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nazione indiana

Pensieri sui fatti del mondo

di Antonio Sparzani

Provo un senso di vero fastidio – tanto che spengo la tv dopo venti secondi del discorso con cui il piatto ma volonteroso Massimo Giannini dà inizio a Ballarò – a vedere e a sentire il modo in cui i nostri mezzi di informazione si occupano di fatti di cronaca, che, mentre da un lato vengono ingigantiti fino ad invadere tutta l’informazione, paradossalmente dall’altro hanno significati e rilevanze che vanno ben al di là di quello che si vuol far credere.

La ricerca ossessiva dei media, anche dei giornali a grande tiratura on line, è quella di farci vedere le immagini vere, i filmati delle telecamere di sicurezza, le urla della gente spaventata, i lamenti e i pianti di chi giustamente si lamenta e piange, ma che forse preferirebbe farlo da solo. Interi telegiornali vengono dedicati alla riproduzione il più “realistica” possibile dei fatti di sangue, meglio se visibile, di cui si deve pur dar conto.

Se invece riuscissimo a pensare un po’ più “in grande” agli avvenimenti che in questa fase storica sconvolgono alcune nazioni sì e altre no, magari potremmo cominciare un’analisi realistica, questa sì, delle cause passate e presenti, che sono cominciate tempo fa e che continuano imperterrite a dar luogo a fatti che tutti consideriamo gravi, in quanto comportano la perdita di numerose vite, per lo più innocenti.

L’analisi realistica, di cui naturalmente non sono certo io capace, potrebbe però almeno fare degli elenchi di fatti, sempre passati e presenti, che rendono assolutamente ovvi, quasi necessari, questi sviluppi. Due anni e mezzo fa, qui ricordavo la frase trionfale con cui il presidente degli Stati Uniti celebrava l’uccisione di Osama Bin Laden, in territorio straniero e senza alcun mandato internazionale: «The cause of securing our country is not complete but tonight we are once again reminded that America can do whatever we set our mind to.»

Possiamo realisticamente pensare che un mondo nel quale uno stato parla con questi toni e questi contenuti sia un mondo stabile? Questa ed altre, sono solo domande retoriche che hanno l’unico fine di riportare alla coscienza, che facilmente dimentica, un contesto internazionale che comprende l’esistenza di un piccolissimo numero di stati che si sono arrogati il diritto di stati poliziotti del mondo, sia per la loro intrinseca volontà di potenza, sia per far dimenticare prima di tutto ai propri cittadini le brutture di casa propria.

Altri fatti interessanti in proposito sono quelli che riguardano lo sfruttamento indiscriminato delle risorse presenti nel cosiddetto terzo mondo. Spesso si sente dire, o invocare, che invece di ospitare tanti migranti occorre “aiutarli a casa loro”: il che naturalmente sarebbe un’azione bellissima, se qualcuno si occupasse anche minimamente di praticarla; ma questo non comincia neppure ad accadere.

E poi, di che cosa stiamo parlando? Quale immagine offriamo della “civiltà occidentale”? Non siamo neppure in grado di offrire ai nostri giovani una prospettiva, prospettiva, intendo, fatta sì di speranze di un futuro lavoro ma anche di un quadro di valori condivisi nel quale essi riescano a pensare se stessi e il proprio percorso di vita in modo non deludente. E i giovani che arrivano da fuori, da aree del mondo in cui la parola pace non si sa bene cosa possa significare, e che tuttavia hanno, come tutti, questo bisogno di un ubi consistam culturale? Ci rendiamo conto di cosa voglia dire esattamente credere in un ideale fino a dare la propria vita per esso? Eppure i ragazzi – e le ragazze – kamikaze sono proprio tanti e continuano seguire il proprio tragico percorso; noi possiamo certamente pensare che si tratti di un percorso distorto, di un percorso al quale sono stati avviati e convinti con l’inganno e con il raggiro psicologico, servendosi di interpretazioni insensate dei loro libri sacri, sì, possiamo legittimamente pensarlo, ma dobbiamo riflettere sul fatto che noi invece offriamo un quadro generale che porta la maggioranza delle persone a comportamenti individuali sempre meno collettivi e sempre più egoisti e cinici. E questo, inutile tacerlo, è uno dei frutti più avvelenati del capitalismo selvaggio nel quale sempre più profondamente, a dispetto di tutti gli apparenti palliativi, siamo immersi.

Siamo un paese, anzi, siamo un’Europa in cui non c’è un partito autenticamente di sinistra con qualche possibilità concreta di influire sulla vita pubblica e paghiamo sempre più caro questo fatto, e lo pagano altrettanto caro i partiti di destra, o centro-destra come qualche volta eufemisticamente si dice, con le loro divisioni interne e la loro incapacità strutturale di una politica di lungo termine.

A chi mi fa spesso previsioni oscure e apocalittiche sul futuro dell’umanità io rispondo col mio inguaribile ottimismo che il male fa schiamazzo mentre il bene è silenzioso, nel senso che certamente la stragrande maggioranza dell’umanità è fatta di persone desiderose di pace e capaci di “operare il bene” in silenzio, ognuno nel proprio contesto. Ma non so se questo sia sufficiente.

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