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alfabeta

Sulla crisi permanente

Emanuela Fornari

La “crisi” nasce in Grecia. Così Myriam Revault d’Allones apre il suo saggio La crisi senza fine. Saggio sull’esperienza moderna del tempo (O barra O edizioni, 2014, pp. 180) dedicato alla crisi intesa quale “metafora assoluta” del nostro tempo. Si tornerà – e per diverse ragioni – sull’origine greca di un lemma che al giorno d’oggi imperversa non solo nel dibattito pubblico ma anche nella vita quotidiana di ciascuna e ciascuno. Perché merito del libro di Revault d’Allones è innanzitutto quello di offrire al lettore un esemplare raro di “storia dei concetti” che muove da un interrogativo che coinvolge in modo bruciante l’attualità.

Che ne è della crisi quando questa si fa permanente? Quando l’eccezione (la krisis come momento culminante di una malattia, secondo l’origine medica del termine) diviene norma, stato perpetuo e irredimibile? E che ne è, soprattutto, della politica, che con il tempo e sul tempo costruisce – deve costruire – la propria trama di storicità? Storicità che altro non è che un costante, contingente intreccio di continuo e discontinuo, a testimoniare la presenza dell’atto, dell’agire, in un altrimenti piatto scorrere degli accadimenti.

Ma, per sintetizzare l’operazione di Revault d’Allones, vorrei muovere a ritroso, partendo dalle domande con cui il testo si chiude. La filosofa francese, infatti, prende atto di una “crisi del tempo”, di una detemporalizzazione, che caratterizzerebbe le nostre società cosiddette avanzate, costrette a vivere in altrettante “eterocronie” che impediscono di riportare a una sintesi coerente quelli che Reinhardt Koselleck riteneva i due assi del tempo vissuto: l’esperienza e l’aspettativa.

Vivremmo così oggi in un regime di “presentismo”, in “un presente mostro, ipertrofico” (p. 123), in virtù del quale è lo stesso tempo storico a trovarsi abolito. Si tratta, in queste condizioni, di un’uscita dalla modernità, di una nuova “soglia d’epoca” (e vedremo quanto la questione della “soglia” conti per una riflessione sulla crisi)?

Myriam Revault d’Allones non offre risposte, ma propone un’avvincente genealogia della “crisi” che – sin da subito ci viene detto – ha statuto non già di concetto, bensì di metafora. Una metafora che, nata a significare l’interpretazione da parte degli aruspici del volo degli uccelli, si trasferisce dall’ambito giudiziario – dove krinein, com’è noto, designa il decidere, il separare – all’ambito della semiologia medica, dove viene a indicare una rottura nel ritmo temporale della malattia. Ma sull’origine greca (e politica) della crisi si tornerà in seguito, come già accennato. Revault d’Allones dedica infatti la parte centrale del libro alla modernità: alla modernità non solo in crisi, ma alla modernità come crisi.

Qui vengono in soccorso autori come Blumenberg e Foucault, per i quali la modernità – lungi dall’essere un’età del tempo – è “atteggiamento”, ethos, auto-posizione performativa. Se il senso politico del termine “crisi” si affermerà con Diderot e con gli Illuministi, è tuttavia a Rousseau che – si sostiene nel libro – dobbiamo un’elaborazione della crisi che la libera da ogni impianto teleologico: la crisi diventa “esemplare”, il momento in cui – in modo contingente, imprevedibile – l’umanità può uscire da uno stato di barbarie. È questo il momento in cui dalla critica – per ricordare un celebre testo del già citato Koselleck – si passa alla crisi: nel momento in cui la scissione hobbesiana tra foro interiore e obbedienza esteriore, o tra suddito e cittadino si rivela insostenibile, e il “conflitto critico” prelude al 1789.

Qui si apre la grande interrogazione della modernità su se stessa che, sul piano epistemologico, possiamo tradurre in una serie di domande: “come elaborare un tipo di continuità capace di chiarire la natura e la realtà delle rotture? Come pensare il rapporto del continuo e del discontinuo? Come comprendere i momenti d’irruzione, d’invenzione, di frattura che rompono la continuità temporale?” (p. 58). La crisi si rivela così non come accidente contingente, e ancor meno come malattia, bensì come “costitutiva dell’esperienza moderna del tempo e della storia” (p.101). La crisi, soprattutto, ha a che vedere eminentemente con la politica, essendo la politica non solo e non tanto governo dello spazio quanto governo del tempo: “cronopolitica”.

A partire da questo carattere eminentemente politico della “crisi”, è bene tornare alle sue origini greche: e in particolare a Tucidide che, nella Guerra del Peloponneso, inaugura l’idea della “crisi politica”, facendo di essa un “momento di verità” (p. 27): un segno storico-tragico. La crisi nasce cioè con la democrazia, con essa convive e di essa vive. Se dunque in apparenza la crisi odierna, sul cui bordo interminabile apparentemente viviamo, sembra avere i tratti della “gabbia” di weberiana memoria, in chiusura del testo – rivendicando la politicità della crisi – Revault d’Allones propone un’altra metafora: quella, arendtiana, della lacuna del tempo: vale a dire “l’interruzione – attraverso la capacità umana di cominciare – del corso del tempo che, abbandonato a se stesso, porta inevitabilmente alla rovina e alla morte.” (pp. 141-2). La crisi non più dunque come gabbia, ma come salto: come, secondo la sua origine greca, nuova invenzione democratica.

Myriam Revault d’Allones
La crisi senza fine. Saggio sull’esperienza moderna del tempo 
O barra O edizioni (2014), pp. 177
€ 15,00

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