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E se la Clinton non fosse meglio di Trump?

di Carlo Formenti

La gara presidenziale americana assume contorni sempre più definiti: da un lato Trump, che ha sbaragliato i contendenti, malgrado l’apparato Repubblicano abbia speso fino all’ultima goccia di energia (e di milioni, inutilmente bruciati in tambureggianti campagne negative contro il magnate populista) per sbarrargli la strada, dall’altro lato la Clinton che prevarrà quasi certamente su un Bernie Sanders assai più amato dalla base Democratica e dagli indipendenti, ma impossibilitato a sfuggire alla trappola di dispositivi e regole elettorali appositamente studiati per imporre la volontà dei vertici del partito (e delle lobby che lo foraggiano).

Questa contesa si prospetta come uno scontro fra un outsider sempre più isolato e una grande coalizione fra Democratici “istituzionali”, Repubblicani decisi a espellere il corpo estraneo che si è insinuato nelle loro fila, Democratici di sinistra e indipendenti rassegnati a votare la Clinton come il minore dei mali (scelta che lo stesso Sanders, salvo sorprese, finirà per appoggiare). Ma gli eventi imboccheranno davvero una via così semplice e lineare? E soprattutto: siamo sicuri che l’ascesa al potere di un nuovo membro della dinastia Clinton sarebbe il minore dei mali?

Per tentare una risposta, partiamo dagli argomenti con cui la stampa americana (ma anche quasi tutta la stampa occidentale, schierata contro il pericolo populista) spiega ai lettori che una vittoria di Trump “sarebbe un disastro sia per i Repubblicani che per l’America”. A finire sotto accusa sono in primo luogo le idee razziste, sessiste e omofobe di Trump? Ebbene no. Benché questi temi siano ovviamente ricorrenti, l’attenzione si focalizza con più decisione su economia e politica estera.

Nell’appena citato articolo dell’Economist, per esempio, il “disastro” paventato consiste nel fatto che Trump: 1) per difendere gli interessi dei colletti blu massacrati dal processo di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, promette di stoppare gli accordi internazionali di libero scambio e costringere le multinazionali a tornare e a investire in patria, sotto minaccia di pesanti sanzioni; 2) propone di reintrodurre dazi a protezione dell’economia nazionale; 3) promette di imporre regole più stringenti a Wall Street, per impedire che si ripetano i disastri del 2008 e che i cittadini siano chiamati a pagarne i danni al posto delle banche che li hanno provocati; 4) parla di ridurre l’impegno militare degli Stati Uniti all’estero, arrivando addirittura a prospettare lo smantellamento della NATO, considerata un anacronismo dopo il crollo del Muro.

Demagogia elettorale per captare la simpatia degli strati sociali penalizzati dalle politiche neoliberiste? Probabile, ma per le destre economiche il solo evocare temi di questo genere suona come una mossa temeraria, in quanto rischia di alimentare le crescenti perplessità dell’opinione pubblica sull’infame accordo transatlantico TTIP, che minaccia di peggiorare le condizioni di lavoro e di vita di milioni di cittadini americani ed europei (per i dettagli, leggere il libro di Ferrero, Mazzoni e Di Sisto “TTIP. L’accordo di libero scambio transatlantico. Quando lo conosci lo eviti”, DeriveApprodi).

Una eventualità che non terrorizza solo l’Economist, ma anche il nostro Corriere della Sera, il quale, onde tamponare i danni dei recenti leaks che hanno rivelato certi poco simpatici aspetti (finora tenuti rigorosamente segreti) degli accordi, chiama ogni giorno a raccolta i suoi falchi liberisti (vedere Daniele Manca sul Corriere di sabato 7 maggio) ai quali chiede di sfoderare la più fulgida faccia di bronzo per sostenere che le nostre “paure” su ambiente, diritti del lavoro, standard qualitativi dei prodotti, ecc. sono immotivate, mentre sarebbe meglio guardare ai “vantaggi” (per chi?!).

