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scenari

Turchia, lo spettro del genocidio

Giovanni Tomasin

«Stanno collaborando con la Russia come fecero le bande armene». L’accusa, considerata infamante in bocca a un politico turco, è stata lanciata dal primo ministro Ahmet Davutoğlu alla formazione filo-curda dell’Hdp, il Partito democratico dei popoli che l’anno scorso ha riportato una rappresentanza di sinistra nel parlamento di Ankara. Il discorso del membro del governo si è tenuto nella provincia orientale di Bingol a fine febbraio, racconta il sito d’informazione Al-Monitor.

La frase citata in apertura è cruenta. Offende gli armeni, ribadendo il negazionismo turco nei confronti del Metz Yeghern, il genocidio del 1915. È una minaccia rivolta ai curdi, cui si lascia intendere a cosa vanno incontro qualora insistessero nella loro battaglia per una repubblica democratica e federale. L’impatto è tanto più forte perché a dirla è il secondo esponente più importante dell’Akp, il partito di governo, l’uomo che nel decennio scorso deliziava le diplomazie europee con la svolta da lui impressa alla politica estera turca, esemplificata dal motto «zero problemi con i vicini».

Di acqua sotto i ponti ne è passata un po’, oggi Ankara è ai ferri corti pressoché con tutti i suoi vicini e ha avviato una sanguinosa guerra civile nella parte orientale del paese. Il ministro che propagandava un ruolo di pacifica influenza per la Turchia nell’area ora lancia poco velate minacce genocidiarie a parte dei suoi concittadini.

Cos’è cambiato nel frattempo? Capirlo consente di fare i conti per davvero con un interlocutore cui l’Europa e gli Usa continuano a concedere credito, affidandosi a lui, volenti o nolenti, per la gestione di una crisi umanitaria di proporzioni storiche. Recep Tayyip Erdoğan.

Al potere senza soluzione di continuità dal 2004, i primi anni di governo dell’Akp (Partito di giustizia e sviluppo) di Erdogan furono segnati da una forte discontinuità nella politica storica della Repubblica turca. Il partito propugnava una linea islamica moderata, improntata a valori molto diversi dal nazionalismo laico dettati dal fondatore della patria, Atatürk, che fino a quel momento avevano segnato la vita del paese. In politica estera l’Akp adottò una dottrina che gli osservatori esterni etichettavano come neo-ottomanesimo sebbene il suo autore, il già citato Davutoğlu, rigettasse il termine per questione di sensibilità nei confronti dei vicini arabi. La definizione rende l’idea: la Turchia dell’Akp si proponeva come un possibile modello per i paesi arabi circostanti. Uscendo dal roccioso isolamento autoimposto all’epoca dei governi nazionalisti, ventilava l’obiettivo di raggiungere un’influenza “leggera” sul mondo arabo e mediterraneo, richiamando i tempi in cui la Sublime Porta era il faro politico e culturale di un’immensa e cosmopolita area geografica. Al contempo si allentava il legame di ferro stretto con Israele nei decenni precedenti in un’ottica atlantista.

Sul fronte interno la nuova linea comportò una spietata lotta per il controllo dei gangli del potere contro la classe dirigente precedente. Ciò portò al confronto fra l’Akp e il sistema di potere dei militari, indicati da Mustafa Kemal come guardiani della Repubblica. Una clausola che l’esercito non aveva esitato a sfruttare in diversi, sanguinosi, colpi di stato nel corso del Novecento. La battaglia è durata diversi anni e si è svolta a suon di tribunali, arresti, veri o presunti tentativi di golpe. Dai media e dai governi europei, simpatizzanti storici dei nazionalisti laici, il processo fu visto come una prima erosione della democrazia turca: in realtà fu più che altro una sostituzione di classi dirigenti al vertice di un sistema da sempre portato alle derive autoritarie. In quegli stessi anni i curdi vedevano concessi per la prima volta alcuni diritti nell’ambito dell’insegnamento e dell’uso della lingua: in onore alla fratellanza islamica l’Akp conferiva dei riconoscimenti alla minoranza fino allora oppressa dai nazionalisti. Così il partito di Erdoğan si assicurava un appoggio nella parte orientale del paese che soltanto gli eventi più recenti sono riusciti in parte a scalfire.

Al contempo il governo avviava storici negoziati con il leader del Pkk, Abdullah Öcalan, rinchiuso in un’isola-carcere nel mezzo del mar di Marmara dai tempi della sua confusa fuga in Italia. Le lunghissime trattative hanno consentito un progressivo allentarsi delle tensioni nella parte orientale del paese, portando a un cessate il fuoco introdotto nel 2013 e interrotto nel 2015 con esiti tragici.

