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alfabeta

Marx nelle strade, non alla biennale!

Elvira Vannini

Scriveva Toni Negri nel 1988: “credo che in nessun caso più che in quello dell’arte, della sua produzione e del suo mercato, la forma di organizzazione sociale che Marx chiama sussunzione reale sia oggi realizzata”1 . Ma non è solo la sottomissione reale del lavoro al capitale che trova nell’arte un’applicazione esemplare. Il suo mercato infatti, tra le economie più potenti, non ha registrato gli effetti recessivi della crisi finanziaria globale. L’artista è subordinato a dispositivi di potere che depotenziano ogni vettore di soggettivazione e controllano la sua attività. Il sistema degli addetti ai lavori è ormai diventato la nuova unità di produzione del capitale semiotico. È sullo scenario di questa paradigmatica filiera produttiva del capitalismo postfordista (e dei suoi perversi meccanismi di sfruttamento), basata sul modello di sviluppo economico delle industrie creative e sostenuta da un immenso bacino di lavoro non salariato, che si apre la 56a Biennale di Venezia sotto la direzione del nigeriano Okwui Enwezor.

Collezionisti miliardari, attori del capitale internazionale e dell’élite indiscussa dello showbiz più patinato, partecipano al vernissage e ai suoi rituali, scendono dai lussuosi yacht, ormeggiati di fronte ai Giardini, e raggiungono il cuore della mostra, nel Padiglione Centrale: qui trovano Stefano Boeri che introduce Das Kapital insieme al gallerista milanese Jean Blanchaert travestito da Marx! Come ha illustrato il curatore la rassegna All the World’s Futures ha il suo fulcro nell’Arena, una sorta di oratorio (più un palcoscenico), che ospiterà un’imponente lettura dal vivo, per tutti i sette mesi della mostra, dei tre libri de Il Capitale.

Mi sento un pò come all’interno della videoinstallazione Factory of the Sun di Hito Steyler nel Padiglione Tedesco, mentre la voce-off dice: “Non sono sicura dove il gioco finisce e comincia la vita vera. Si scopre che tu sei il tuo nemico e devi trovare una via d’uscita in un Motion Capture Studio gulag”. Così siamo noi i lavoratori forzati, tra sorveglianza e new liberalistic pleasures artificiali, la danza è uno strumento di resistenza e durante una manifestazione, in assetto da combattimento, siamo assaliti dagli spari dei droni della Deutsche Bank.

Il grande dramma della nostra epoca (che Enwezor individua nel capitale) aleggia nella grande potenza del Leviatano, evocato per trattenere e neutralizzare il conflitto, sia che si tratti di una balena, come nello scheletro che domina il Padiglione Albanese, proiezione del nemico che emerge dalla “schiuma della storia” alterando i codici visuali che la guerra fredda ci ha consegnato, fino allo straordinario Vertigo Sea di John Akomfrah che fa saltare la nostra scala visiva immergendoci negli abissi profondi degli oceani, dove l’impresa coloniale ha combattuto una feroce battaglia di predazione, conquista, morte e sfruttamento.

La struttura espositiva, oggi non più conforme alle tre unità classiche della modernità (di tempo, di spazio e di narrazione) è frammentata in una mostra ipertrofica incapace di decostruire i linguaggi, le politiche, i sistemi discorsivi e le funzioni creative. Manca il montaggio, se non l’idea stessa della costellazione di “filtri”, che finisce per provocare un aumento dei circuiti istituzionali che governano il pubblico e rafforzano il sistema (musei, potenti gallerie, collezionisti). Nella mostra centrale bisogna riconoscere la presenza di ottimi lavori e grandi artisti, ma come dobbiamo leggere la partecipazione di Gulf Labor Coalition, un’organizzazione autogestita, a supporto dei lavoratori dell’arte contemporanea, che ha avviato una serie di manifestazioni di boicottaggio contro la costruzione di colossi istituzionali quali il Guggenherim di Adu Dhabi o della raccolta fondi destinata all’Archivio Primo Moroni ad opera di Marco Fusinato? A cosa servono e quali segni producono questo tipo di operazioni? Dov’è l’Africa di Enwezor, la diaspora, l’immigrazione e il processo di decolonizzazione o la biennale del 74 dedicata alla causa cilena su cui ha tanto insistito il curatore a livello programmatico?

Dimentichiamo la Documenta 11 e le sue coraggiose Platform teoriche, “intellettualmente rigorose e metodologicamente avventurose”, che dovevano espandere temporalmente, concettualmente e geograficamente la mostra stessa, ponendo l’arte (pur senza poter presagire l’attacco alle torri gemelle negli stessi giorni), al pari di altri paradigmi come strumento di analisi della realtà. L’assunto marxista originario, ripreso ancora oggi dai movimenti sul terreno dello scontro politico, era certamente quello di forgiare uno “strumento teorico di parte” da usare per sovvertire il presente, auspicando una trasformazione rivoluzionaria contro il comando capitalistico e i suoi rapporti sociali, così il proletariato avrebbe iniziato la sua rivolta (e di lì a poco la Comune di Parigi avrebbe mostrato in tutto il suo potenziale). Di questi tempi, invece, a Milano c’è Expo e a Venezia la Biennale. Boeri legge Das Kapital e il suo partito manda a ripulire i muri della città dalle scritte del dissenso durante il corteo del primo maggio. A Venezia l’arte è asservita all’establishment e ai suoi domini spettacolari, strumento compiacente del mercato è incapace di parlare di tutti i futuri del mondo.

La questione arte e politica, la costellazione postcoloniale, la fame, le guerre e i genocidi, gli squilibri sociali in atto, sono reificati in uno dei tanti trend a cui l’industria culturale ci ha abituato. Tutti i processi, non solo quelli politici, che non sono in grado di generare dei salti in avanti si indeboliscono e faticano a mutare i rapporti di forza: Das Kapital avrebbe potuto svilupparsi come una base funzionale per capire e interpretare le condizioni economico-politiche della produzione artistica ma rivela solo una profonda inadeguatezza nelle forme della sua esposizione, l’assorbimento simbolico dell’arte “a livello della sua funzione, in quanto spettacolo”, oltre alla difficoltà di porsi come soggetto di riferimento nella crisi culturale del presente, rispetto all’industria creativa e al lavoro cognitivo, costretta a fare i conti con l’eterogeneità costitutiva dei tempi storici, imposti dal potere, nel terreno strategico su cui ridefinisce la valorizzazione del capitale attraverso se stessa.

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Note
Toni Negri, Arte e multitudo (a cura di Nicolas Martino), DeriveApprodi, 2014, p. 62 []

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