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gliocchidellaguerra

Panama Papers: ottimi hacker

di Fulvio Scaglione

Vogliamo dirlo? I Panama Papers sono un ottimo esempio di hackeraggio e un pessimo esempio di giornalismo. Fanno impallidire Edward Snowden, che pure nel 2013 rivelò al mondo la rete globale di spionaggio degli Usa, e Julian Assange con i suoi WikiLeaks del 2010. Ma fanno arrossire chiunque provi a fare questo mestiere seriamente. Al di là di aver convinto qualcuno a trafugare i dati (e sarebbe interessante sapere quanto sia costato), di investigativo c’è abbastanza poco.

La ragione per pensarlo sono molte e semplici. Come tutti ormai sanno, i Panama Papers sono 11 milioni e mezzo di file che coprono 38 anni di attività (1977-2015) della Mossack Fonseca, una società con sede a Panama City (660 dipendenti, filiali in 42 Paesi) la cui principale vocazione è mettere al riparo in adeguati paradisi fiscali i risparmi di personaggi danarosi.

Detto questo, ecco alcune di quelle ragioni.

La prima e meno rilevante, ma non ininfluente, è che avere conti off shore non è reato se il titolare è in regola con le leggi fiscali del proprio Paese. Questo viene in effetti detto ma tra le righe, in caratteri minuscoli, come i codicilli delle assicurazioni. Il lettore inesperto è portato a credere che un conto off shore sia un crimine in sé.

Secondo: i finanziatori dell’Investigative Consortium of Investigative Journalism che ha pubblicato i Panama Papers sono di varia estrazione. Si va dalla Open Society di George Soros (Usa, gran finanziatore della campagna elettorale di Hillary Clinton) al Sigrid  Rausing Trust (Gran Bretagna, un budget per il 2016 di 30 milioni di euro), dalla Adessium Foundation (Olanda, fondata nel 2005) al miliardario australiano Graeme Wood (noto per aver fatto, nel 2010, la più ingente donazione nella storia d’Australia: 1,6 milioni di dollari ai Verdi). Ora, sarà un caso ma in questi Panama Papers non figura alcun americano o australiano o olandese. Per la Gran Bretagna c’è solo il padre, ormai morto, del premier Cameron. Chiederci di credere che nessun riccone americano o australiano abbia mai provato a usufruire dei servizi di una società off shore è davvero un po’ troppo.

Terzo: tutta l’informazione raccolta con l’hackeraggio è presentata in modo tendenzioso, per non dire fazioso. La home page del sito che presenta i documenti (https://panamapapers.icij.org) è costruita in modo che l’attenzione sia attratta dall’immagine di un uomo portato a braccia da due soccorritori in una città distrutta. Siamo in Siria e sul tema c’è anche un video molto drammatico. In sostanza, il sito ci dice che nei file sottratti a Mossack Fonseca ci sono tracce delle attività di una serie di 33 compagnie che sarebbero sulla lista delle società finite sulla lista nera per rapporti con organizzazioni terroristiche.

L’unica compagnia identificata con nome e ragioni sociali, però, è la Pangates, società specializzata in petrolio e carburanti con sede negli Emirati Arabi Uniti. La Pangates avrebbe fornito carburante speciale per i caccia dell’aviazione del Governo siriano. Carburante che, dice il sito, è servito ad Assad per uccidere migliaia di civili. Ovviamente Isis, Al Nusra e altri soggetti qui non sono menzionati, nemmeno in ipotesi. Poi però salta fuori che la Pangates è parte dell’Abdulkarim Group, che è un’azienda siriana. Un’azienda siriana che procura carburante all’aviazione del proprio Paese. Potrà non farci piacere ma non è così strano. L’attenzione, semmai, dovrebbe essere puntata sulle autorità degli Emirati Arabi Uniti, Paese fedele alleato degli Ua ma a quanto pare renitente a seguirne le indicazioni.

Quarto: con un’abile operazione, tutto il peso delle rivelazioni è caricato su Vladimir Putin, il babau dell’Occidente, il bersaglio preferito dell’Open Society di Soros, che l’ha più volte definito un pericolo maggiore dell’Isis. Tra i tanti personaggi di spicco, Putin è l’unico che non può essere tirato in ballo personalmente. Però si sostiene che i suoi amici hanno portato una somma enorme nei paradisi fiscali (ripetiamo: non è detto che sia reato) e che lui “non poteva non sapere”.

È difficile non pensare che in questo caso, accanto al marketing, ci sia anche la direttiva politica. Per carità, nessuno è nato ieri: se i suoi amici si sono arricchiti, il potere e l’influenza di Putin avranno pur giocato la loro parte. Ma vogliamo fare il giochino del “non poteva non sapere” con gli altri grossi nomi? Re Salman dell’Arabia Saudita: in quel Paese fanno tutto i servizi segreti Usa, volete che non sapessero? Il presidente ucraino Poroshenko? Il ministro delle Finanze dell’Ucraina è un’americana che, prima di prendere alla svelta il passaporto e la poltrona, ha lavorato al Dipartimento di Stato e all’ambasciata Usa di Kiev. Potevano gli Usa non sapere di Poroshenko, una loro creatura? E così via, passando per la famiglia Cameron, per quella dell’autocrate Ilham Aliev dell’Azerbaigian e quella del premier del Pakistan Nawaz Sharif, tutti Paesi rigorosamente alleati degli Usa.

Insomma, è come si diceva: complimenti per il furto di dati ma non tiriamo in ballo il giornalismo investigativo.

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