il doppio, il triplo o addirittura dieci volte tanto, dunque, si tratta di una porzione minoritaria della ricchezza, per cui la parte più rilevante è da cercare nella fascia medio-alta, quei 2 milioni di contribuenti che, guadagnando fra i 50.000 ed i 100.000 euro (calcolando una mediana di 75.000) rappresentano una massa di circa 150 miliardi di Euro, cioè 300 volte di più del totale presuntivo precedente” (3).

L’errore è doppio ed è spesso indotto dal modo malizioso con cui vengono proposte le statistiche sui giornali, perchè, mentre per la classe contributiva di mezzo si dà un valore minimo ed uno massimo (per cui il lettore calcola approssimativamente la mediana), quella più alta è una classe “aperta” per la quale si indica solo il valore minimo, dunque il lettore è indotto a pensare che la mediana non sarà superiore a cinque o dieci volte il valore più basso.

Ma l’errore più rilevante è l’altro: come abbiamo ripetuto alla nausea, la propensione al risparmio è funzione del reddito, per cui, se il confronto sul reddito può essere relativamente contenuto, quello sui patrimoni raggiunge distanze stellari. Se il reddito degli ultraricchi si conta nell’ordine di decine o forse centinaia di milioni di euro, il patrimonio accumulato spesso supera le diverse migliaia di miliardi. E questo è l’effetto della rendita finanziaria che, non solo produce guadagni crescenti e sempre maggiori rispetto a quelli delle altre classi di reddito, ma, per di più, è anche merito della legislazione fiscale combinata con la normativa sulla libertà di movimento dei capitali adottata dagli anni ottanta in poi.

Già nei primi anni ottanta si manifestò una elevata erraticità dei capitali da un capo all’altro del Mondo e con conseguenze non sempre auspicabili o di poco conto (4). Dopo, una legislazione sempre più permissiva, il decalogo del Washington consensus, accordi internazionali sempre più favorevoli alla libera circolazione mondiale dei capitali e l’ingresso trionfale delle nuove tecnologie informatiche nella finanza, fecero il resto.

La giustificazione di queste scelte: solo con la libera circolazione di capitali e merci si può garantire l’allocazione ottimale delle risorse. Ma, lasciando impregiudicata la questione della fondatezza di questo assunto, c’era anche dell’altro. Fra gli anni venti e gli anni settanta c’era stata una crescita notevole del reddito delle classi medie e popolari: i salari erano considerevolmente cresciuti per effetto dell’azione sindacale, un forte intervento statale in economia aveva sostenuto l’occupazione, lo sviluppo del welfare aveva garantito sanità ed istruzione quasi gratuite ai non abbienti ed al ceto medio, lo sviluppo dell’edilizia popolare aveva risolto gran parte del problema abitativo. In definitiva, l’intervento statale in economia (tramite investimenti diretti nelle grandi opere o tramite l’impresa pubblica o indirettamente attraverso l’erogazione di servizi a prezzi politici) aveva costantemente operato un trasferimento di ricchezze dai ceti abbienti a quelli popolari, attraverso la leva fiscale. Nel ventennio 1960-80 la media dei paesi Ocse (5) segnalava che la pressione fiscale era passata dal 25,8% del Pil al 32,16. Bisogna inoltre tenere presente che, nel periodo considerato, i diversi regimi fiscali nazionali erano tendenzialmente ispirati ad una certa progressività sul reddito e basati più sulla tassazione diretta che su quella indiretta, mentre le tariffe dei servizi pubblici (dalle tasse universitarie ai ticket sanitari o al costo dei servizi pubblici) erano molto bassi.

