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Perchè Di Maio non diventerà primo ministro

di Leonardo Mazzei

A proposito del poco onorevole peregrinare del deputato napoletano e dell'idea che i poteri forti puntino sulla carta M5S

Di Maio ci crede, quelli che lo ricevono assai meno. Il suo lungo peregrinare - prima nelle capitali europee, poi a Tel Aviv, ed infine negli Usa - non è solo penoso, è anche inutile.

Come ci informa La Stampa, l'autorevole membro del direttorio pentastellato sarà questa settimana a Parigi e Berlino, dove incontrerà alcuni rappresentanti dei rispettivi governi. A far fede della sua scelta eurista ci ha già pensato con il viaggio a Londra per dire no alla Brexit. Ma l'Europa non basta. Per accreditarsi come candidato premier ci vuole la capitale dell'impero. Dunque, via negli Usa a settembre, preceduto dalla benedizione sionista da ricevere a fine giugno dal governo israeliano.

In questo girovagare, Di Maio non ha trascurato i nostrani potentati (leggi QUI e QUI), incontrando a pranzo i membri italiani della Trilateral, i vertici di alcune delle maggiori aziende nazionali, il direttore del Corsera Fontana, nonché il dottor Mario Monti, il più amato dagli italiani...

Da questo tourbillon di incontri molti hanno dedotto che i poteri forti puntino ormai su M5S. Con la conseguenza di vedere proiettato il precisino deputato napoletano verso Palazzo Chigi. A mio giudizio si tratta di due errori.

In primo luogo il fatto che i poteri interni ed esteri si premurino di incontrare, sondare, blandire, influenzare l'esponente più in vista di quello che è stato il primo partito alle ultime elezioni politiche rientra nella più assoluta normalità. Anomala è semmai l'acquiescenza mostrata da M5S verso questa pratica. Dov'è qui l'alterità del movimento anticasta? Dov'è finita la sua lotta ai centri del potere extra-istituzionale? E a proposito di anomalie: chi ha scelto Di Maio come candidato premier? Di certo non un congresso, che M5S non ha nel suo "statuto", ma neppure la mitica rete. Che questa sia buona per scegliere i consiglieri comunali del borgo più sperduto, ma non le candidature che contano davvero?

In realtà Di Maio è stato designato - nel totale silenzio dei pentastellati che contano - dal sistema mediatico. E chi controlli quest'ultimo è cosa fin troppo nota. Dunque, i poteri forti (definizione insoddisfacente, ma comprensibile a tutti) hanno scelto Di Maio come candidato. Ma questo significa che lo vogliano come primo ministro? Non penso proprio. Tralasciando qui l'ipotesi che lo abbiamo scelto proprio per la sua inconsistenza, in modo da favorire il Pd e le altre forze sistemiche, resta il fatto che M5S non è Di Maio, ed un governo a guida dei cinque stelle sarebbe comunque uno scossone troppo forte per il blocco dominante.

Certo, lorsignori sanno che si avvicina un'inquieta stagione politica e si preparano a vari scenari. Ma il loro piano A punta sul consolidamento (via referendum) del governo Renzi. Se invece il fiorentino dovesse perdere ad ottobre, il piano B sarebbe quello di una qualche riedizione delle "larghe intese". Con quale modello, adatto alla particolare configurazione del sistema politico italiano, ancora non lo possiamo sapere. Molto dipenderà dal destino dell'Italicum, dalla nuova legge elettorale che verrebbe fuori dalla vittoria del no ad ottobre, dal consolidarsi o meno dei processi di scomposizione in quello che fu il centrodestra berlusconiano. Troppe variabili per azzardare una previsione. Ma se prevedere i dettagli non è possibile, l'importante è comprendere quali sono i piani dei centri del potere oligarchico. Piani che puntano ad escludere M5S dal governo, non a mandarlo al potere per quanto possano averne "addomesticato" i vertici nel frattempo.

Chiarito in cosa consista il primo errore - le oligarchie vogliono condizionare ed ammansire M5S, ma non spingerlo verso il governo - restano da esaminare le possibilità di vittoria elettorale del movimento fondato da Grillo. A questo punto del ragionamento, se fossimo tra coloro che pensano che al governo si possa andare solo via Bruxelles-Londra-Washington-Tel Aviv, il discorso sarebbe chiuso. Ma così non è. Non perché i suddetti centri di potere oggi contino meno, ma perché nell'attuale fase di sfacelo del sistema politico è ben difficile che tutte le ciambelle riescano col buco.

E qui viene la parte più dolorosa del discorso. Dolorosa, perché chi scrive ritiene che - nonostante Di Maio - M5S rimanga in ogni caso non una semplice componente, bensì la componente principale del fronte ampio che dovrà portare alla liberazione democratica e popolare del paese nel prossimo futuro.

