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micromega

Dai populismi una lezione per la sinistra

di Leonardo Paggi

Le penne dei moderati italiani, quelle stesse che per anni si sono schierate dietro Berlusconi contro il centrosinistra di Prodi, si stringono oggi attorno a Renzi con l’obbiettivo di tamponare l’emorragia di voti che colpisce il Partito democratico. Le politiche provocatoriamente antipopolari votate negli ultimi due anni da un parlamento ammaliato dall’idea di rimanere in carica fino al 2018 cominciano a produrre i loro effetti. Nelle manifestazioni sindacali di Parigi è comparsa una scritta: “non faremo la fine degli italiani”. È vero: lo statuto dei lavoratori è stato abolito senza una sensibile opposizione, con il sindacato già da tempo “asfaltato”. Ma il malessere sociale e il disincanto politico che cova nel paese da anni è profondo. Ed è stato puerile pensare che bastasse Verdini ad esorcizzarlo. La crisi politica, ormai una vera e propria crisi organica, caratterizzata da un distacco progressivo tra rappresentanti e rappresentati, avanza e non sarà facile arrestarla con artifici retorici.

Paolo Mieli sul Corriere della sera del 14 giugno ha riesumato dal guardaroba l’antica teoria degli opposti estremismi cercando di riadattarla al presente. Paradossalmente questa volta si rivolge all’opinione pubblica della sinistra benpensante che pur rimanendo fedele all’antica e sempre onorevole idea di progresso vuole stabilità e rifiuta salti nel buio. Questo serbatoio di voti è cruciale per mantenere in vita nel paese gli equilibri politici definitisi in Parlamento negli ultimi due anni. A partire dall’invito di una parte della destra sociale a votare al secondo turno le liste dei 5stelle, Mieli giunge a prospettare una modificazione “non irrilevante della formazione idrogeologica della politica italiana”, ossia una fusione organica degli elettorati dei due populismi che aprirebbe una minaccia seria alla stabilità democratica del paese.

Insomma se il tradizionale elettore di sinistra, non più disposto a ingoiare il ducismo di Renzi, e adattarsi alla pochezza dei suoi cacicchi, decidesse di votare i penta stellati, si troverebbe in compagnia della peggiore feccia politica del paese, e immediatamente coinvolto in una avventura “antisistema”, parola, questa, destinata, nel lessico moderato, a vedere come apocalisse qualsiasi mutamento positivo nei rapporti di forza. È veramente un segno dei tempi e della estrema fragilità dei presenti equilibri di governo il fatto che Mieli, per difendere la continuità delle politiche di austerità che si stanno tuttora dispiegando a piene vele, pensi di mettersi nei panni dell’elettore di sinistra e finga di condividerne i dilemmi.

La difesa della stabilità, la paura del salto nel buio che sarebbe provocata da una affermazione dei 5Stelle è al centro anche di un intervento di Alberto Asor Rosa (Il Manifesto, 14 giugno), un intellettuale che invece ha vissuto dall’interno la lunga e penosa traiettoria della sinistra italiana, dall’apogeo degli anni Sessanta e Settanta alla interminabile crisi di marcescenza che ne è seguita. Certo Asor Rosa non tace la profondità della crisi che scuote il paese, e giustamente mette nel novero di questa crisi la stessa fragilità della posizione di Renzi, che da rottamatore si è convertito assai rapidamente in possibile perdente. Ma proprio da questa percezione e da questa analisi realistica scaturisce, come un coniglio dal cappello, l’idea che la “vecchia sinistra” non abbia altra scelta che battersi per un “nuovo” centrosinistra e per un “nuovo” Pd epurati da Renzi.

Non vale la pena entrare nel merito della rocambolesca, e anche un po’ confusa, strategia elettorale suggerita da Asor Rosa per cui si dovrebbe appoggiare i candidati Pd ai ballottaggi di domenica e votare invece No al referendum di ottobre. Interessa invece mettere in luce quello che a me sembra un macroscopico vuoto di analisi che sta dietro a questa ipotesi di un centrosinistra revenant cui si dovrebbe demandare il compito di mettere in sicurezza la nostra democrazia.

