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blackblog

Al posto del lavoro precario, nessun lavoro

di  Karl-Heinz Lewed

Non era assolutamente così che gli ideologhi della moderna società dei servizi ci avevano dipinto il futuro: stress sul lavoro senza la sicurezza dell'impiego, quasi-schiavitù nelle microimprese che operano nelle nicchie economiche, lavori temporanei con la mediazione di dubbie agenzie di collocamento, bassi salari per gli impiegati dei servizi, auto-imprenditoria e responsabilità personale come strumento di coercizione per poter controllare e dirigere le masse lavoratrici. La New Economy ha appena finito di collassare ed ecco che già appare chiaro come flessibilità, personalizzazione e delocalizzazione non erano delle promesse ma piuttosto delle minacce, e che non significavano nient'altro per la più parte delle persone se non delle condizioni di lavoro precario e la povertà.

Tuttavia, i lavoratori del mercato dei servizi e della miseria non sono i soli ad essere colpiti dall'abbassamento drastico dei criteri sociali. Come tutti sanno, questa tendenza si estende poco a poco su tutto l'insieme della società nelle metropoli occidentali (Quanto alla periferia, a chi importa più?). D'ora in poi, deregolamentazione, bassi salari e precarizzazione dominano ampiamente determinate categorie di occupazione: servizi di pulizia, ristorazione, impiego domestico o cura delle persone anziane. Ed il fatto che questi settori impieghino spesso dei migranti nelle condizioni più deplorevoli, senza alcuna garanzia legale e a volte anche senza contratto, non ha niente di casuale.

Contro queste condizioni inaccettabili di vita e di lavoro, cresce la contestazione. L'incontro intitolato "i costi si ribellano", che si è tenuto nel giugno 2004 a Dortmund, ne è un esempio che aveva come ambizione quella di fare in modo che "diversi gruppi politici" si incontrassero al fine di discutere insieme le "questioni controverse" e costruire a partire da questo degli "approcci strategici". Nonostante, o forse a causa della necessità di una resistenza concreta ed immediata è sembrato più pertinente, da un punto di vista assai più teorico che pratico, definire il quadro della contestazione e identificare chiaramente il "nemico". La coscienza di classe della sinistra, il cui orizzonte mentale persiste nel considerare la precarizzazione come conseguenza del "rapporto conflittuale fra le classi" (cfr. www.laburnet.de), ha un bel po' di difficoltà a comprendere in maniera adeguata il problema dell'occupazione precaria per mezzo delle categorie positivizzate e non-teorizzate del lavoro. In realtà la precarizzazione rimanda ad una mutazione socio-economica fondamentale, dove non sono solamente alcune condizioni di lavoro a divenire precarie, ma il lavoro in quanto tale. Il processo di crisi che mina le basi della valorizzazione capitalista si accompagna ad un costante aggravio dell'esclusione e della disintegrazione sociale.

Fra le altre manifestazioni di questa crisi, a causa del formidabile sviluppo delle forze produttive a partire dagli anni 1970, la domanda di forza lavoro produttrice di valore nei grandi settori dell'industria è diminuita in maniera costante. Allo stesso tempo, diventa sempre più chiaro che il settore terziario non riuscirà mai a fornire le prospettive di impiego sperate. Il mondo miserabile dei servizi moderni è, al contrario, una sfera subalterna, che vive solo grazie al fatto che il numero di lavoratori redditizi (in termine di valore) decresce massicciamente, e che, di conseguenza, lungi da portare ad un nuovo modello di accumulazione capitalista, ha come funzione soprattutto quella di offrire uno specchietto per le allodole a quelli che vedono il proprio livello di vita affondare nella precarietà. In tale ottica quanto meno disinvolta per quanto riguarda il materiale umano non valorizzabile, e attraverso lo slogan "fatevene carico", i lavoratori superflui sono invitati a cercar rimedio alla loro miseria nei settori cruciali di attività "altamente performanti" quali il lavoro di babysitter, i lavori domestici, perfino - perché no? - il lustrascarpe. Per i più poveri sono possibili aiuti statali, ma naturalmente a condizione che siano disposti a lavorare sempre.

