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paroleecose

Ma quale Rivoluzione

di Francesco Pecoraro

La morte di Pietro Ingrao sta innescando un sentimento collettivo di nostalgia generazionale. La nostalgia, se coltivata privatamente, è un sentimento come un altro. Ma quando diventa collettiva assume consistenti sfumature di oscenità. La più ripugnante è questo ri-pensarsi delle generazioni italiche novecentesche, considerandosi come ex-rivoluzionarie.

Non so voi, ma io, ripercorrendo l’intera mia esistenza di non-militante (e tuttavia fedelmente immancabilmente votante PCI), mi accorgo di non essere mai stato un rivoluzionario, anche se ho molto parlato di Rivoluzione. Non solo io non lo sono mai stato, ma la gran parte del Partito, dal ’46 in poi, non lo fu mai. Non lo fu Ingrao, non lo furono le ali estreme, non lo furono i fuoriusciti del Manifesto, non lo furono partiti come il PSIUP: nessuno che nel PCI contasse qualcosa fu mai un vero rivoluzionario. «Non ci sono le condizioni», si diceva in continuazione: certo che non c’erano. L’Italia faceva parte della metà del mondo occidentale che nella spartizione di Yalta si assegnava all’impero americano, era nella Nato: non solo non ci sarebbe stata consentita la rivoluzione proletaria, ma era impossibile anche l’ingresso del PCI in una coalizione di governo, per non parlare di una maggioranza parlamentare e conseguentemente di un governo a conduzione comunista. Ma non furono queste le vere cause del nostro parlare di Rivoluzione senza essere rivoluzionari, cioè senza essere realmente disposti alla Rivoluzione. Secondo la mia visione i veri motivi furono altri.

Il primo, e il più importante, era che stavamo abbastanza bene nel capitalismo italiano. Il Paese cresceva economicamente, la sinistra rivoluzionaria giovanile collaborava indirettamente alla sua necessaria ristrutturazione, facendolo uscire da uno stato prolungato di vetero-cattolicesimo autoritario, e introducendolo alla laicità consumista di cui ha bisogno il mercato moderno. Non esisteva uno stato di ingiustizia sociale estrema e di massa, ma solo un normale sfruttamento, con tassi di disoccupazione accettabili: la sofferenza e il disagio venivano però occultate dalle buone condizioni economiche degli operai occupati, di una piccola borghesia in ascesa sociale. Il Paese da povero che era diventava, se non proprio ricco, riccastro: il reddito veniva, sia pure moderatamente, re-distribuito, il capitalismo era frenato mitigato contrastato da un forte movimento operaio. Cioè da PCI & sindacati. In questo senso il PCI fu agente determinante per la crescita capitalista. La rivoluzione proletaria non si può fare in un paese con consistenti elementi di social-democrazia, perché viene a mancare proprio la disperazione proletaria di cui dovrebbe nutrirsi.

Il secondo motivo di ripulsa della Rivoluzione, probabilmente derivato dalle condizioni di civiltà raggiunte, fu la silenziosa non accettabilità di una implicita conseguenza dell’insurrezione: lo scorrere del sangue. Sangue che già in effetti scorreva abbondante nello scontro tra terroristi (questi sì, veri rivoluzionari, proprio per l’atrocità dei loro metodi e proprio per questo completamente isolati) e Stato e che de-stabilizzava il tacito, mai dichiarato, patto di reciproca assistenza PCI-Istituzioni. La de-stalinizzazione sovietica, prontamente adottata dal comunismo italiano, ripudiava violenza, purghe e gulag come atrocità assolute, paragonabili a quelle del nazismo, dimenticando che senza atrocità, purghe e gulag non c’è Rivoluzione. Si discuteva se lo stalinismo fosse già nel leninismo, cui si voleva restare il più possibile agganciati, pena la caduta totale di una teoria e di una prassi della Rivoluzione. La risposta, mai ufficialmente data, era naturalmente affermativa: non puoi abolire la proprietà privata senza tagliare un bel po’ di teste.

Il comunismo era quello che si vedeva là dove si era realizzato. Ma da un certo momento in poi si cominciò a fare finta di no. Quello vero era tutt’altra cosa. In Russia nessuno moriva più di fame, non c’erano più servi della gleba, tutti avevano diritto a Casa Istruzione Lavoro Salute, ma non c’era «libertà». Dunque occorreva costruire un comunismo diverso, munito di «libertà», senza però chiamarlo col suo vero nome: socialdemocrazia. Fu su questa ambiguità, sull’enorme quantità di non detto, che il PCI si incagliò nelle secche dell’89. Rotolò sulla battigia del neo-capitalismo e lì si arenò. Mostrando una capacità trasformista degna della migliore tradizione italiana, divenne progressivamente ciò che è oggi, assumendosi quel lavoro sporco che il capitalismo finanziario europeo esigeva da tempo e che Berlusconi non aveva saputo/voluto fare, per sostanziale incompetenza e disinteresse per la cosa pubblica.

Ora, a cento anni, ci muore Pietro Ingrao ed è come fosse davvero la fine della storia del comunismo italiano: era estinto da tempo, ma non ancora sigillato nella tomba. Come molti di noi, lo piango e piango Pietro Ingrao. Ma non andrò ai funerali, non alzerò il pugno, non canterò Bandiera rossa. Da un paio di decenni il comunismo non può essere altro che un silente stato interiore. Una categoria incomunicabile dell’anima, un rovello, un dubbio, una perdita. Ma il marxismo ci fornisce ancora la possibilità di mantenere una qualche lucidità di sguardo sul presente. Purché tutto ciò che pensiamo resti non-detto. «Noi siamo sconfitti», diceva Pietro. Niente è più vero di questa ammissione. Ma allo stesso tempo niente ormai può distoglierci dalla coltivazione interiore dell’idea socialista, nessuno può convincerci della superiorità di questo liberismo da stronzetti. Siamo novecenteschi vetero-ostinati, apparentemente convinti che non ci avranno, mentre siamo loro da molto tempo. Siamo sempre stati loro.

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