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thewalking 

I nuovi poveri d’inizio XXI secolo: i giovani

di Maurizio Sgroi

Un paio di notizie tratte dal cronicario della nostra attualità dovrebbero servire a farci comprendere chi stia pagando il disperato tentativo dell’economia internazionale di tornare su un percorso sostenibile di crescita. Notizie che, guardacaso, arrivano proprio dai paesi dove questa sedicente ripresa sembra assai meglio indirizzata rispetto a quella anemica dell’eurozona o a quella dei paesi emergenti, che anzi spaventano.

Le due storie sono infatti riferite agli Stati Uniti e al Regno Unito. La prima racconta dell’esplosione dei debiti studenteschi dei giovani americani, che ormai superano abbondantemente il trilione di dollari e si connotano per un tasso di delinquency, ossia di ritardo nei pagamenti, che avrebbe fatto arrossire i vecchi mutuatari subprime. La seconda racconta di come sia aumentato drammaticamente il numero dei giovani inglesi che è tornato a vivere con i genitori, vuoi perché i redditi dei più giovani sono cresciuti assai meno degli altri, vuoi perché i prezzi delle abitazioni sono divenuti semplicemente inaccessibili.

Nel dettaglio, la situazione dei giovani statunitensi mostra un debito per prestiti studenteschi in notevole aumento dal 2008 in poi che ormai pesa circa il 10% del totale dei debiti privati delle famiglie americane, per un ammontare che supera 1,2 trilioni di dollari. L’11,5% di questa montagna di debito era in ritardo di oltre 90 giorni, connotandosi come la categoria di prestiti a delinquency più elevata. Non è difficile capire perché: mentre è molto facile fare debiti, è molto difficile ripagarli se al termine degli studi si trovano lavori poco remumerativi o non se ne trovano affatto. Osservando la decomposizione del tasso di disoccupazione americano, arrivato al 4,9% a gennaio 2016, infatti, si nota che sono proprio i giovani dai 16 ai 24 anni quelli che esibiscono i tassi più elevati, arrivando fino a oltre il triplo dei tassi ufficiali.

La storia dei giovani inglesi è altrettanto edificante. Prima della crisi del 2008 solo un giovane su cinque fra i 20 e i 34 anni viveva in casa dei genitori, mentre adesso sono uno su quattro, il numero più alto dal 1996, da dove parte la serie storica rilasciata dall’istituto britannico di statistica. A fronte di questa tendenza, si osservano alcune peculiarità. La percentuale di giovani proprietari di casa fra i 25 e i 29 anni è diminuita, sempre dal 1996 al 2015, dal 55% al 30%, e quella dei giovani fra i 30 e i 34 dal 68& al 46%. La conseguenza è che oltre il 90% dei 20-24enni che riescono a vivere da soli paga un affitto, il che li espone a tutta la fragilità di chi sia sprovvisto di una minima forma di patrimonio reale.

Se guardiamo ai redditi, scopriamo che a fronte di una media che indica in 4,5 il numero di anni di reddito necessari per acquistare un’abitazione, per i giovani dai 22 ai 29 anni, gli anni di stipendio necessari sono 11, il che è una diretta conseguenza del fatto che nel 2013 i redditi reali, quindi aggiustai per l’inflazione, dei ventenni erano il 12% più bassi di quelli del 2009. E questo succede nella fascia d’età dove si concentra la disoccupazione.

Queste storie raccontate insieme, pure al netto delle inevitabili differenze fra i due paesi, fotografano con chiarezza una tendenza evidente: le generazioni più giovani stanno sopportando buona parte dello sforzo di riequilibrio dell’economia. Le società stanno replicando, chissà quanto coscientemente, il pensiero antico che in fondo non c’è nulla di male a far pagare ai più giovani il conto, perché, si dice, sono giovani e si faranno. Il che sarebbe pure accettabile se fosse vero. In un’epoca che discute di stagnazione secolare, sembra difficile impedire che l’effetto di trascinamento di una situazione economica svantaggiata possa sanarsi nel corso del tempo grazie al miracolo della crescita. Il rischio reale che questi giovani stanno affrontando è di arrivare all’età adulta e trovarsi anziani senza avere maturato né un reddito dignitoso né tantomeno una pensione. Posponendo il redde rationem le economie cosiddette avanzate stanno semplicemente creando le premesse per trovarsi un domani una pletora di anziani bisognosi di tutto.

Se guardiamo al caso italiano notiamo che a gennaio 2016 il tasso di disoccupazione dei 15-24enni era salito ancora al 39,3%, lo 0,7% in più del mese precedente, a fronte di un dato nazionale aggregato dell’11,5%. Quindi, al netto delle differenza di classificazione con gli Usa (che considerano la coorte 16-24 anni), anche da noi si replica il copione che vede la disoccupazione giovanile triplicare e oltre il tasso di disoccupazione nazionale. Ciò a fronte di una situazione di reddito e patrimonio assai diseguale dove l’età gioca un ruolo assai importante. La tabelle su reddito equivalente e sulla ricchezza netta, elaborate da Bankitalia, evidenziano che entrambe le voci sono crollate per i più giovani e migliorate per i più vecchi. Anche da noi, quindi, la reazione della società alla crisi è stata quella di tutelare le fasce di popolazioni più adulte a discapito di quelle più giovani. Non stupisce perciò che i nostri giovani vivano in gran numero ancora a casa con i genitori, e assai più degli inglesi, visto che sono più di due su tre.

La narrazione della statistica tace sulle conseguenze implicite che porta con sé. Impoverire i più giovani, che sono la parte più dinamica della popolazione, ha conseguenze evidente sulla domanda aggregata e potenziale. Un giovane ha una propensione al consumo di sicuro più elastica al reddito rispetto a un anziano, e se ha buone prospettive è probabile si faccia una famiglia e quindi contribuisca di più alla crescita nazionale. In tal senso spostare potere d’acquisto dalle coorti più anziane a quelle più giovani sarebbe una scelta ragionevole per una società che ha problemi di crescita. Al contrario si favorisce un modello redistributivo laterale nel quale magari il giovane vive grazie ai soldi che gli regala il nonno nella prospettiva magari di un’eredità. Tutto il contrario di un’economia sana.

Sorprendentemente, tutto ciò non genera alcuna forma di reazione. La domanda di cambiamento, che proprio dai più giovani dovrebbe partire, non arriva neanche ad essere formulata in maniera organica, con la conseguenza che il dibattito sulla condizione giovanile non esula dalla retorica dei “giovani svantaggiati” o dei “cervelli all’estero”, nel caso italiano.

Finirà che ci accorgeremo di loro quando saranno ormai vecchi e dovranno essere accuditi, ma non si capisce da chi, visto che praticamente non si fanno più figli. Nel frattempo i giovani che dovrebbero farli rischiano di essere estinti.

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