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Riflessioni post-black-bloc

Paolo Bartolini

Passività, ribellione o... Risveglio? Perché il popolo non si ribella al capitalismo predatorio e parassitario nella sua versione neoliberista?

Ho letto un interessante articolo sulle devastazioni di Milano ad opera delle tute nere. Il blogger Fenrir si interroga sul perché molti cittadini si indignino contro i black bloc (che l'autore non difende, sia chiaro) invece di dirigere il loro malcontento verso i reali responsabili del disagio epidemico che ci affligge: gruppi finanziari, potere politico, multinazionali, e così via.

Siamo diventati tutti "ultimi uomini" (per citare Nietzsche), piccoli borghesi individualisti che al massimo sono pronti a battersi per difendere esclusivamente i loro vantaggi privati?

Questo non stupisce ed è plausibile, tuttavia chiedersi perché il popolo non si ribelli al capitalismo predatorio e parassitario nella sua versione neoliberista non può ottenere una sola risposta. Lo sa bene un intellettuale rigoroso come Marino Badiale, che mesi orsono si è confrontato con lo stesso spinoso problema.

Comprendere le origini della passività collettiva rispetto agli abusi del potere che ci sovrasta, richiede a nostro avviso l'interazione reciproca di almeno tre fattori: quello sociologico, quello mitico-spirituale-simbolico e quello critico-politico.

Al primo livello è indubitabile che l'atomizzazione di massa a cui assistiamo da decenni, rafforzata dal sistema spettacolare veicolato dai mass media e dalla pubblicità, abbia isolato i cittadini, inculcando ancor più in ciascuno di essi l'idea - fondante per l'Occidente - di essere individui separati dagli altri e "naturalmente" chiamati a competere per sopravvivere. Gli studi sull'uomo flessibile (Sennett), sulla modernità liquida (Bauman), sulla società del rischio (Beck), confermano la chiusura progressiva dei singoli nel loro ambito privato, come risposta difensiva per fronteggiare le minacce provenienti dal precariato lavorativo, dalla diffusione della concorrenza in ogni contesto di vita, dall'incontro con soggetti appartenenti ad altri universi culturali, dalla perdita di punti fermi esistenziali travolti dal vortice delle innovazioni economiche, tecnoscientifiche e di costume.

Sul versante simbolico e spirituale possiamo affermare - come ha fatto meravigliosamente Roberto Mancini nel suo "Trasformare l'economia" (Franco Angeli, 2014) -  che il mito soggiacente all'odierna (dis)organizzazione sociale poggia sulla convinzione implicita, e profondamente radicata, che la vita intera sia solo una guerra combattuta per rimandare di qualche tempo l'inevitabile caduta nel burrone della morte. Anche il consumo compulsivo di merci e la ricerca del godimento come obiettivo primario per molte persone, testimoniano di un'angoscia sottile e del vano tentativo di placarla mediante il meccanismo della ripetizione (i comportamenti appropriativi, che manifestano un'oralità insaziabile e impossibile da soddisfare,  tendono a ripetere il loro rito apotropaico quotidiano in nome di un "piacere di vivere" che, a ben vedere, rappresenta un esorcismo patetico e inefficace). La mancanza di un Senso, non necessariamente trascendente ma comunque irriducibile alle logiche profane degli scambi economici e dei rapporti umani strumentali, crea un vuoto interiore e infinitizza a tal punto la paura da ridurre al minimo le energie vitali indispensabili per trasformare radicalmente l'esistenza.

Infine giungiamo al piano della politica. Molto si è scritto e si è detto sulla crisi delle ideologie, sugli insuccessi del riformismo e del rivoluzionarismo. Nonostante questo crediamo che ancora non si riesca a dare il giusto peso ai fallimenti delle battaglie antisistema novecentesche. In particolare la violenza rivoluzionaria ha dimostrato che nessuna trasformazione autentica può essere imposta velocemente e con le armi, perché se è giusto dire che rovesciare i rapporti di forza non è come andare a un pranzo di gala, è altrettanto vero che i portatori di questi "sogni" di sovvertimento hanno aggiunto al lungo elenco di tragedie della Storia troppe pagine, quasi sempre orribili e squalificanti.

Sappiamo bene, per tornare ai fatti di Milano, che le tute nere non nutrono affatto ambizioni rivoluzionare, piuttosto esprimono in modo spettacolarizzato l'altra faccia del Potere che contestano (producendo anch'essi distruzione, generando paura e indebolendo le ragioni di chi manifesta pacificamente contro l'ipocrisia di un sistema fallimentare).

Allora portiamo fino in fondo il ragionamento, senza cadere nell'errore di chi, facendo parte della cosiddetta galassia antisistema, ha giudicato con livore e sufficienza i cittadini accorsi a ripulire (a favore di telecamera, inevitabilmente) le vie di Milano dopo lo scempio nero del primo maggio.

In quei gesti di cura per la propria città, che sicuramente includono anche esempi di buona volontà "renziana"  di cui faremmo volentieri a meno, c'è una possibile risposta a tutte le forme di violenza che si esercitano sui cittadini. Si tratta, per una politica radicale che voglia dare frutti, di lavorare pazientemente per far riconoscere alle persone entrambe le facce della medaglia chiamata "Violenza" (quindi tanto la barbarie della logica capitalistica, quanto la natura spesso dannosa delle reazioni inconsulte che essa genera), ma ancor più di creare una cultura effettiva di solidarietà, responsabilità e partecipazione che intacchi le origini di ogni fuga nel privato: la paura e l'angoscia.

Questa svolta, che riguarda l'esperienza di una fede/fiducia nella vita e nella dignità umana contro la parola ultima della morte, si alimenta di gesti di pace, di amore e di cooperazione. Quei gesti che - si badi bene - non rifiutano il conflitto e la critica, ma mettono entrambi al riparo dalla furia nichilista che pervade, in segreta complicità, il Potere e i suo Nemici, liberando l'unica forza che potrà condurci oltre il capitalismo: la certezza, vissuta nel cuore e nell'anima, che esistono già altri modi possibili di vivere, dotati di senso e capaci di conquistare con l'esempio altri compagni di lotta. Perché in fondo vale ancora e sempre l'invito gandhiano ad "essere il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo".

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