Si dovrà prima o poi passare al setaccio, per ricostruire una cultura della sinistra degna di questo nome, le mille contraddizioni, le mille ambiguità e incongruenze che hanno segnato i governi di centrosinistra. Ossia trovare le ragioni politiche e programmatiche della loro incapacità di costruire nel corso di un ventennio una vera alternativa a Berlusconi che perderà la sua centralità, non dimentichiamolo, non perché battuto politicamente, ma perché incastrato dal potere giudiziario che ha infamato per un ventennio. Il progetto di un riformismo di governo nato nella temperie del 1989 è fallito miseramente, mettendo in piena luce la inservibilità della cultura del movimento operaio come di quella di ispirazione liberaldemocratica, secondo un copione che viene recitato del resto in tutta Europa. In questo processo si consuma la credibilità non solo di culture politiche, ma di interi gruppi dirigenti, e si determina il successo della (finta) rottamazione.

Ma non solo: la fine del centrosinistra, e del sistema bipolare che avrebbe dovuto rappresentare il grande avanzamento democratico della seconda repubblica, ha una precisa certificazione cronologica. Il governo Monti segna ad un tempo l’adozione  della politica di austerità con marchio ufficiale Bce e l’avvio di un esperimento di “unità nazionale” (così lo volle denominare Giorgio Napolitano, forse ancora memore del suo passato di comunista), che immette nel definitivo processo di decomposizione del sistema politico italiano. Il significato periodizzante delle elezioni del febbraio 2013 sta nel fatto che esse rappresentano il primo aperto segno di rigetto di una classe politica sistematicamente inadempiente con la immissione nell’arena politica di nuovi soggetti, peraltro  sprovvisti di qualsiasi cultura e di qualsiasi tradizione. Da allora quella che Asor Rosa chiama la “vecchia sinistra” ha avuto un sussulto narcisistico di rigetto, si è messa in cattedra con la matita rossa e blu, e ha cominciato a segnare in modo pignolo tutti gli strafalcioni.

Viene da pensare ai dottori della seconda internazionale socialista che mentre la rivoluzione russa era in cammino condannavano lo sciopero di massa perché riconosceva un ruolo anche ai non organizzati. Sempre in questa chiave nel giugno del 1914, ossia alla vigilia della tragedia del conflitto mondiale, il riformista Claudio Treves usò il termine di “teppa”per denominare quel grande sussulto democratico delle masse lavoratrici italiane passato alla storia con il termine di “Settimana rossa”.

Sorge una domanda: invece di arricciare il naso davanti ai populismi, con un ridicolo senso di superiorità, perché non prendere definitivamente atto che il popolo italiano, e in primo luogo il popolo lavoratore, massacrato da vent’anni di stagnazione economica e di sempre più rampante corruzione politica, sta cercando una strada che non può non andare oltre il fallimento di tutta la sinistra, sia quella di governo, rivelatasi totalmente incapace di fronteggiare l’assalto totalitario dei mercati, sia di quella che pur chiamandosi all’opposizione non ha saputo porre nemmeno le più lontane premesse culturali di nuovi programmi politici?

Mi sono domandato più volte come sia stato possibile che Salvini, e non il sindacato, abbia realizzato il monopolio di una martellante denuncia della legge Fornero. Asor Rosa suggerisce di votare Renzi, per evitare il peggio, per sbarrare la strada alle invasioni barbariche. A me pare che il problema sia quello di riconquistare in Italia e in Europa un popolo lavoratore spogliato dei suoi diritti, deprivato di ogni possibile futuro, che non a torto si è sentito ad un certo punto sostanzialmente tradito dalla classe politica che doveva rappresentarlo. Il linguaggio del populismo è certo molto diverso da quello della “vecchia sinistra”, ma proprio in questa diversità sta la sua capacità di contatto con strati sociali che si sottraggono ormai sistematicamente ai terreni della comunicazione politica.

Ernesto Laclau ha elaborato già alcuni anni orsono una teoria astrusa del “significante vuoto” per spiegare l’incipiente successo dei populismi in Europa. A me pare che la spiegazione del successo di questi movimenti stia, molto più semplicemente, nella loro capacità di “tornare alle cose stesse”, di solo nominare, anche se non analizzare, i fenomeni che interferiscono sempre più drammaticamente con l’esperienza quotidiana della “gente”. Dividersi sull’utero in affitto e sul matrimonio tra omosessuali lasciando alla Caritas il compito di denunciare l’espandersi a macchia d’olio delle zone di povertà non rappresenta un buon servizio per la democrazia italiana. Contro il realismo di Asor Rosa che suggerisce di votare Renzi per evitare il peggio c’è il ben più complicato realismo di cercare un contatto con le esplosioni di questa spontaneità che ancora una volta non deve essere ignorata ma compresa e rischiarata nelle sue radici profonde.

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