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Perché i filosofi?

Il dicibile di Giorgio Agamben

Paolo B. Vernaglione

Se l’affare della filosofia è la trasformazione incessante del proemio in epilogo, l’inizio e la fine di Che cos’è la filosofia? di Giorgio Agamben (Quodlibet, 2016) indicano il compito che all’autore è stato assegnato: dire come nell’epoca della barbarie la capacità di espressione si sia logorata, e mostrare come una politica della filosofia abbia da arrestare l’insensato flusso della vacua comunicazione, restituendo parola al linguaggio.

Il gesto di Giorgio Agamben, che ha elaborato nel corso degli anni un cristallino metodo archeologico, è qui l’indicazione proemiale al possibile del linguaggio. L’archeologia filosofica infatti, esposta in Signatura rerum, ci impegna, da Michel Foucault a Enzo Melandri nella ricerca infinita del nesso di teoria e pratica, risalendo alla soglia di separazione di logica e ontologia, linguaggio ed essere, al di qua della scissione a partire dalla quale si è costituita la storia della metafisica.

In amicizia dunque cerchiamo di sottrarci all’imposizione del logos, all’ordine della prescrizione, volgendoci in direzione del luogo di indistinzione di cosa e parola, ove il compimento replica l’inizio. È la matrice dell’amicizia senza amici, perspicua nel detto attribuito ad Aristotele Amici, non ci sono amici! che evoca la dismissione delle false amicizie e ricorda la situazione di felice e rischioso isolamento del dire il vero. Il linguaggio, come pensato da Agamben in Infanzia e storia e come già era nel seminario del 1979-’80 raccolto ne Il linguaggio e la morte, presuppone un non-linguistico apprezzabile solo nel linguaggio. A questa aporìa costitutiva si sono urtati di volta in volta, scrittori, poeti e linguisti, in ultimo Saussure, Wittgenstein e Benveniste, senza venirne a capo. Platone ha nominato il nesso di logos e ousia, la relazione originaria che dà luogo alla distinzione del nome e del discorso (logos).

Aristotele ha invece interpretato la separazione di semiotico e semantico in un’analitica degli elementi che distingue parole, lettere, concetti e cose. Questa interpretazione presiede ipoteticamente, all’antropogenesi: rende possibile il sapere ma conduce all’impossibilità di parlare. Il linguaggio infatti si toglie ogni volta che si proferisce parola. In Duns Scoto, esso è ens debilissimus; questa peraltro è la sua potenza: rimane impercepito nel non detto; del dissolversi rimane traccia nell’io, che dice la lingua nell’imputazione dell’atto di parola.

Così la storia del pensiero svolge l’a-priori storico insito nella linguistica: l’indoeuropeo, è divenuta la lingua assoluta che consente l’intesa e la traduzione. Ora, questa articolazione subisce con i grammatici antichi una torsione verso la voce scrivibile; i suoni articolati sono identificati alle lettere dell’alfabeto, che differenziano la voce umana da quella degli animali. Si rifarebbe però l’errore in cui è incorso Derrida nell’attribuire il primato alla scrittura, se non si notasse che questo experimentum linguae ha situato il logos nella voce.

È possibile allora pensare la relazione tra voce e linguaggio altrimenti che attraverso le lettere? Questa ipotesi emerge in una posizione liminare eppure strategica, nella chora, enunciata da Platone nel Timeo. Puro aver luogo, Terzo genere dell’essere, né sensibile, né intellegibile – ma matrice, ricettacolo, Madre, porta-impronta che offre un luogo alle forme sensibili, la chora è località non spaziale che abbandonando ogni mitologia fondativa è un in-scrivibile.

Come ha evidenziato Emiliano De Vito in un recente, prezioso saggio, L’immagine occidentale, una storia delle interpretazioni della chora rende nota l’indistinzione come matrice del nesso estetico di sensibile e intellegibile. Questo terzo originario è stato ridotto al dicibile (lectòn) identificato con la logica. Il saggio centrale, Sul dicibile e l’idea, dimostra invece che il dicibile è la cosa stessa della Lettera VII di Platone. Si tratta della digressione che già Foucault aveva indicato come l’esposizione di una teoria della conoscenza in funzione dell’esercizio filosofico. Il sapere degli enti si articola in cinque gradi di una scala: il nome, la definizione (logos), l’immagine (eidolon), la scienza e infine la conoscenza più alta, la cosa stessa, l’idea (il cerchio stesso nell’esempio platonico).

