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Gaspare De Caro: neorealismo e rimozione

Riccardo Ferrari

Il Neorealismo è stato un momento testimoniale di autoriflessione della società italiana che usciva dalle macerie del fascismo e della seconda guerra mondiale o un “marchio” identitario finalizzato a una rifondazione degli italiani sulla base di una complessiva rimozione? Gaspare De Caro, mancato a Roma il 6 ottobre 2015, nel suo ultimo libro Rifondare gli italiani? Il cinema del neorealismo ci ha lasciato in eredità questa domanda, insieme, ovviamente, a un’articolata e pessimistica risposta.

Storico del rinascimento e dell’età contemporanea, De Caro è stato uno dei protagonisti della stagione operaista (Toni Negri parla del suo contributo ai Quaderni Rossi come di “un’introduzione alla metodologia storiografica legata all’impegno politico” che ha fatto scuola per una generazione di intellettuali) con studi e interventi che hanno saputo attraversare con lucidità gli ultimi decenni della vita italiana, offrendo riflessioni circostanziate sulla società, il capitale, la composizione di classe, la cultura.

Nella sua “controstoria” De Caro ribadisce la continuità fra il neorealismo e la cinematografia italiana dei secondi anni ’30. L’esigenza di un cinema della testimonianza capace di illuminare la quotidianità delle condizioni sociali era stata preparata già durante il fascismo: il regime aveva un ventre culturale mobile, in grado di digerire e fare coesistere diverse istanze, come l’evasione dei telefoni bianchi, i non troppo convinti film di propaganda ideologica ma anche l’esigenza di rinnovamento elaborata in riviste come Cinema, diretta da Vittorio Mussolini, in cui intellettuali e registi prefiguravano un cinema che mettesse la macchina da presa nelle strade piuttosto che nei salotti della borghesia. Un primo tentativo di praticare quest’ultima istanza di realismo e una prima avvisaglia dell’incrinarsi del patto sociale fra regime fascista e cinema si ebbe nella cosiddetta “trilogia della rottura”, con tre film girati fra 1942 e 1943 (Quattro passi fra le nuvole di Blasetti, I bambini ci guardano di De Sica e Ossessione di Visconti) che corrodono da ottiche diverse un’istituzione fondamentale come la famiglia, aprendo squarci inediti su una società che stava ansiosamente immergendosi nella catastrofe. Queste premesse vengono sviluppate nei grandi film in presa diretta degli anni ’40 di Rossellini e De Sica, in cui assistiamo all’irruzione traumatica di un reale dove l’incanto si interrompe secondo il programma di Vittorio Sica (“vogliamo liberarci del peso dei nostri errori, guardarci in faccia e dirci la verità, scoprire quello che eravamo veramente”) che ci lascia con Ladri di biciclette l’immagine di una sconfitta senza appello, di interruzione del patto generazionale che vede il padre vergognarsi di quello che è diventato dinanzi al figlio.

Ma la poetica del pedinamento del reale viene immediatamente catturata da un discorso che lascia spazio a un’altra verità, sostanziata di “miti, amnesie” e “travisamenti assolutori e autoassolutori di ogni responsabilità passata”, in cui “l’intellighentia cinefila esorcizzò e addomesticò gli inferni evocati da De Sica e Rossellini, sbiadì il pessimismo radicale ignominiosamente ridotto a populismo e sentimentalismo”. Il neorealismo sarebbe dunque innanzitutto il discorso dei volgarizzatori e degli epigoni, dei registi, degli sceneggiatori, dei politici e dei teorici che hanno lavorato per una conciliante visione della memoria storica, aggiornando il proprio linguaggio cinematografico. “A Roma mica è successo gnente, tutto in piedi”, inizia emblematicamente il film di Mattoli La vita ricomincia del 1945, archetipo di un cinema impegnato nell’affabulazione smemorata e consolatoria. Di qui, la rassegna di De Caro si immerge in una cinematografia che ha per lo più eluso i temi del fascismo e della Resistenza, ogni evocazione di guerra civile, mentre nella descrizione della ricostruzione post-bellica i registri del grottesco e del melodrammatico hanno finito per normalizzare il disincanto degli innovatori. Sotto il sole di Roma di Castellani (1948) è un altro monumento alla deresponsabilizzazione della società e della cultura italiana: l’ambientazione è la stessa Roma popolare alla fine della guerra raccontata da De Sica e Rossellini, ma non è la stessa storia, gli sbandati adolescenti che si muovono nel film non sono toccati dalle bombe, dai rastrellamenti, dalle epurazioni e dopo lo sbandamento nella microcriminalità il giovane protagonista diventa guardia notturna e rientra nell’ordine assumendo il ruolo civico del padre.

