Print Friendly, PDF & Email
tysm

Anarchia e anarchia: Pier Paolo Pasolini

di Francesco Paolella

Nelle recenti e chiassose celebrazioni dell’Italia pasoliniana (ovviamente nonostante e contro Pasolini), nell’oceano di retoriche e memorie, di analisi critiche e sproloqui televisivi, è emersa come per miracolo questa raccolta di conversazioni fra Pasolini e Gideon Bachmann.

 

Contestazione totale

Durante tutti gli anni Sessanta e poi fino alla morte del poeta-regista, Bachmann trovò in Pasolini un uomo sempre più solo, scettico e pessimista, e più estremo nel suo tentativo di “contestazione totale”.

Pasolini visse fino allo spasimo (subendolo, ma anche “godendone”, per così dire, i frutti come voce dell’élite intellettuale) lo shock del neocapitalismo (cioè di un capitalismo in evoluzione frenetica «verso forme tecnocratiche e il cui linguaggio specifico è il linguaggio tecnologico», p. 82). Egli vide e soffrì la vittoria del potere laico e antispirituale della televisione e della massa consumistica, la violenza tollerante del perbenismo piccolo-borghese, riconobbe nella uguaglianza nevrotica e falsa del benessere e del superfluo una nuova, assoluta brutalità.

Giunse a un vero e proprio «odio razzistico» verso l’Italia di allora (p.100), individuando il suo nemico con la celebre formula della «anarchia del potere», che riuscì a portare sullo schermo con Salò.

Forse – e questo è uno dei punti più alti della riflessione pasoliniana – soltanto l’ideologia consumistica era riuscita, e in pochi anni, a coinvolgere realmente le classi dominate; soltanto al consumatore, infatti, sono richieste non solo sottomissione e rassegnazione, ma anche una forte dose di aggressività. Ma i rapporti di potere sono pur sempre gli stessi, solo che ora «il suddito, anziché essere risparmiatore e religioso, è consumatore imprevidente, irreligioso, laico» (p. 120).

 

Pasolini e il potere

In lui emergevano un pessimismo e uno scetticismo sempre più incombenti, che sottraevano la possibilità anche teorica di lotte e impegni. Restavano ormai sempre meno appigli allo sguardo di Pasolini, sempre meno possibili punti di resistenza: rispetto a soltanto pochi anni prima, era ormai crollata la stessa distinzione fra fascisti e antifascisti. La nuova ideologia dell’“impero irresistibile”, interiorizzata e “goduta” dalle nuove generazioni – e in particolare da quella dei sessantottini – accomunava davvero tutti inconsciamente e indistintamente.

«Nella loro mente essi si pensano diversi, è chiaro; ma poiché la loro scelta inconscia li accomuna, in pratica qual è la loro ideologia reale? Quella che hanno scelto o quella che vivono inconsciamente?» (p. 90).

La sinistra tradizionale italiana non avrebbe potuto (e non ci è neppure riuscita, come vediamo oggi) che proporre la via riformistica del welfare state, dell’addolcimento dello sviluppo. Pasolini sembra a un certo punto affidarsi di più alla chiesa, cioè alla chiesa di Giovanni XXIII, che avrebbe potuto prendere la via dell’opposizione, togliendosi dalla marginalità folkloristica in cui si era rinchiusa. L’opposizione (ipotetica) al nuovo potere consumistico non poteva infatti che essere anche religioso.

Che cosa restava a Pasolini? Nessuna velleità pedagogica. Tra le diverse generazioni non era possibile più alcuno scambio. Invece, per un lungo periodo Pasolini cercò con il cinema (con la Trilogia della vita) di ritornare al passato, il quale, solo, avrebbe potuto contestare il presente. E, soprattutto, scelse la via della testimonianza, pure in un certo senso anarchica, dell’artista. Solo nel fare artistico, infatti, rimaneva qualcosa di «non integrabile», un resto che poteva sfuggire alla logica matematica della cultura di massa.

Ritroviamo in queste pagine un Pasolini affamato, avido di cogliere gli scampoli di un mondo oramai apocalitticamente tramontato; un Pasolini sempre “di fretta”, come se nella fine del suo mondo, del mondo che aveva amato, anticipasse la sua stessa fine.

Add comment

Submit