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Un concorso per pochi intimi?

Sul MiBACT, le bugie e quello che ci servirebbe davvero

Clash City Workers

Riceviamo e pubblichiamo una lettera relativa al tanto sbandierato concorsone MiBACT, di 500 posti addirittura! Peccato che dal decreto – il bando non è ancora uscito – risultino criteri di selezione quantomeno opinabili...ma non solo: come giustamente ci scrivono, un concorso fatto così è lo specchio del nostro paese: poche assunzioni, per pochi intimi, laddove servirebbero ben altri numeri, in un settore che, invece di puntare ad una vera riqualificazione – artistica, culturale, geologica – è diventata nei disegni governativi il biglietto da visita del paese...per cui va bene che le case crollino, l'importante è che a Ferragosto al Colosseo non ci sia – orrore! - un'assemblea sindacale!

* * *

Cari,

vi scrivo per condividere alcune riflessioni a seguito della pubblicazione del recente decreto ministeriale relativo alla procedura di selezione pubblica per l'assunzione di 500 funzionari al MIBACT. All'articolo 2 (Requisiti per l'ammissione) si dice testualmente che per accedere al concorso servono, oltre alla laurea, un diploma di specializzazione, o dottorato di ricerca, o master universitario di secondo livello di durata biennale.

Stupisce la richiesta dei titoli altri rispetto all'abilitazione, considerato che sia i master che le scuole di specializzazione non sono gentilmente offerti dalle università ma si pagano, e anche profumatamente.

Ancora più assurda è la richiesta di master biennale, cosa rarissima, visto che i master di secondo livello sono tutti di durata annuale. Strana anche la richiesta di dottorato di ricerca che poco o nulla ha a che fare con il saper amministrare/gestire un bene di pubblica proprietà e che, ad ogni modo, riguarda una scelta personale di indirizzo di studi.

Inutile stare a dire che io non ho i requisiti per accedere, nonostante sia laureata col massimo dei voti e abilitata. Inutile aggiungere che insieme a me ci sono migliaia di professionisti, tecnici del settore, gente appassionata e competente. Inutile anche dire che 500 posti da funzionario del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in Italia, è un numero da ridere, perchè 55 funzionari architetti non sarebbero sufficienti nemmeno a fare una catalogazione e un rilievo dei beni archeologici e architettonici di un qualsiasi hinterland di una qualsiasi piccola città di provincia che abbia siti di pregio.

Inutile, dico, perchè da questo decreto emergono con chiarezza due cose:

1. c'è la precisa volontà di escludere da un concorso pubblico chi non ha le risorse economiche per accedere a scuole di formazione post-lauream. Perchè, diciamocelo, è da tanto che va avanti questa cantilena della formazione continua, e da cantilena è diventata obbligo, altrimenti sei fuori dal mercato del lavoro, pubblico o privato che sia;

2. questo concorso è stato fatto ad hoc per regolarizzare, dal punto di vista contrattuale i precari che attualmente lavorano nelle sedi del Ministero: giusto, ma il vizio allora è a monte, perché i precari non dovevano essere tali, e le nuove assunzioni devono avvenire su criteri egualitari!

La solita guerra tra poveri che, se andiamo a leggere la pagina Facebook dedicata a questo concorso, si fanno le pulci a vicenda su chi ce la fa e chi no. È evidente che, se passa questa modalità di organizzazione di una selezione pubblica, passa il concetto che chi ha potuto pagare la propria formazione accede ai concorsi statali e chi no si fotte.

Invece dal mio punto di vista andrebbe fatta innanzitutto un'indagine sulla tipologia di contratti che si fanno per i professionisti dei beni culturali, a tutti i livelli; in secondo luogo, andrebbe rivendicata la necessità, per non dire l'urgenza, di assumere molto più personale su tutto il territorio nazionale, perché la questione dei beni cosiddetti culturali sta diventando una questione su cui si generano profitti. Non sono nuove le proposte di gestione da parte di società private di beni pubblici, come pure la loro manutenzione. Non è nemmeno così peregrina la possibilità di vendita di beni comuni a privati (e se lo fanno con l'acqua, figuriamoci con un sito archeologico). Stiamo tutti assistendo ad una generale privatizzazione degli spazi delle città, ad una trasformazione di queste in moderne e futuristiche Disneyland, piene di patatine fritte e slot machine. Non so come andrà a finire, ma credo che questa storia non debba passare nel silenzio generale o in un chiacchiericcio su Facebook. Vorrei che si parlasse di uno Stato che esclude, che lascia nel totale abbandono tutto il patrimonio di cui la Storia ci ha dotato, che normalmente si disinteressa della professionalità dei propri funzionari ma che, guarda la sorte, adesso si ricorda di aver bisogno di gente iper formata. Vorrei che si dicesse che allo Stato non importa che le case reggano ad eventuali fenomeni sismici, ma anzi forse si augura il contrario, in base al principio per cui un'emergenza genera profitto. Vorrei che si denunciasse il fatto che in Italia, se ci fosse la volontà politica, nessun professionista dei beni culturali sarebbe a casa, che non è vero che non c'è lavoro, è solo che questo lavoro non è sufficientemente spendibile sul mercato.

E' recente l'inaugurazione a San Giuliano di Puglia (dove nel 2002 morirono 27 bambini per il crollo della scuola elementare, a seguito del sisma) di un Museo del Terremoto.

È come fare un Museo del Tumore a Taranto.

Quando l'ho letto ho provato rabbia e disgusto: lo Stato decide che io e altri come me restiamo a casa, anziché assumerci per mettere in sicurezza gli edifici pubblici, di pregio e non.

Ci lascia a casa perchè non ha interesse, non perchè non abbia le risorse economiche, altrimenti ci sarebbero 27 bambini vivi e un Expo di meno nella storia di questo paese.

Se riteniamo che la questione del diritto all'abitare e della sicurezza degli edifici sia altro rispetto ai beni culturali, ci stiamo sbagliando. Se pensiamo che il Governo non debba assumersi la responsabilità del patrimonio cosiddetto “minore” e di quello edilizio nel suo complesso (che sarebbero le nostre case, per intenderci) stiamo facendo quello che vogliono che facciamo.

Quello che lo Stato dovrebbe garantire è la presenza di molti più tecnici, professionisti del settore, che tutelino il patrimonio di tutti, lo sottraggano con il loro contributo alle grinfie del privato, per restituirlo alla collettività, fruibile, accessibile, sicuro.

Possiamo rivendicare tutto questo? Io dico che possiamo, che questo è il tempo per farlo.

Io dico che questo decreto, con i i suoi scarsi numeri e i suoi assurdi criteri di selezione, va nella direzione opposta alla reale possibilità di fruizione pubblica delle bellezze di questo paese, della loro conoscenza, della loro conservazione e tutela.

La bellezza appartiene a tutti e più si allarga il bacino di utenza più si conserva integra, più restituisce un messaggio come documento storico e come simbolo di estensione del diritto alla cultura.

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