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Lo Spazio dimenticato

di Sergio Bologna

Era il 2010, la giuria del premio speciale ‘Orizzonti’ del Festival di Venezia riconosce il valore del film The forgotten space. E’ un film sulla globalizzazione, su un’idea quindi, su un concetto. Non poteva essere un documentario. E’ un film-essay, un film-saggio, come Burch aveva teorizzato 40 prima. Critico cinematografico californiano, docente, legato fortemente al cinema francese e alla cultura cinematografica francese, Burch aveva lanciato questo prototipo mentale prima di radicalizzarsi nel ’68. Il documentario è troppo aderente alla realtà, non può pretendere di rappresentare un’idea. Il film-saggio invece deve essere discontinuo, opaco, ambivalente, deve utilizzare riprese dal vivo e materiali d’archivio, deve permettersi la divagazione, le contaminazioni, deve avere esso stesso un’idea, magari una tesi, non deve essere lineare o oggettivo come il documentario. Sul numero di maggio-giugno 2011 della “New Left Review” sono riprodotte le note che i due registi hanno scritto per il film. Tra le opere che gli hanno ispirato l’idea di film-saggio Burch include “Salvatore Giuliano” di Rosi.

Cosa c’è di meglio del mare e del commercio marittimo per capire cos’è la globalizzazione? Qui avviene l’incontro con Allan Sekula, artista poliforme, che ha esplorato il mondo dei pescatori e il mondo dei dockers, uno che sa guardare la globalizzazione attraverso la lente del lavoro. Il film inizia dai porti, da Rotterdam e mentre noi ci aspettiamo di vedere gru e cavi di ormeggio, reach stacker e pile di container, veniamo trascinati in scene di deportazione, villaggi olandesi rasi al suolo per fare posto all’espansione del porto, contadini espropriati delle loro terre. Subito dopo i registi ci spingono dentro uno spezzone di film degli Anni Trenta, una cabina d’aereo con uomini d’affari che osservano dal finestrino decine di navi in disarmo. E’ la grande crisi. La stessa che colpirà lo shipping nel 2009-2010, quando circa un decimo della flotta mondiale portacontainer è stato messo in disarmo.

Le infrastrutture marittimo-portuali sono un complesso invasivo, spietato con l’ambiente. “Le dighe hanno protetto gli uomini dalla furia del mare, ma chi li proteggerà dalla furia dell’economia del mare?”, dice il commento. La catena di trasporto marittima si prolunga sul territorio, ha bisogno di spazio, ma di spazio dedicato. I milioni di container che Rotterdam sbarca e imbarca ogni anno hanno origine e destinazione all’interno del continente. Per trasportarli è stata costruita una line ferroviaria dedicata, la Betuwe Line, malgrado l’opposizione delle popolazioni.

La globalizzazione non è mai stata un processo indolore. Ogni residuo di romanticismo è stato spazzato via. Si torna in porto, in un terminal, di notte. Finalmente vedremo i portuali! E invece vediamo un terminal ad automazione integrale, solo un vecchio gruista, lassù nella sua cabina a 40 metri di altezza, ci spiega che per un lavoro come il suo quattro ore di fila sono abbastanza, è meglio scendere e farsi dare il cambio prima di perdere la concentrazione e di fare dei disastri.

E’ persino superfluo aggiungere che in un film sulla globalizzazione il container è il protagonista assoluto. Questa semplice scatola di metallo ha trasformato la navigazione commerciale, imponendo uno standard che oggi detta le sue leggi alla costruzione navale, al lay out portuale, alla meccanica dei macchinari di movimentazione, alle procedure doganali, al trasporto merci ferroviario, alle professioni del terziario del trasporto. Alcune delle scene più belle del film sono quelle girate a bordo di una portacontainer coreana, dove finalmente si assiste alla quotidianità dei moderni equipaggi.

Los Angeles, il porto. Ed ancora una linea ferroviaria dedicata alle merci, dedicata al container, lo spettacolare Alameda Corridor, con treni lunghi chilometri che passano in mezzo ai paesaggi dov’eravamo abituati a vedere gli indiani dei western. Non siamo ancora in mezzo ai portuali, siamo in mezzo ai camionisti che fanno ore di attesa ai gates del porto, c’è uno scorcio di sindacato. Il film-saggio acquista un’accelerazione violenta quando passa a Hong Kong, entra nei colossali magazzini a spirale, nelle scuole per giovani marinai, negli anfratti del porto dove i container si spostano ancora con le funi e le giunche, tra gli immigrati indonesiani, nelle fabbriche di lavatrici, un incredibile miscuglio di alta tecnologia e di arte di arrangiarsi. Il tutto però confluisce, viene convogliato verso il mare, il tutto, prima o dopo, prende il largo, chiuso in quei scatoloni metallici. Prima di tornare ancora ai villaggi olandesi rasi al suolo per fare spazio alle banchine del porto, c’è un sorprendente intermezzo su Bilbao e il suo celebre Museo Guggenheim.

E’ stata una vera fortuna che gli autori abbiano scelto questo tema proprio in quegli anni, perché il periodo iniziato dopo la recessione del 2002 fino ad oggi è un periodo di trasformazioni di portata epocale nel mondo dello shipping. E’ il periodo del cosiddetto ‘superciclo’, 2002-2008, quando il commercio mondiale cresceva tre volte più del PIL, ciclo che s’infrange sul muro della crisi del 2008-2009, rialza miracolosamente la testa nel 2010, ma poi entra in una fase di declino che ogni giorno diventa più evidente, con i noli ai minimi storici. E’ il periodo del gigantismo navale, della finanziarizzazione dello shipping. E’ il periodo in cui la logistica piega alle sue procedure antiche consuetudini, anche quelle della navigazione commerciale, come fosse una ratio superiore che sottomette tutte le altre. Alcuni osservatori sostengono che la globalizzazione ha raggiunto il suo culmine ed è già iniziato il processo inverso, di re-shoring. Se la forza lavoro della supply chain globale, come dice l’ultimo rapporto dell’International Labour Organization, ha perso circa un decimo dei suoi occupati, qualcosa di vero c’è. Comunque sia, chi vorrà capire cosa è accaduto in questi ultimi vent’anni nell’economia mondiale non potrà trascurare The forgotten space.

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