Come idea, il dicibile non è né nella mente, né nelle cose sensibili, né nel pensiero né nell’oggetto, ma tra essi. L’idea è para-digma delle cose, ciò che si mostra accanto a esse. L’idea di cerchio «non è un indicibile, né qualcosa di meramente linguistico: è il cerchio ripreso nel e dal suo-esser-detto-cerchio». Idee e cose sensibili sono omonime; le cose ricevono i nomi dalla partecipazione alle idee. E nella dicibilità pura è in questione l’apertura dell’anima, una «luce schizzata da una fiamma», che si coglie con un ragionamento bastardo come commenterà Plotino. Affezione, impronta del senza forma, materia priva di ente, l’aver luogo di ciascun corpo non è la res extensa di Cartesio, ma lo spazio che appare «quando si tolgono l’uno dopo l’altro gli elementi semantici del discorso verso una dimensione puramente semiotica della lingua».

Di questa marca si trova traccia nella controversia di Amalrico di Bène sull’affermazione paolina «Dio è tutto in tutte le cose» e nel frammento di Davide di Dinant sull’identità di Dio-mente-materia. Questo e non altro è l’oggetto del pensiero. È il fuoriessere della teoria degli oggetti inesistenti di Alexius Meinong, che ci conduce agli altri scritti di questo libro-intarsio: Sul concetto di esigenza, Sullo scrivere proemi e La musica suprema. Musica e politica.

Cos’è infatti un’esigenza se non la possibilità del possibile? Il futuro nel presente, che lo libera dalla necessità e rende reale la possibilità.
Così nella tradizione ebraica «il messianico si presenta come un altro mondo che esige di esistere in questo mondo… come la sua distorsione parodica». Esso è beatitudine di coloro più lontani da una realizzazione fattuale: i puri, i poveri di spirito, i miti, i piangenti (nel fate come non paolino), i perseguitati, i profughi, beati qui e ora, non in un al di là procrastinabile all’infinito.

L’esigenza è il sonno dell’atto, la dormizione della vita, che a volte in sogno detta le condizioni di possibilità della lingua, che è musica, esperienza della Musa. In Grecia le Muse esprimono l’articolazione originaria della parola, musica che è, per natura, impossibilità di dire. Il poeta perviene a far propria una parola che non gli appartiene. Le cicale nel Fedro: il canto esprimeva questo folle piacere, al punto che gli uomini smettevano di nutrirsi e morivano senza accorgersene. Musica e politica erano dunque espressioni inseparate, sì che ne La Repubblica non si possono cambiare i modi musicali senza cambiare le leggi fondamentali della città; e, aggiungiamo, nella Lettera V ogni Costituzione ha una propria voce, che distingue monarchia, aristocrazia e democrazia. Ma il principio musaico è anche la soglia sbarrata della finitudine. Il compito della filosofia in quanto musica consiste allora nello scavalco delle Muse in direzione della loro madre, Mnemosine, per liberare l’uomo dal destino.

La filosofia, manìa affidata alla cura di Eros, affetta l’anima ed è reminiscenza del bello vero. La manìa filosofica attinge al luogo del principio musaico. Poichè la politica è opera del destino divino in singoli uomini, è generata da questa manìa. Se dunque la politica è musicalmente condizionata, la musicalità di un’epoca ne segna il destino politico. Oggi il nesso musaico gira a vuoto, la politica è annuncio stonato e vacua vocalità. Tanto più allora «il compito politico è… un compito poetico, rispetto al quale è necessario che artisti e filosofi uniscano le loro forze». E se la ricerca che ha a cuore la verità ha carattere proemiale, ciò che Foucault aveva chiamato il reale della filosofia, il suo compito, consisterà nell’interrompere il flusso insensato delle frasi e dei suoni – per restituire il pensiero al suo luogo musaico.

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