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Brexit, gli apprendisti stregoni dell'austerità

Carlo Clericetti

La vittoria del "Leave" c'entra poco con l'Europa e molto con le politiche uguali in tutti i paesi, o per convinzione o per costrizione, che stanno provocando dovunque un rigetto verso chi governa. Se le élites al potere si arrenderanno all'evidenza l'uscita dell'Uk e le sue conseguenze potrebbero essere l'occasione per rivedere radicalmente il progetto europeo, ma questo non è affatto scontato

Adesso che il voto inglese è andato come nessuno dei poteri internazionali voleva che andasse è importante vedere quale analisi si farà di questa vicenda. La spiegazione che questi poteri si daranno - o meglio, quella che daranno "ufficialmente", a prescindere da ciò che effettivamente pensino - sarà fondamentale per capire se si sono convinti che le politiche necessitino di una forte correzione di rotta oppure se resteranno sordi al profondo disagio che - elezione dopo elezione, in tutti i paesi europei - i cittadini stanno esprimendo con il voto.

Non c'è dubbio che la scelta degli inglesi in fondo con l'Europa c'entri poco. Basta guardare i grafici con l'analisi del voto pubblicati dal Guardian per capire che anche questo è stato un voto di protesta, l'espressione, appunto di quel grande disagio e scontento. Per il Brexit ha votato la parte meno istruita e a minor reddito, cioè quella parte su cui hanno più pesato la lunga crisi e le politiche di austerità. Il bello - si fa per dire - è che nel Regno Unito non c'è stata nessuna austerità dal punto di vista della politica di bilancio, visto che Cameron ha lasciato correre allegramente il deficit, la Bank of England è stata la prima a monetizzare massicciamente il debito e questo ha fatto salire il Pil molto di più della media europea. Ma non basta che cresca il Pil, bisogna anche vedere come si distribuisce il frutto di questa crescita. E siccome David Cameron è un conservatore il suo governo non l'ha distribuita equamente, con un particolare accanimento nella distruzione del welfare. E dunque, di quel segno più del Pil i meno abbienti probabilmente non si sono nemmeno accorti.

Dopo le ultime elezioni Cameron è riuscito a mantenere il governo solo grazie alla particolarità del sistema elettorale inglese,  che ha lasciato a secco di deputati l'Ukip di Nigel Farage nonostante i suoi 4 milioni di voti e ha frenato i laburisti, quasi azzerati in Scozia a causa del successo degli indipendentisti. Ma, appunto, si trattava di spinte centrifughe evidenti, che in una scelta secca - o di qua o di là - votano "contro" e vanno in maggioranza. Ricorda qualcosa? Ma sì, i ballottaggi delle nostre amministrative, che hanno decretato il successo del partito "contro", cioè i 5Stelle.

Le politiche di destra attuate in tutti i paesi europei creano una situazione che interagisce con la più ampia politica europea. I governi in carica, che praticano queste politiche qualunque sia la loro etichetta, si vengono a trovare in difficoltà nel loro paese, perché dappertutto la somma degli oppositori sta sopravanzando il numero dei loro sostenitori. Quindi, da una parte giustificano le loro politiche con la necessità di rispettare le regole europee (la versione aggiornata del "ce lo chiede l'Europa") o incolpano quelle regole - di cui loro stessi sono autori - del fatto di non poter fare di più, il che contribuisce a far aumentare l'atteggiamento negativo verso l'Unione; dall'altra cercano di scaricare sugli altri i problemi che si presentano, come la questione delle migrazioni ha platealmente mostrato. E d'altronde, cosa aspettarsi di diverso in un'Unione che ha tra i suoi principi costitutivi la competizione, ed esclude invece la solidarietà tra paesi?

Non dimentichiamo com'è nato il referendum inglese. Cameron l'ha indetto, prima delle ultime elezioni, per fronteggiare la crescita di consensi dell'Ukip. In altre parole, è stato un problema tutto interno a generare quello che adesso è un problema europeo.

Il problema, insomma, è la politica imposta dalle élites europee, che tutti i paesi membri seguono per convinzione o per costrizione. Una politica che è arrivata al capolinea, sempre che si voglia mantenere quel poco di democrazia che è rimasta, perché la maggioranza dei cittadini non l'accetta più. Prenderanno atto, le élites europee, e si comporteranno di conseguenza? Purtroppo c'è da dubitarne.

Che succederà ora? Intanto una nota curiosa. A guardare gli indici delle Borse alla fine della mattina si direbbe che avesse ragione il vecchio detto inglese: "Nebbia sulla Manica, il continente è isolato". I mercati europei scendono a precipizio, dal -16% di Atene al -7 di Francoforte (il meno peggio perché la Germania beneficia comunque del "fly to quality", cioè degli investimenti che si dirigono verso i paesi ritenuti più sicuri). L'indice di Londra, invece, va meno peggio di tutti, -4,7%: aspettiamo con ansia le interpretazioni di quelli che "per l'Uk sarà una catastrofe". Comunque le fibrillazioni dei mercati (anche gli spread si sono allargati, ma ha inciso l'acquisto di Bund tedeschi) era scontata. Come si è già detto, occasioni del genere sono una manna per la speculazione, il suo mestiere è sfruttare le forti oscillazioni.

Per l'economia reale, però, continuiamo a scommettere che cambierà ben poco. Intanto l'uscita del Regno Unito è un lungo processo che ancora deve iniziare: comincerà ufficialmente solo quando il governo britannico chiederà ufficialmente l'uscita dall'Unione in base al Trattato di Lisbona. Da quel momento si apriranno le trattative, che secondo il Trattato possono durare due anni durante i quali l'Uk rimane paese membro. Ipotetiche guerre commerciali restano improbabili. I riflessi più importanti ci potranno essere per il settore finanziario, perché più di un paese ambirà a ridimensionare il peso della City come centro finanziario continentale (e grazie a questo anche mondiale). Ma questo è un problema degli inglesi, non degli altri.

Più interessanti potranno essere gli sviluppi politici, al momento difficilmente prevedibili. In Uk sarà probabilmente riproposta la secessione scozzese, che se dovesse aver successo potrebbe stimolare iniziative analoghe in altri paesi, Spagna innanzi tutto. Ma qui stiamo facendo ipotesi sulla base di ipotesi, quindi valgono quel che valgono. Più probabile, invece, è che altri paesi si facciano avanti per chiedere deroghe a questa o quella norma europea, visto che l'accordo che era stato raggiunto con Cameron, rivelatosi inutile ai fini del referendum, affermava però che la particolarissima situazione concordata con Londra era compatibile con i Trattati dell'Unione. Sarebbe un segnale della progressiva disgregazione del progetto europeo come è stato concepito.

Nei prossimi mesi si vedrà se le élites europee hanno più a cuore l'obiettivo di non sfasciare completamente l'Europa o quello di perseverare nelle politiche che l'hanno portata a questo punto. Nel primo caso sarà indispensabile quanto meno allargare le maglie, restituendo agli Stati maggiore libertà di manovra, e intanto iniziare una profonda revisione di tutto il progetto. Sarebbe la strada più logica e migliore, ma al momento non è la più probabile. Purtroppo quelle élites hanno mostrato finora che cambiano solo se costrette da eventi traumatici. Chissà se il trauma inglese sarà sufficiente.

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