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Stagnazione secolare: il keynesismo è il rimedio?

di Vladimiro Giacchè

La crescita di debito e asset finanziari sono passati secondo una ricerca Mckinsey dal 119% del pil mondiale nel 1980 al 356% del 2007.

«Sei anni sono passati dallo scoppio della Crisi globale e la ripresa non è ancora soddisfacente. I livelli di prodotto interno lordo sono stati superati, ma poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero.

Inoltre, cosa preoccupante, la crescita recente ha un sentore di nuove bolle finanziarie.

La lunga durata della Grande Recessione, e le misure straordinarie necessarie per combatterla, hanno originato una diffusa sensazione che qualcosa sia cambiato. A questa sensazione ha dato un nome a fine 2013 Lawrence Summers, reintroducendo il concetto di stagnazione secolare”.

Così scrivevano Teulings e Baldwin nel 2014. Gli anni sono diventati otto, ma il resto non è cambiato.

Se l’Eurozona è l’area in cui l’ipotesi della stagnazione secolare riceve maggiori conferme, il problema è chiaramente di portata più generale: “La crescita economica media negli Stati Uniti – ricorda Summers – è stata appena del 2 per cento negli ultimi 5 anni, a dispetto del fatto di partire da una situazione estremamente depressa” e nonostante l’enorme incremento della massa monetaria. E le radici del problema precedono la crisi: “E’ chiaro che la difficoltà di conseguire una crescita adeguata, emersa negli ultimi anni, era già presente da molto tempo, ma era stata occultata da una finanziarizzazione insostenibile”.

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In altri termini: la crisi del 2007 è la fine di un modello che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con un’insostenibile crescita di debito e asset finanziari (passati secondo una ricerca Mckinsey dal 119% del pil mondiale nel 1980 al 356% del 2007). Finanza e debito hanno spinto i consumi pur in presenza di un calo dei redditi da lavoro, hanno garantito sostegno a interi settori industriali afflitti da eccesso di capacità produttiva, e offerto capitali che non trovano più impieghi redditizi in ambito industriale la via di fuga della finanza.

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Quando è scoppiata la crisi, fiumi di parole contro la “finanza cattiva” sono stati seguiti da fiumi di denaro pubblico per puntellare quel meccanismo che si era rotto, nella speranza che esso tornasse a funzionare. In questi anni la benzina delle politiche monetarie ultraespansive ha alimentato i mercati finanziari (in attesa dello scoppio della prossima bolla, probabilmente quella del debito); nel frattempo aumenta la disuguaglianza, gli investimenti ristagnano, e il motore della crescita continua a perdere giri. L’Occidente sembra incapace di fare a meno del modello di crescita trainato da debito e finanza, che neppure keynesiani e teorici dell’ “austerità espansiva” (elegante ossimoro) sembra mettere in discussione.

In altre parti del mondo si vedono le cose in modo diverso. L’economista cinese Justin Yifu Lin, ad esempio, nel suo Against the Consensus (2013), considera insufficienti tutte le principali ipotesi di soluzione della crisi proposte nei nostri paesi. La soluzione austerity – pur consigliabile in teoria per affrontare l’elevato livello del debito pubblico e privato delle economie avanzate – comporta una contrazione dell’economia, almeno nel breve periodo, e può quindi ridurre l’occupazione, la crescita economica e le stesse entrate dello Stato. D’altra parte, controbilanciare gli effetti di queste politiche con politiche di Quantitative Easing e conseguentemente di svalutazione della moneta (la soluzione “banche centrali”) può essere finanziariamente destabilizzante (creare nuove bolle finanziarie) e innescare guerre valutarie. 

Infine, il problema non può essere risolto semplicemente attraverso più spesa per rilanciare la domanda (la soluzione keynesiana), alla luce dell’alto debito già in essere.

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Secondo l’economista cinese bisogna invece puntare su investimenti che abbiano elevati ritorni in termini di occupazione e crescita. Servono investimenti infrastrutturali che eliminino colli di bottiglia dello sviluppo (ad esempio aprendo nuove vie di comunicazione), così da liberare un potenziale di crescita economica oggi inespresso. Per investimenti del genere c’è poco spazio nelle economie avanzate, “dal momento che il loro stock di capitale infrastrutturale è già elevato”. Diversa è però la situazione nei paesi in via di sviluppo: “Un’iniziativa infrastrutturale a livello globale” per finanziare progetti di questo tipo creerebbe secondo Yifu Lin “posti di lavoro di cui vi è estremo bisogno nei paesi sviluppati e in via di sviluppo. Essa darebbe un forte impulso alla domanda e creerebbe lo spazio per realizzare le riforme strutturali necessarie in eurozona e in altri paesi ad alto reddito”. E’ facile scorgere in queste parole il modello che ispira il progetto cinese della nuova Via della Seta.

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Un modello troppo old economy? Forse. Ma comunque preferibile a un altro genere di investimenti anti-crisi, cui lo stesso Summers non manca di accennare: ricordando che “Alvin Hansen enunciò il rischio di una stagnazione secolare alla fine degli anni Trenta, in tempo per assistere al boom economico contemporaneo e successivo alla seconda guerra mondiale”; per concludere: “E’ senz’altro possibile che si produca qualche evento esogeno di grande portata in grado di aumentare la spesa o di ridurre il risparmio in misura tale da rendere irrilevanti le mie preoccupazioni. Guerra a parte, non è chiaro quali eventi del genere possano verificarsi”.

* Fonte: Il Fatto Quotidiano

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