E' in questa prospettiva che il miraggio di Palazzo Chigi è un errore potenzialmente catastrofico.

Qual è infatti il non detto del ragionamento che sorregge il miraggio di cui sopra? Poiché il no a qualsiasi alleanza resta ad oggi un dogma inviolabile, è chiaro che l'unica possibilità di accedere al governo risiede in un sistema elettorale iper-maggioritario. L'Italicum sarebbe dunque adatto allo scopo, peccato che M5S non lo possa dire...

Se la legge truffa renziana salterà, a seguito di una vittoria del no ad ottobre, si aprirà un complesso scenario, di cui ci siamo già occupati in un altro articolo. Qui l'essenziale è capire che a quel punto sarà impossibile andare al governo senza alleanze.

Se invece Renzi vincerà il referendum - condizione indispensabile al mantenimento dell'Italicum - il posto a Palazzo Chigi sarà già prenotato dal fiorentino. Il quale farà a passo di corsa (come annunciato all'ultima direzione Pd) il cosiddetto "congresso" - in realtà la solita farsa delle primarie - ricevendone un'investitura che lo catapulterebbe da lì a pochi mesi (primavera 2017) verso il successo alle elezioni politiche anticipate.

A mio modesto parere chi pensa che Renzi potrebbe vincere il referendum e perdere le successive politiche sbaglia. Questo potrebbe avvenire solo se la scelta fosse davvero quella di arrivare al lontano 2018. Ma quale leader politico - figuriamoci Renzi! - perderebbe l'attimo di grazia derivante dalla vittoria referendaria?

Conosco la tesi che dice che al ballottaggio tutti i non-renziani si coalizzerebbero a favore dell'altro candidato. Questo meccanismo del voto contro è indubbiamente reale, ma il ragionamento è debole per almeno due motivi.

Primo, perché voto contro per voto contro, il blocco anti-renziano ha maggiori probabilità di coalizzarsi al referendum (su un SI' od un NO è più facile che su due candidati) piuttosto che in elezioni politiche. Dunque, se l'antirenzismo ha davvero (come crediamo) questa forza catalizzante, Renzi non arriverebbe alle politiche ma l'Italicum neppure.

Secondo, se invece Renzi ed Italicum passassero indenni la prova d'autunno, non solo l'attuale premier giungerebbe rafforzato alla successiva scadenza elettorale, ma entrerebbe in gioco un pesantissimo fattore che i sondaggisti non possono ancora valutare, ma che il segretario del Pd ha di sicuro calcolato. Di cosa si tratta? Si tratta del fatto che l'eventuale ballottaggio tra Pd e M5S si trasformerebbe ben presto in un duello tra i due candidati. Ecco forse l'intelligenza nascosta della "nomina" mediatica ricevuta dall'inconsapevole Di Maio. A quel punto, quella che almeno a me appare come una robusta inconsistenza del candidato a cinque stelle, potrebbe infatti risultare come l'arma segreta messa in mano al fiorentino dai ben poco disinteressati "sponsor" del napoletano.

La mia tesi è dunque quella del complotto? Non esattamente, anche se non escludo affatto che un calcolo del genere vi sia stato. Ma questo è tutto sommato un aspetto secondario del discorso. Quel che invece mi pare importante sottolineare è che Di Maio non ha vere possibilità di arrivare a Palazzo Chigi. Perlomeno non questa volta, non con questa idea di autosufficienza di M5S. La conclusione è dunque in ciò che abbiamo già scritto: il peregrinare del Di Maio per pietire appoggi dai potenti della Terra è non solo penoso, è anche inutile.


PS - Ho scritto "eventuale ballottaggio tra Pd e M5S", non solo perché il ballottaggio non è scontato, ma anche perché non è affatto detto che si svolgerebbe tra Pd e M5S. C'è infatti un terzo incomodo che oggi si tende, sbagliando, a sottovalutare. La destra non è morta. Il suo vecchio blocco sociale è ancora lì. Quel che gli manca è un'offerta politica in grado di ricompattare quel mondo.

Se l'Italicum salterà è probabile che il processo di scomposizione tra una componente lepenista ed una conservatrice vada avanti, con tutte le conseguenze del caso. Se invece l'Italicum sarà davvero la legge con la quale si voterà alle prossime politiche, prepariamoci pure ad un rapido processo di ricomposizione della destra. Certo, adesso non è possibile sapere quanto un simile ricompattamento potrebbe essere credibile ed efficace. In condizioni normali, visto l'attuale sfacelo, la vecchia coalizione berlusconiana avrebbe bisogno di anni per rimettersi in pista. Ma non siamo in tempi normali, ed anche una candidatura azzeccata potrebbe fare la differenza. E ricordiamoci che i rapporti di forza a volte possono essere favorevoli non tanto per la propria forza, quanto per la debolezza degli avversari.

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