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I nuovi schiavi, i nostri consumi e nuove filiere da costruire

di Lorenzo Guadagnucci

“Ghetto Italia” (Fandango, 15 euri) è uno di quei libri che non piacciono ai signori giornalisti. Il motivo è presto detto: si tratta di un reportage d’inchiesta – una buona inchiesta – ma gli autori non sono giornalisti. Dev’essere per questo che il libro è uscito qualche mese fa senza stimolare l’attenzione che merita. Uno dei due autori, Leonardo Palmisano, si definisce “etnografo e scrittore”, nonché docente di Sociologia all’Università di Bari; l’altro, Yvan Sagnet, è un ex studente-lavoratore, ora laureato in Ingegneria e sindacalista della Cgil dopo una pionieristica lotta dei raccoglitori di pomodori in Puglia (a Nardò).

“Ghetto Italia” racconta il caporalato nel Sud ma anche nel Centro e perfino nel Nord Italia. Descrive in presa diretta la non-vita dei braccianti nel Salento e in Calabria; in Basilicata e lungo la costa Domiziana fino alle prestigiose colline dell’Astigiano. E’ un reportage sul neo- schiavismo oggi in Italia. La parola è data agli schiavi, che si fidano di Leo e Yvan e ci confidano, e poi passano indirizzi e nomi e numeri di telefono di altri schiavi, in altri luoghi.

Vivono in case diroccate adattate alla meglio, ma senza i servizi fondamentali; devono pagare per qualsivoglia servizio: il trasporto da “casa” ai campi; la doccia settimanale; il cibo; la ricarica elettrica del cellulare. Pagano, ovviamente, al circuito dei caporali, che è strutturato su più strati: i più vicini a chi lavora sono in genere ex schiavi, quindi stranieri, ma in cima alla gerarchia si trovano in genere italiani.

Si vive e si lavora in condizioni spaventose, cioè insane e fuori da ogni regola, con tempi di lavoro che non scendono sotto le dieci ore quotidiane e paghe che gridano vendetta: massimo 4-500 euro al mese. I testimoni accettano di parlare perché si fidano, ma gli incontri avvengono lontano dai campi di lavoro e da occhi indiscreti.

I braccianti sono sottratti a ogni vita di relazione, assoggettati, per ogni esigenza vitale, ai loro caporali. Fra gli sfruttati ci sono a volte anche italiani, che però guadagnano un po’ di più, grazie a un “tariffario etnico” che penalizza gli ultimi arrivati (ad esempio i bulgari) e le persone di pelle nera.

Le pagine più dolorose sono quelle dedicate alle piazze di Castellaneta e altre località pugliesi all’alba di una qualsiasi mattina d’estate: decine, centinaia di persone che vengono assoldate per due lire, caricate sui pulminio e portate nei campi. Sono dolorose in quanto ci riportano a un passato che credevamo superato. Evocano l’epoca eroica del sindacalismo alla Di Vittorio, ma oggi è peggio, perché i nuovi schiavi non hanno legami sociali che li uniscano, non vivono stabilmente in quei luoghi. Organizzarli è difficile, quasi impossibile. Sagnet, a Nardò, ci riuscì, ma poco è cambiato da allora.

“Ghetto Italia” è un testo drammatico perché dice una cosa semplice e atroce e cioè che il neoschiavismo nelle campagne italiane è parte integrante della filiera agricola: non può essere che così, a questi prezzi, con questo sistema di distribuzione e di commercio. I maggiori responsabili non sono dunque i caporali o le reti malavitose che spesso (ma non sempre) si celano dietro di loro, bensì i “padroni” del mercato, cioè chi è nella condizione di fissare i prezzi dei prodotti alimentari. Prezzi precipitati a valori così bassi, almeno per alcuni importanti prodotti,  da non essere sostenibili, se non attraverso – appunto – l’impiego massiccio di manodopera schiavizzata.

 “Ghetto Italia” descrive la rinascita di nuove forme di latifondo: i terreni vengono acquistati da imprenditori agricoli e resi redditizi grazie al neoschiavismo, ma compaiono sulla scena anche soggetti come Mitsubishi, che in Puglia ha anche un centro di trasformazione e commercializza quantità enormi di pomarola.

Ci vorrebbe un nuova inchiesta per mettere a fuoco l’intera filiera – il ruolo di vecchi e nuovi imprenditori agricoli, degli intermediari, delle grandi catene di commercio al dettaglio – ma quanto già sappiamo basta a rendere evidente che buona parte dei prodotti agricoli consumati in Italia hanno una storia sociale di violenza e sfruttamento. Bisognerebbe dissentire, non essere complici, manifestare, attraverso le scelte di consumo, la propria avversione a questo infernale sistema.
Volendo, si può. Ci sono cooperative e piccole imprese che combattono il lavoro sottopagato: sopravvivono grazie alle vendite dirette, ai gruppi d’acquisto solidale. Servirebbe molto di più. In altri tempi, si organizzavano filiere commerciali parallele a quelle ufficiali. Le prime cooperative di consumo, un secolo e rotti anni fa, nacquero grosso modo così: per sostenere il lavoro buono, contenere i prezzi, sottrarsi ai vincoli e alle angherie del mercato. Ci vorrebbe un movimento cooperativo nuovo di zecca, che magari facesse tesoro dell’esperienza accumulata dal commercio equo e solidale. Sarebbe una prima risposta.

Intanto, nei supermercati le arance, i pomodori, gli agrumi (per non dire di certi vini piemontesi) vengono venduti come se nulla fosse, come se i prezzi così economici fossero tali per la benevolenza di chissà chi. Intanto, al momento di fare la spesa, continuiamo a fare finta di niente. Intanto, lo schiavismo è fra noi e solo pochissimi fanno davvero qualcosa.

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