Diamo ora un’occhiata a questi dati relativi alla percentuale del gettito fiscale sul Pil al decennio 2000-2009 (abbiamo scelto i paesi più rappresentativi confrontando il dato del 2000 –prima colonna- con quello del 2009 –seconda colonna; sempre percentuale del gettito fiscale sul Pil):

Usa 29,6% | 24%
Giappone 27,1% | 28,1%
Germania 37,9% | 37%
Francia 45,3% | 41,9%
Italia 42% | 43,5%
Inghilterra 37,4% | 34,3%
Svezia 54,2% | 48,2%

Le media Ocse è scesa dal 37,4% al 32,6%. Dunque, il gettito ha registrato un aumento dal 1980 al 2000 (anche se contenuto) per poi tornare praticamente ai livelli del 1980. Ma, bisogna tenere presente che:

a- nel frattempo la tassazione è andata spostandosi verso le fasce di ceto medio o perchè (in paesi come in Italia) l’aliquota massima è rimasta ai livelli nominali precedenti7 o perchè (come negli Usa) si sono applicati sgravi ai redditi maggiori per cui “chi ha di più paga di meno”)

b- sono considerevolmente cresciute un po’ dappertutto i costi di tasse universitarie e scolastiche, ticket sanitari, prezzi dei trasporti pubblici ecc.. che, ovviamente, attingono molto di più dalle classi medie e popolari che da quelle abbienti.

Dunque, la pressione fiscale è complessivamente diminuita ed è andata spostandosi verso i ceti medio bassi. Si noti anche il parallelismo fra il calo del gettito fiscale e l’incremento del debito pubblico.

Un caso? Tutt’altro: un obbiettivo raggiunto. Lo scopo vero (o comunque più importante) della normativa sulla libera circolazione dei capitali era proprio quello di sottrarre allo Stato la possibilità di operare quella redistribuzione di ricchezze di cui abbiamo detto. Ed a confermarcelo è un apologeta della globalizzazione come Wolf che, dopo qualche contorsione, ammette:

<< Gli stati  possono ancora redistribuire il reddito nella misura in cui coloro che detengono i fattori produttivi o le attività assoggettate alle aliquote più elevate non sono in grado o non desiderano evadere o eludere le tasse. Questi soggetti potrebbero anche essere favorevoli a pagare le tasse, sempre che vedano la retribuzione del reddito  come un beneficio relativo a quella giurisdizione, o perchè si identificano con i beneficiari della  redistribuzione, o perchè temono8 di poter diventare essi stessi diventare beneficiari. o perchè attribuiscono importanza alla sicurezza individuale che deriva dal fatto di vivere in mezzo a persone che non si trovano in condizioni disperate>> (9)

Per tagliare corto: i poveracci le tasse le devono pagare mentre quelli “che detengono i fattori produttivi…”, cioè lorsignori, le pagano se gli va; bellissimo quel “potrebbero anche essere favorevoli a pagare le tasse..(se) non desiderano evadere o eludere le tasse”: bontà loro. Dopo di che qualsiasi principio liberale di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge è praticamente abrogato. Quel che dimostra che liberismo e liberalismo non sono la stessa cosa e la maggioranza dei neo liberisti non sono affatto liberali.

Il punto è che i capitali finanziari si sono globalizzati, ma il fisco è rimasto nazionale e questo ha avuto come risultato la nascita di uno stato virtuale “Riccolandia” che prende denaro da tutti e non ne versa a nessuno. Ne riparleremo.

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1)  Federico RAMPINI “Obama inventa la Tassa Buffet” in Repubblica 19.911 p. 15. Per la verità questi graziosi cadeaux agli ultraricchi non sono stati solo opera dei repubblicani ufficiali Bush padre e figlio, ma anche del repubblicano ausiliario Clinton.
2) “S24” 27.1.12 p. 23
3) Le cifre sono convenzionali, per capirci, non si riferiscono a nessun paese in concreto.
4) Robyn T, NAYLOR “Denaro che scotta” Edizioni Comunità, Milano 1989
5) Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo Economico, fondata da tutti i paesi del blocco Nato con l’aggiunta della Svezia.
6) Martin WOLF “Perchè la globalizzazione funziona”
7)  Se nel 1990 l’aliquota massima del 40%si applicava oltre la soglia dei 50.000 euro attuali, aver mantenuto sostanzialmente invariato quel valore venti anni dopo,  senza tener conto della svalutazione, ha significato spostare sempre più verso il basso la soglia oltre la quale scatta il prelievo massimo.
8) Il punto merita un chiarimento: “Temono” di poter diventare beneficiari a causa di un loro eventuale impoverimento.
9) Martin WOLF “Perchè la globalizzazione funziona”

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