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Camminando con Tulime

di Giovanni Di Benedetto

Tulime in lingua swahili significa, se non ho capito male, coltiviamo. Tulime è anche un’associazione di volontariato che si occupa di cooperazione internazionale e, in particolare, di elaborare e realizzare progetti di sostegno e aiuto allo sviluppo sostenibile in Africa. Nel corso di questi ultimi mesi invernali e primaverili, gli amici di Tulime hanno pensato di organizzare una serie di passeggiate per fare scoprire, o riscoprire, a famiglie composte da adulti e bambini, alcuni dei luoghi di maggior pregio naturalistico della Sicilia. Camminando con Tulime, è questo il nome dell’iniziativa, ci ha condotti per le suggestive rive del fiume Sosio, per i magici sentieri boschivi del monte Genoardo, per la rigogliosa e solare trasparenza marina della Riserva dello Zingaro, per i sentieri esotici che si imbattono nella foce del fiume Platani, per le atmosfere ancestrali e sublimi delle Rocche dell’Argimusco e del bosco di Malabotta. Camminate per luoghi bellissimi che evocano pensieri di armonica fusione con il Tutto della Natura.

E così sono arrivato a pensare, io che 25 anni fa leggevo Capitalismo Natura Socialismo, bellissima rivista edita da Il Manifesto(è proprio vero le letture alla vita non bastano mai), che camminare con i propri piccoli per paesaggi montani o lungo i litorali sabbiosi ancora selvaggi del Mediterraneo può essere, per me adulto prima che per loro ancora burrascosamente fanciulli, una sorta di esperienza di formazione. Andare a piedi per sentieri e trazzere può aiutare a scoprire luoghi, idee, relazioni, può stimolare un modo differente di vivere gli spazi, può addirittura aiutare a formulare una concezione del mondo altra e alternativa a quella comune. Se poi è accompagnato dallo stare insieme, l’atto del camminare si può rivelare un atto sociale che genera, attraverso la conoscenza dell’altro/a, equilibrio e moderazione, consapevolezza e serena letizia. Perché è come se si dipanasse una dinamica psicosociale in grado, innanzitutto, di ridimensionare le nostre pretese narcisistiche e, poi, di riportarci a una condizione di ascolto e conoscenza dell’altro.

Ma camminare a piedi può addirittura rivelarsi un atto di radicale sovversione. Di fronte a un paesaggio, come quello contemporaneo, caratterizzato da un’impressionante accelerazione dei tempi della vita, l’atto del camminare rivela il potenziale antagonistico del fattore lentezza. Richiamandosi ad Essere e tempo di Heidegger, in un suo testo recente, Essere senza tempo, Diego Fusaro ricordava che il tempo presente è connotato da ritmi temporali sempre più compressi. L’innovazione tecnico-scientifica determina un’inedita velocizzazione di dispositivi e procedure che sembrano implicare una dicotomizzazione sempre più radicale tra i tempi della vita e quelli della produzione. Tuttavia, tale separazione si rivela soltanto apparente e sono le procedure macchiniche degli apparati produttivi a assorbire dentro la propria logica sistemica i bisogni naturali dell’umano. Entro questo scenario, sembra sempre più percepibile la condanna a vivere in un eterno presente, un presente che, fagocitando la possibilità del futuro, conduce alla desertificazione e all’annullamento di qualsiasi ipotesi di cambiamento. Al contrario, l’esperienza del camminare a piedi dilata la prospettiva spazio-temporale, espone l’individuo alla riflessione e alla necessità di guardarsi intorno pensando con la propria testa, istituisce una nuova cornice di senso che si proietta nell’avvenire. E, proiettandosi nel futuro, l’individuo torna a essere capace di progettare la trasformazione del mondo in vista di un suo miglioramento. In questo senso il camminare diventa un atto politico di radicale sovversione.