Parallelamente al formarsi nella metropoli di questo settore di servizi precari, la questione della migrazione rimanda ad un altro livello di disintegrazione del sistema del lavoro astratto. L'espansione del capitalismo a tutto l'insieme della periferia non si è mai tradotta in una logistica volta alla ripartizione della forza lavoro. Quanto ai progetti di "modernizzazione di recupero" avviati dagli Stati, raramente sono andati oltre un livello relativamente modesto. A partire dagli anni 1970, nella misura in cui i paesi del Terzo Mondo si lanciavano sempre più in una concorrenza generalizzata in seno al mercato mondiale, la situazione si è aggravata. Ed oggi, in vasti sub-continenti come l'Africa sub-sahariana, la creazione di valore globale è diventata virtualmente impossibile. Questa esclusione della maggior parte della popolazione mondiale costituisce la principale causa dei movimenti migratori. 

Ora, per i migranti, l'accoglienza nella metropoli è ormai completamente cambiata. Dopo la fine dell'espansione fordista degli anni 1950-1960, caratterizzata da un insaziabile appetito di forza lavoro e dall'aumento delle migrazioni internazionali dei lavoratori verso le regioni metropolitane, hanno visto la luce severe politiche che confermano l'esclusione. Nel migliore dei casi, un sottile strato di lavoratori specializzati nell'alta tecnologia si vedrà ancora autorizzato a tappare qualche buco nei settori di punta della produzione di valore. Per tutti gli altri sono state attuate, dopo gli anni 1970, ma più in particolare a partire dagli anni 1990, e non solo in Europa e negli USA, delle leggi sempre più restrittive sull'immigrazione, che rendono le migrazioni di fatto illegali. E pertanto se dei migranti riescono ad attraversare comunque le frontiere, generalmente non hanno altra scelta se non quella di lavorare in quei settori che sono proprio il prodotto del processo di crisi: le fragili nicchie economiche della società dei servizi. Si può perciò parlar di diversi gradi di esclusione per i migranti che passano dalle regioni lasciate fuori a causa dell'economia mondiale alla precarietà delle condizioni di lavoro deregolamentato della metropoli. Logicamente, questa scala di esclusione generalmente si associa a quei veri e propri pilasti della logica escludente sotto il capitalismo che sono il sessismo ed il razzismo. Dal momento che se, nella società capitalista, determinati compiti - soprattutto i lavori domestici - sono sempre stati screditati e quindi assegnati alle donne o ai non-bianchi, il processo di precarizzazione ha esacerbato questa logica. L'esclusione è quindi duplice: colui o colei che cade economicamente fuori dal lavoro che produce valore, cade anche sotto i colpi degli schemi sessisti e razzisti. Il dispiegarsi oggettivo dell'esclusione economica si accompagna ad una logica di discriminazione sessuale e razziale.

Proprio nella misura in cui questo processo deriva direttamente dal fatto che le basi della valorizzazione capitalista sono diventate poco a poco obsolete, ogni movimento di contestazione che si dovesse allineare alla strategia della sinistra che reclama la reintegrazione degli esclusi nel sistema del lavoro (e del diritto) rimarrebbe vano e ridicolo. Se vuole segnare dei punti, la critica delle folli pretese capitaliste deve al contrario situare le sue prospettive su un piano diverso da quello della forma merce. Dal momento che in realtà la contraddizione centrale del capitalismo è che se da un lato esso moltiplica le possibilità di creare ricchezza, lo fa per escludere simultaneamente sempre più persone dalla condivisione di tale ricchezza. Nel quadro del sistema del lavoro, la tendenza alla riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione di merci non significa nient'altro che una diminuzione costante del numero di coloro che hanno accesso a tali merci. Di conseguenza, la partecipazione di tutti alla ricchezza sociale in un'ottica emancipatrice non è possibile  che a condizione di farla finita con il lavoro e con il denaro. Le risorse materiali devono essere oggetto di un'appropriazione diretta, e la creazione della ricchezza dev'essere affrancata dal diktat della forma valore.

L'opposto di condizioni di lavoro precare e deregolamentate, non è condizioni di lavoro regolare, ma nessun lavoro.

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(inizialmente pubblicato su Jungle World n° 28 del 30/6/2004, con il titolo "Lieber faul als prekär" ("piuttosto pigro che precario") e che ha visto cambiato in maniera arbitraria sia il titolo che alcuni passaggi, di modo che è stato alterato tutto il senso del testo. Questa è la traduzione della versione originale apparsa su Krisis)
fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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