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Hillary, Bernie, e il viaggio dell'eroe

di Simone Santini

Nei film c'è un antagonista buono e uno cattivo. Il buono è spesso burbero e stravagante e si mette in contrasto nel primo sviluppo del plot con l'eroe

In ogni film che si rispetti c'è un antagonista buono e un antagonista cattivo.

L'antagonista buono è spesso un tipo burbero e stravagante che si mette in contrasto nel primo sviluppo del plot con l'eroe, il protagonista del film. Eppure, benché sia chiaramente un antagonista di colui che amiamo fin dalle prime scene, l'eroe appunto, esso non ci desta mai antipatia ma su di lui aleggia un'aurea benevola e simpatica. La sua capacità più straordinaria è quella di mettere in luce i fatal flaw, i lati d'ombra, dell'eroe, non per enfatizzarli quanto piuttosto per esorcizzarli e renderli "umani". Permette all'eroe di confrontarsi con il proprio demone oscuro, superandolo e sublimandolo.

Ad un certo punto però, nel punto di snodo della parte centrale della trama, l'eroe si affranca dall'antagonista buono e prende il sopravvento su costui che gli riconosce cavallerescamente la superiorità morale per combattere contro l'antagonista cattivo, il comune nemico che nel frattempo ha continuato a stagliarsi minaccioso sullo sfondo. L'antagonista buono, da "guardiano della soglia" si può trasformare addirittura in "mentore", colui che allena e istruisce l'eroe e lo spinge all'avventura, diventando un elemento decisivo per la vittoria finale sull'antagonista, la vera "ombra" (shadow) della storia.

Non è difficile ritrovare questo schema drammaturgico nella vicenda delle primarie americane in campo democratico. Hillary Clinton e Bernie Sanders incarnano perfettamente gli archetipi descritti da Chris Vogler nel suo fondamentale "Il viaggio dell'eroe", il manuale di base su cui si formano tutti (e dico tutti) gli sceneggiatori di Hollywood.

Applicare tali schemi alla dialettica politica consente agli spin doctor di ridurre tutta la narrazione ad un frame perfettamente controllabile e già interiorizzato, anche a livello inconscio, dagli spettatori-elettori che lo hanno già visto svolgersi in migliaia di storie, tutte diverse ma incredibilmente uguali. Tutte dunque con lo stesso finale, esaltante e consolatorio, in cui il buono vincerà contro il cattivo. L'elettore-spettatore sa già qual è il finale e non potrà fare di testa sua. Non potrà scrivere un finale diverso. Non distinguerà la realtà dalla finzione. Anzi, sarà lui stesso a desiderare, con tutte le sue forze, quel finale che già vive dentro di sé e scalcia ansiosamente per uscire fuori.

Si possono fare molte considerazioni politiche, tutte corrette, del perché Bernie Sanders attenda ancora per incoronare definitivamente Hillary Clinton quale candidato democratico alla presidenza. Magari aspetta di sapere come finiranno le sue vicende giudiziarie (lo scandalo delle e-mail) oppure vuole fino alla fine prendersi ogni delegato per arrivare alla convention di Philadelphia e buttare sul piatto tutto il suo peso politico per influenzare la futura Amministrazione.

Ma se non si fanno i conti con la drammaturgia, tali analisi politiche non appariranno comunque in grado di illuminare il succo della vicenda. Alla convention verrà tributato a Sanders un grande onore, come ogni antagonista buono si merita, farà un discorso molto di sinistra che infiammerà la platea. Poi abbraccerà Hillary e le consegnerà tutti i suoi delegati. Chissà, magari gli sarà offerto pure il ticket della vice-presidenza (la trasformazione in mentore).

Ma la narrazione, quella vera, non è stata scritta da Bernie. È stata scritta da uno come Chris Vogler e lui l'ha solo interpretata.

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