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Spacchettare i referendum: una proposta stupida!

di Aldo Giannuli

Nello schieramento ostile alla riforma costituzionale Renzi-Boschi, si sta facendo strada la proposta di “spacchettare” il referendum in cinque o sei quesiti “omogenei”, dato che la riforma tocca vari punti della Costituzione. Si tratta di una proposta stupida, incostituzionale, e di un errore politico grossolano. Dell’incostituzionalità diremo a parte, in altro articolo, qui ci occupiamo degli aspetti politici.

In primo luogo, occorre capire che qui non si tratta di fare un esame di diritto costituzionale, ma di un referendum, dove la gente (non tutti sono fini giuristi) si orienta per grandi linee, sulla base del cuore politico della questione e non di sottili argomentazioni tecniche. Pertanto, spacchettare i referendum fa perdere di vista il “focus” politico del problema, disperdendo la discussione su cento aspetti singoli: la gente ci manderebbe a far benedire prima di iniziare a discutere. E farebbe bene.

Il centro del problema è il progetto di democrazia autoritaria che Renzi ha in mente e di cui questa “riforma” non è il punto di arrivo ma solo il primo passo. Ve l’immaginate una campagna a base di “qui si vota Si”, “qui si vota No”, “qui fate voi”? Quando lo hanno fatto i radicali con i loro referendum a mazzi, il risultato è stato una catastrofe: possibile che non abbiamo ancora imparato? E se poi è tutto No, perché non dirlo una sola volta per tutto? Intendiamoci: nella riforma ci sono aspetti condivisibili (l’abolizione del Cnel, il rafforzamento del potere di proposta legislativa popolare, il referendum propositivo ecc.) così come non mancano non pochi difetti tecnici che mal raccordano singole disposizioni costituzionali, ma questi sono aspetti del tutto secondari che, in ogni caso, sarebbe possibile riprendere in un secondo momento. Qui il fulcro della questione è il rafforzamento abnorme dei poteri dell’esecutivo e, di conseguenza, del partito di maggioranza per l’effetto combinato di Italicum e riforma costituzionale.  La legge elettorale garantisce al vincitore (al primo turno se abbia superato il 40% dei voti, altrimenti al secondo turno) 340 seggi, anche se, magari, al primo turno ha preso solo il 24% dei voti.

Vediamo che signfica sugli equilibri istituzionali: nell’ordinamento uscente il collegio elettorale per eleggere il Presidente della Repubblica oscillava intorno ai 1.000  (630 Camera 320 Senato più i senatori a vita e 58 delegati regionali) e la maggioranza necessaria era di circa 505 voti, per cui, se il partito di maggioranza aveva 340 seggi alla Camera, doveva trovare 165 voti fra i circa 370 rimanenti gradi elettori, quindi circa il 45%). Nell’ordinamento attuale, per eleggere il Presidente della Repubblica la soglia necessaria dal quarto scrutinio è 394 voti, per cui, al partito di maggioranza basta raccogliere 54 voti fra i 100 senatori ed i 58 delegati regionali (cioè meno del 33% del totale), per avere automaticamente i voti necessari ad eleggersi da solo il Capo dello Stato. Dunque, anche nell’improbabilissimo caso che il partito di maggioranza non riesca a raggranellare i 54 voti necessari (magari per la presenza di franchi tiratori), basterebbe l’alleanza con qualche piccolissima formazione a superare la soglia. Dunque, il Presidente diverrebbe espressione diretta e non mediata del partito di maggioranza. E questo significherebbe anche aggiudicarsi i 5 giudici costituzionali di nomina presidenziale che, sommati ai 2 su 3 espressi dalla Camera  ed almeno 1 dei 2 spettanti al Senato, fa uno schieramento precostituito di 8 su 15 della Corte, cioè la maggioranza assoluta. Le stesse dinamiche si ripeterebbero poi per il Csm.