Il fascismo rimase nella rappresentazione neorealista per lo più assente, sicuramente perché i soggetti erano ambientati nel presente e non nel passato prossimo, ma anche per la volontà politica di non parlarne: l’operazione culturale di rifondazione di un’identità collettiva aveva in fondo bisogno non di storiografi, ma di mitografi. Il motore di questa elaborazione mitologica nel nome dell’unità nazionale e della rifondazione degli italiani è per De Caro la naturalis oboedientia, una formula di Bottai sulla presunta natura passiva e conservatrice degli italiani, che nel discorso neorealista si è presentata come un’autocensura che ha limitato i possibili filmici con soluzioni in fondo innocue in nome del paradigma del fascismo subito più che prodotto dagli italiani. Un film in qualche modo più scomodo come Anni difficili (1948) di Luigi Zampa, fu invece criticato da destra e da sinistra come “apertamente diffamatorio di qualsiasi valore morale” perché aveva semplicemente raccontato una vicenda di trasformismo dall’apparato fascista a quello del nuovo stato democratico: era in fondo questo il nervo più scoperto dei nuovi poteri, la continuità delle risorse umane nella Pubblica Amministrazione negli anni della transizione di regime.

Ma al di là degli episodi di trasformismo degli stessi registi che passarono dalle commedie a basso voltaggio dei telefoni bianchi alla moda dei film della miseria negli anni ’40, è stato proprio “l’italo-marxismo” a esibire i miti della Ricostruzione al servizio dello stato, trasformando sostanzialmente la Resistenza in guerra patriottica, in secondo Risorgimento. È il caso di film finanziati direttamente dall’ANPI come Il sole sorge ancora (1946) per la regia di Aldo Vergano, di Caccia Tragica di Giuseppe De Santis (1947) finanziato dalla Lega delle Cooperative, ma anche, seppure con un’impostazione più problematica, di Achtung! Banditi di Carlo Lizzani (1951) prodotto dalla Cooperativa Spettatori e Produttori Cinematografici. In queste opere che hanno come autori e sceneggiatori i reduci dal proto-realismo della rivista Cinema, per De Caro il conflitto sociale viene eluso, il tema disertato: gli operai e i contadini non si scontrano con il capitalista o il latifondista, che rimangono sempre fuori campo, ma si armano al più contro i tedeschi per salvare patriotticamente la loro fabbrica, restituendo le classi subalterne alla loro storica subalternità.

Fare la storia con quello che non c’è stato ma avrebbe potuto e dovuto esserci rischia di diventare un esercizio retorico e alla fine della lettura il quadro risulta piuttosto apocalittico, non completamente nuovo, a volte ingeneroso e unilaterale, ma in qualcosa di importante colpisce nel segno. Il neorealismo è stato, insieme a molte altre cose, un episodio, tutt’altro che marginale, di quella che De Caro chiama “un’allucinazione collettiva”, una lettura mitografica della storia e una manipolazione della memoria nel segno dell’irresponsabilità (il fascismo, le guerre coloniali, le persecuzioni razziali e la Shoah di cui neanche Rossellini in Germania anno zero è riuscito a parlare). L’insorgenza anti-istituzionale di Ladri di Biciclette e di Paisà si è spenta in quello che poi è stato chiamato neorealismo, anche se questo ragionamento risulta paradossale e si potrebbe forse ribaltare: non sono forse questi (insieme a pochi altri) i film che rimangono di quegli anni, che riescono ancora a entrare nella nostra attualità, mentre tutto il resto lentamente si dimentica? Forse dunque questo esorcismo non è completamente riuscito ma mentre veniva eseguito ha contribuito a modellare l’immagine che un popolo aveva di se stesso.

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