Print Friendly, PDF & Email

gustavopiga

Dopo Brexit, rien ne va plus

di Gustavo Piga

Immaginare una Brexit è praticamente impossibile per tutta una generazione di britannici nata dopo o attorno al 1973, l’anno d’ingresso nella Comunità europea. Forse per questo il New York Times sottolinea come potrebbero essere i giovani a salvare il Regno Unito Europeo; se solo gli andasse di perdere quella mezza giornata per registrarsi per il voto. Ma tant’è, l’Europa dei giovani è quella che abbiamo voluto diventasse: un curato progetto low-cost per la generazione Erasmus privo di un senso di direzione, di ideali e di solidarietà.

Eppure immaginare una Brexit è doveroso. Non solo perché è uno scenario probabile e perché una non-Brexit è quanto di più noioso e prevedibile possa avvenire per noi europei continentali, con quel nostro inevitabile proseguire da “business as usual” che ha caratterizzato l’Europa tutta dopo svariate crisi superate al filo di lana, come in Grecia ed Austria. Ma anche per assaporarne le implicazioni politiche. Non quelle economiche, perché alla fine dei conti è vero che, sterlina più sterlina meno, ci sarà sì chi guadagnerà e chi perderà dall’uscita, ma la somma complessiva di lungo periodo che verrà buttata ai pesci nell’Atlantico sarà minimale: altre sono le determinanti di lungo periodo della crescita di un Paese, ci insegnano proprio gli economisti. E la funzione di assicurazione sociale che avrebbe potuto offrire l’Europa per i cittadini UK in caso di difficoltà, beh… sappiamo che la solidarietà europea non è stato il “bread and butter” dell’Unione in quest’ultimo decennio.

Vedo due conseguenze politiche vere, che potrebbero portare la gente a votare diversamente. La prima, e riguarda forse più loro che noi, il fatto che il “piccolo Regno Unito” post-Brexit ha un’alta probabilità di diventare una “piccola Inghilterra”, a causa di una rapida e susseguente uscita (almeno) della Scozia da una Unione (la loro) verso un’altra (la nostra). Tenuto conto delle ripercussioni strategiche di un simile effetto domino locale, comprese le questioni culturali, energetiche e militari, la campagna referendaria sull’uscita dall’Europa avrebbe dovuto giocarsi ben di più su questo tema, ma forse troppo aperta era ancora la ferita del recente referendum per l’uscita scozzese. Tant’è: il conto verrà presentato ugualmente a fine pasto.

La seconda conseguenza politica riguarda noi europei e indica forse un vantaggio dalla vittoria dei favorevoli all’uscita britannica. E’ evidente infatti che il Regno Unito uscirà, se esce, per l’irrilevanza (“at best”) o, peggio, l’incapacità politica mostrata dall’Unione europea. Incapacità di mobilitare, come per i giovani, il consenso tramite un progetto ideale; ma anche incapacità di rassicurare i cittadini europei che vi sarebbe stata una vicinanza e un supporto della politica in caso di difficoltà.

Come rimuovere tale percezione di incapacità, così ormai radicata che opprime sia loro che noi, rendendoci quasi indifferenti ad un comune destino europeo? Non, lo abbiamo detto, aggirando per un pelo le crisi. Se Grecia ed Austria qualcosa hanno mostrato, è che i nostri politici europei sono incapaci di percepire un (grave) pericolo scampato e di attivarsi per cambiare lo stato delle cose. E allora la soluzione – l’ultima, paradossale, speranza europeista ed eurista – non può essere che quella di un materializzarsi di una crisi forte, come per esempio la Brexit. Perché questa possa risvegliarci, a noi europei, e spingerci all’azione, ad uscire da queste sabbie mobili in cui ci siamo impantanati da soli. Per salvare un Continente unito, che così tanto può dare al mondo se ben concepito nei suoi obiettivi.

Ecco, si porrà poi la questione di quale Europa dovrà prevalere dopo un’uscita britannica. Un’Europa senza regole, dice qualcuno. No, un’Europa con regole precise, che apprenda dal colosso statunitense qual è il collante finale che ha tenuto insieme stati con culture e società diverse: la solidarietà in caso di difficoltà, inevitabile frutto del federalismo Usa nato durante la Grande Depressione per merito di Roosevelt. Per non essere da meno, l’Europa dovrà subito sbarazzarsi del macigno più ingombrante e masochistico, il Fiscal Compact, e darsi appunto una regola di solidarietà europea quando necessaria, una regola di assicurazione sociale tra i suoi membri che dia ai più in difficoltà da chi sta meglio. Se qualcuno dovesse rifiutarlo, questo cambio di regole, è evidente che quel qualcuno debba abbandonare il progetto comune europeo e costruirsene uno a propria immagine somiglianza, con tutti i  rischi del caso.

Certo in questo scenario perderemmo il Regno Unito e difficilmente lo recupereremmo. Ma che sia chiaro: sarebbe, Brexit, l’ultimo, paradossalmente generoso, contributo ad una vera “unione degli europei” di un Paese che, in fondo – come disse Churchill a Zurigo nel 1946 nel perorare la causa degli Stati Uniti d’Europa – poteva ben cavarsela da solo: “We British have our own Commonwealth of Nations”.


Articolo pubblicato su "Il Foglio"

Add comment

Submit