La verità è che dietro questa idea del camminare vi è una elaborazione complessa e profonda che cerca di mettere insieme amore per la natura, amore per l’altro/a e progetto di una società alternativa a quella totalitaria fondata sulla reificazione e sul dominio della merce. Anche da questo punto di vista mi è sembrato che l’impegno con attività di sostegno allo sviluppo sostenibile in Africa colga un altro nodo centrale, ossia quello relativo alla connessione strettissima che lega sfruttamento delle risorse naturali, oppressione e costruzione di una società sempre più diseguale e nella quale, tuttavia, non mancano grandi accumulazioni di ricchezze. Il nostro senso comune, inevitabilmente condizionato da abitudini metropolitane, a volte tossiche e distruttive, già ne parlava Rousseau ne L’Emilio, sembra che non riesca più a cogliere la portata drammatica delle contraddizioni causate dal modo di produzione, fondato esclusivamente sulla reiterata accumulazione di profitti, e da un’idea dello sviluppo distorto che provoca ad un tempo distruzione dell’ambiente e crescita delle disuguaglianze. Dappertutto dominano vizi epistemologici che rimandano a forme distorte di specialismi che separano e distinguono, ne scrive per esempio Michael Pollan in un bellissimo libro intitolato Una seconda natura, forme a tal punto pericolose da mettere a repentaglio la stessa nostra sopravvivenza sul pianeta. Continuiamo a contrapporre natura e cultura come se si trattasse di un modo di pensare ovvio e normale, dimenticando che noi stessi siamo un nodo inestricabile nel quale le due dimensioni si uniscono e si sovrappongono. In questo senso, le attività complementari di educazione alla terra, promosse dall’associazione, possono essere una risposta importante ed adeguata. Tulime insegna a riflettere sulla necessità di sviluppare una consapevolezza più profonda del posto che occupiamo, noi, esseri naturali/culturali, all’interno della Natura.

È questo scenario, connotato da rischi ambientali sempre più concreti e da una deriva regressiva della civiltà umana sempre più pericolosa, a richiamare la necessità di costruire momenti sempre più ampi di confronto e incontro, per promuovere consapevolezza e mobilitazione di massa per resistere insieme di fronte all’ondata di barbarie che, sul piano politico, culturale, economico e ideologico, sta investendo la nostra società. In Sicilia, per esempio, le riserve orientate sono il frutto dell’onda lunga di una straordinaria mobilitazione che si avviò all’inizio degli anni ‘80.  Mi pare che oggi il rischio sia determinato dal fatto che, pur a fronte di una accresciuta consapevolezza, sembra diminuita la capacità e il desiderio di tutti quanti di mobilitarsi per il bene comune, contro il jobs act come contro la distruzione di tutto ciò che “di pubblico” resta, comprese le riserve naturali.

Infine un ultimo tema. C’è un tratto, quasi sentimentale, che, nel corso delle escursioni, mi ha particolarmente colpito. È una certa idea di bellezza, che viene veicolata con estrema grazia e eleganza. Mi pare di averla già incontrata nel corso di certe mie letture di epistemologia (penso ovviamente a Bateson e Morin, a Maturana e Varela e a Fritjof Capra), ma anche, per esempio, nella sapienza antica dei presocratici. È l’idea dell’armonia cosmica, della relazione tra parti e tutto, dell’interazione, nella natura, tra ogni elemento e il suo contesto. E inoltre, è la profonda consapevolezza che l’essere umano è parte della natura e, in quanto tale, esso stesso natura. Questa consapevolezza può sprigionare, nel tempo presente, energie nuove, entusiasmi non filtrati dalle ansie e dalle paure del contemporaneo. Può rappresentare un modo, nuovo e antico al tempo stesso, per declinare il potenziale materialistico di virtù e di letizia necessario alla trasformazione e al cambiamento. E allora, come scrivono quelli di Tulime, “torneremo a casa con un sorriso e il cuore colmo di gioia”.

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