Ma Trump ne ha fatta una ancora più grossa: preso atto che, secondo proiezioni ufficiali, gli interessi da sborsare sul debito federale ammonteranno a 500 miliardi di dollari nel 2020, costringendo a dolorose riduzioni delle altre voci di bilancio, ha prospettato la possibilità di tagliare il debito, costringendo i creditori a ricevere meno di quanto hanno investito. Di fronte a questa uscita, che sembrerebbe venire da un esponente della sinistra anti debito, il New York Times tuona: così si mina la stabilità dei mercati finanziari globali, la giusta soluzione del problema consiste nel tagliare la spesa pubblica e aumentare le entrate.

Vi ricorda qualcosa? Queste uscite di Trump, sincere o meno, non evocano discorsi che sinistre radicali e populisti fanno da tempo? Non a caso, si tratta di alcuni dei temi che lo stesso Sanders, (la cui autobiografia politica sarà in libreria a fine mese per i tipi di Jaca Book), sia pure da tutt’altro punto di vista, affronta nel suo programma populista di sinistra. Insomma: attaccando Trump si attacca indirettamente Sanders, che è bersaglio assai meno facile, perché non associa alle sue idee anti establishment esternazioni politicamente scorrette. Ma veniamo al dubbio sollevato in apertura: su quale base la sinistra dovrebbe convergere con Democratici di destra e Repubblicani per sostenere la Clinton?

La questione cruciale è se l’imprevista affermazione di Sanders nelle primarie (comunque vada, arriverà a un’incollatura dall’avversaria) indurrà o meno la Clinton a spostarsi a sinistra.

Come accenni in tal senso sono state interpretate le perplessità che la senatrice ha espresso nei confronti del TTIP, oltre alle assicurazioni di volersi seriamente impegnare nell’introdurre controlli più stringenti sull’operato di Wall Street. Il fatto è che sono assicurazioni assai poco credibili, ove si consideri che, alla pari del marito, ha sempre goduto del sostegno esplicito e generoso della grande finanza globale (la quale sa di poter contare sul fatto che verrà adeguatamente ricompensata). Un appoggio che non è venuto a mancare nella campagna elettorale in corso, e che verrà ora ulteriormente rafforzato attraverso il dirottamento dei fondi elettorali Repubblicani, decisi a loro volta a battere Trump.

Infine non va dimenticato che, per ottenere l’appoggio bipartisan dell’elettorato democratico e repubblicano, è presumibile che, una volta assicuratasi ufficialmente la nomination, la Clinton sarà indotta a stemperare le aperture demagogiche a sinistra, per non inimicarsi le opinioni pro business. Tutto questo dando per scontato che i fan di Sanders finiranno necessariamente per appoggiarla a loro volta.

Ma perché dovrebbero? Perché il suo pedigree “politicamente corretto” dovrebbe contare di più della sua compromissione con i falchi della finanza e del Pentagono (le posizioni della Clinton in politica estera prevedono notoriamente l’esportazione della “democrazia” manu militari)? Non è forse vero che sotto tutti gli aspetti - ad eccezione dei diritti civili e dell’atteggiamento nei confronti dei migranti - le sue idee sono più di destra di quelle di Trump? Non siamo di fronte a due mali fra i quali è difficile stabilire quale sia il peggiore?

È probabile che buona parte dei sostenitori del senatore del Vermont (compreso lo stesso Sanders) finiscano per appoggiarla per un riflesso condizionato, più che per convinzione (o almeno per contrastare il razzismo anti migranti). Ma è altrettanto probabile che molti altri decidano di non votare per nessuno dei due o, addirittura, optino per Trump.

Personalmente, se fossi cittadino americano sceglierei di astenermi, ma non mi sento di condannare chi sceglierà Trump, soprattutto se si tratta dei lavoratori che scontano il prezzo di decenni di politiche clintoniane. Credo però che la cosa più importante sia capire che ne sarà delle energie politiche e sociali che hanno sostenuto Sanders. Il New York Times mette in luce che non si tratta solo di fan, ma di gruppi organizzati che vogliono dare vita a un nuovo progetto politico. Se terranno duro, si può sperare che creino le condizioni per mandare a casa, nel 2020, il candidato che vincerà queste elezioni e che sarà, comunque, un pessimo presidente, come tutti quelli che lo hanno preceduto negli ultimi decenni.

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