In quegli anni l’Akp attirava gli strali dell’Occidente per una progressiva “islamizzazione” del paese pur ricevendo il plauso per i successi in campo economico e diplomatico. Questa fase non si comprende appieno se si tralascia una figura ambigua eppure fondamentale nel panorama politico turco contemporaneo: Fethullah Gülen. Mistico, predicatore, pensatore politico di proporzioni mondiali all’interno del mondo islamico, Gülen è stato a lungo l’eminenza grigia dell’Akp. Le scelte del governo rispecchiavano piuttosto fedelmente le sue idee di una rinascita islamica tollerante e democratica. Ma anche ferocemente anticomunista e ipercapitalista. Per anni il partito di Erdoğan ha goduto del sostegno dell’organizzazione di Gülen, Hizmet, e del suo radicato sistema di potere (non ultimo il quotidiano Zaman, protagonista suo malgrado di recenti fatti di cronaca)

Autoesiliatosi in seguito a problemi legali con il precedente sistema di potere, dal 1999 Gülen vive in Pennsylvania. Sorge spontaneo pensare che Erdoğan abbia potuto portare a compimento la defenestrazione dei militari, da decenni cani da guardia di Washington nell’area, grazie a un tacito appoggio guadagnatogli proprio da Gülen oltreoceano.

Per quanto già segnata da scandali per corruzione e tratti autoritari, la Turchia dell’Akp di cui stiamo parlando era alquanto diversa dall’attore aggressivo che vediamo muoversi oggigiorno sullo scacchiere mediorientale. Cos’è cambiato nel frattempo? Diversi fatti negli ultimi cinque anni hanno contribuito a scardinare la linea precedente.

Il primo è la nascita di un’opposizione a sinistra: il movimento di piazza Taksim, che i media europei raccontarono come una risposta all’islamismo dell’Akp, nacque soprattutto come forma di resistenza alle sue politiche neoliberiste e alla speculazione edilizia. A questo seguì il rafforzarsi dell’Hdp, il vecchio partito curdo che è riuscito ad estendere i suoi consensi grazie a una proposta politica post-nazionale e all’acuirsi delle tensioni nell’oriente turco.

Un altro fattore è l’esplodere delle Primavere arabe. La dirigenza dell’Akp ha visto nelle sollevazioni popolari l’occasione propizia per coronare il sogno dell’egemonia mediterranea, ma una serie di scommesse andate male (in Egitto) o sempre più azzardate (in Siria), hanno portato Ankara a una deriva pericolosa. In Siria l’appoggio a movimenti islamisti e i rapporti quantomeno ambigui con Isis si contrappongono all’aperta ostilità nei confronti del Pyd, braccio siriano del Pkk. È in questo contesto che si è evoluto il sabotaggio da parte di Ankara del processo di pace con il movimento curdo e la situazione di guerra civile avviata da Erdoğan l’anno scorso, dopo una serie di attentati.

Contemporaneamente il presidente turco ha tagliato il cordone ombelicale che lo legava oltreoceano, rompendo i suoi rapporti con Gülen: l’anziano pensatore è stato condannato in contumacia da un tribunale turco per tentato colpo di stato, e l’ultimo capitolo della guerra dell’Akp ai suoi seguaci è stata la recente irruzione nei locali del quotidiano Zaman.

L’insieme di questi fattori ha portato l’Akp ad abbandonare molte delle peculiarità della sua politica, per abbracciare i cavalli di battaglia del nazionalismo kemalista del Novecento: autoritarismo spiccato, militarismo, oppressione feroce delle minoranze. A differenza dei kemalisti, però, a queste caratteristiche la politica erdoganiana affianca un tratto islamista sempre più marcato.

Torniamo così al tema dell’Armenia. Attorno alla fine del decennio scorso i vertici del governo armeno consideravano gli islamisti moderati di Akp come un interlocutore molto più ragionevole dei vecchi nazionalisti, eredi dei genocidiari Giovani Turchi. Oggi il partito di Erdoğan ha fatta propria la feroce retorica antiarmena, utilizzandola sia contro l’Armenia stessa che contro l’altro popolo che storicamente conviveva con gli armeni in quella che oggi è la Turchia orientale, i curdi. Nel negare il genocidio la posizione ufficiale della Turchia ha sempre incastrato gli armeni in quello che l’antropologo Gregory Bateson definiva un double bind, doppio vincolo: sminuire a parole quell’avvenimento storico, degradandolo a uno «spostamento» di popolazioni accusate di collaborare con il nemico, era un modo implicito per riaffermarne la violenza assoluta. Una posizione che sempre Bateson avrebbe detto schizofrenogena (non si risentano gli psichiatri) e che in effetti continua a segnare in modo pesantissimo l’immaginario tanto degli armeni quanto dei turchi. Non è difficile afferrare il retromessaggio nel momento in cui le alte sfere del governo turco applicano il parallelismo alla resistenza curda. Confermando il nesso ineliminabile tra nazionalismo e sterminio.

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