Punto ancor più delicato è quello della revisione costituzionale. In nessun paese retto con sistema elettorale maggioritario la revisione costituzionale è affidata al Parlamento ordinario o solo ad esso: in alcune costituzioni c’è il sindacato determinante del Capo dello Stato, in altre c’è il referendum popolare preventivo per aprire la fase di revisione e magari l’elezione di una Assemblea Costituente, in altre è il Senato eletto su base federale ad avere un potere di veto eccetera. Noi, dopo il referendum-colpo di stato del 1993, siamo l’unico paese in cui un Parlamento eletto con il maggioritario ha mano libera sulla Costituzione, salvo l’eventuale referendum di ratifica. Ed, infatti, di lì è iniziata la fase di decostituzionalizzazione del nostro ordinamento. Tuttavia, un limite relativo alla deriva costituzionale è stato rappresentato dal bicameralismo che rendeva la procedura più macchinosa. Ma questo era garantito da un Senato che aveva lo stesso peso politico della Camera, essendo di investitura popolare. Qui, invece, abbiamo un Senato a composizione indiretta, quindi di per sé meno rilevante politicamente, al di là delle sue attribuzioni formali. Per di più esso è espresso da consigli regionali eletti con metodo maggioritario. Dunque, c’è un primo filtro che abbatte le forze minori premiando le maggiori, poi da queste emerge la rappresentanza senatoriale, in proporzione alla consistenza dei propri gruppi, ma su un numero di seggi molto piccolo da attribuire, il che fa salire molto in alto l’asticella per avere un eletto.

Facciamo due conti: c’è una forza politica che prende il 15% su base nazionale, ma, per effetto del sistema elettorale maggioritario, ottiene circa il 9-10% dei seggi; i senatori da eleggere sono 95% distribuiti fra 20 regioni, quindi solo in pochi casi i senatori da eleggere saranno più di 5 e, pertanto, solo in quelle poche regioni (realisticamente Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia, Lazio, Campania e Sicilia) avrà qualche speranza di ottenere 1 rappresentante, quindi 4 o 5 al massimo, cioè circa il 5%, cioè un terzo della sua forza elettorale.

Dunque una sorta di maggioritario al quadrato, che rafforza i maggiori e rende meno probabili maggioranze risicate; nel caso probabile che la maggioranza senatoriale sia omogenea a quella della Camera (e che Renzi immagina e spera di colore Pd), la strada alla revisione sarebbe spianata come l’autostrada del Sole. Nel caso di maggioranze differenti fra i due rami, sarebbe sempre possibile  premere sul Senato, camera di serie B e non rappresentativa.

Questa che stiamo votando, ricordiamolo bene, non è la riforma costituzionale, ma la spallata che aprirà la porta alla vera riforma-riscrittura della Costituzione. Insomma qui stiamo passando dal maggioritario al totalitario. L’unico modo di affrontare questo referendum si riassume in tre parole: NO AL REGIME. Il resto sono fesserie.

Ma da dove viene questa idea geniale dello spacchettamento?  Lo chiarisce Bresani in una sua recentissima dichiarazione:voterò si ma non un si cosmico che si contrapponga ad un no cosmico”. Ed ha aggiunto che il referendum non deve essere un voto sul governo. Cioè “ho votato in Parlamento la riforma costituzionale, pur dicendomi contrario, ora la voto nel referendum, però voglio votare un paio di No tanto per salvarmi la coscienza”. Insomma, quella cosa inutile che è la “sinistra” Pd  vuole continuare a tenere un piede dentro ed uno fuori del Pd, nella speranza che, alla fine, Renzi gli regali un po’ di seggi per i servizi resi. E, siccome in un referendum solo, dove devi dire Si o No e basta, rischiano di essere buttati fuori dal partito se non si allineano, ma non vogliono nemmeno un trionfo di Renzi, si illudono di affogare tutto in un mazzo di referendum nella speranza di vincerne un paio e dire che Renzi non ha vinto del tutto. Puerile! Un gioco ambiguo ed inconcludente che ha l’unico effetto di indebolire la battaglia per il no, ridotta ad una discussione da salotto.

La cosa peggiore è che a questo squallido giochetto da vecchi politicanti rammolliti e giuristi di palazzo sembra abbiano abboccato anche quelli del M5s che, peraltro, non pare avvertano neppure il bisogno di consultare la rete. Come si sente la mancanza di Roberto Casaleggio!

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