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operaviva

Governare senza popolo

Odio vs populismo

Augusto Illuminati

Non voglio qui tornare sui ballottaggi comunali italiani né valutare gli effetti del Brexit, mi limito a indicare un tratto comune nei commenti, cioè l’accusa di populismo mossa indiscriminatamente ai vincitori di entrambi e la complementare (auto)descrizione favorevole dei perdenti – dove quell’(auto) segnala l’immedesimazione dei commentatori in un’aristocrazia fichissima (smart) e l’arbitrio complessivo della descrizione.

Cominciamo dall’immaginario giornalistico del Remain: sarebbero «i nostri bravi ragazzi», la generazione Erasmus che, se vogliamo qualificarla in modo un po’ vittimistico ma pregna di martirologia «occidentale», diventa generazione Bataclan. Scongiuri. Per distribuire secondo lo schema razzista di Repubblica, «chi ha potuto studiare fino almeno ai vent’anni di età, sviluppa un senso di appartenenza all’UE molto più spiccato rispetto a chi ha lasciato la scuola a 15 anni», mentre «la working class ha meno senso di appartenenza» – stranissimo! «Studenti, manager e colletti bianchi sono al top dell’euro-ottimismo, mentre pensionati e casalinghe sono i meno affezionati all’Unione. Più hai difficoltà a portare a casa lo stipendio, meno ti ispira l’europeismo». Davvero bizzarro!

Dipenderà dal reddito e dalle difficoltà occupazionali o dall’anzianità e dai vizi professionali tale propensione «apocalittica» che li rende facili prede del populismo?

Questo immaginario (che, del resto, non corrisponde esattamente al voto, se non altro per le complicazioni regionali) assomiglia abbastanza alla strana distribuzione del voto dei ballottaggi, che ha visto resistere il Pd nei centri storici di Roma, Torino e Milano e perdere voti nelle periferie a favore di populisti di varia natura.

Per quanto inverosimile, si è sviluppata, in modo criptico e non ufficiale, una campagna contro il suffragio universale, contro il voto degli ignoranti e dei poveri, accusati di farsi «sviare» da demagoghi di ogni risma.  Che questi abbondino, in Inghilterra come in Italia, è fuori discussione, ma in sostanza l’etichetta di populismo è, per dirla con J. Rancière, «il facile nome sotto il quale si cela la contraddizione esasperata tra la legittimità popolare e la legittimità scientifica [… quello che] maschera e nello stesso tempo rivela il grande desiderio dell’oligarchia: governare senza popolo, cioè senza divisione del popolo, governare senza politica». Chi nomina il populismo dal posto della «ragione» è altrettanto «oltre» destra e sinistra dei populisti. Entrambe le parti imbrogliano, con o senza significanti vuoti.

L’accusa di ignoranza e disinformazione rivolta a chi non segue il politicamente corretto della socialdemocrazia conferma, una volta di più, che la democrazia è avversata non solo dal neoliberalismo ma anche e soprattutto da chi si è di recente convertito ad essa, tanto che molti giornalisti di regime e conservatori standard hanno mostrato un predace interesse per le nuove tendenze, al contrario della spocchia rancorosa del Pd.

La democrazia è invero un potere plebeo e caotico, di chi non ha titolo a governare e si batte contro la gestione oligarchica della vita pubblica e della ricchezza. Con tutti gli errori del caso, ma non «normalizzabile» secondo la logica dei media e delle banche. Sul piano teorico è la rimessa in questione, ogni volta, dell’universalismo corrente, cioè una secessione dal consenso ai valori dominanti. Contrapporle (come ha fatto l’opinione pubblica eurocratica nel caso della Brexit) il ben informato potere dei ceti colti e della finanza è un’operazione odiosa e classista, che non cessa di essere tale solo per il fatto che a cavalcare il Leave erano spesso i più squallidi arnesi del sovranismo nazionale e del razzismo locale.

Contrapporle una svampita immagine hipster, come fa Repubblica, e come fecero ai ballottaggi i bobogiachettiani dal loro covo dell’ex-Dogana, è una parodia struggente, di chi non ha capito che oggi dilaga una «generazione voucher» che ha cambiato i termini del gioco e si colloca fuori dallo stesso esercizio del voto o contro i pastori di destra o socialisti del neoliberalismo.

Sono saltati i termini di riferimento, il che non vuol dire che ne scaturiscano immediatamente esiti politici positivi – né in Spagna né, tanto meno, in Italia. Lo sfacelo di Ps francese, Psoe iberico e Pd nostrano non produce in automatico una migliore sinistra e neppure è d’aiuto una composizione demografica che riduce enormemente l’impatto delle nuove generazioni rispetto ai decenni 60-70 dello scorso secolo. Correre però il rischio della democrazia e del disordine resta decisivo. Non ci sono «abusi» di democrazia, ma solo momenti di odio e diffidenza per essa che hanno una lunga storia, una storia a calare, se si pensa che all’inizio troviamo Platone e alla fine Napolitano e Maria Elena Boschi.

Tuttavia stiamo attenti a maneggiare con cautela l’opposizione alto/basso come nuova chiave di lettura della realtà, ancor meno quella élites/masse. Il trappolone si appalesa nella demagogia di D. Trump e B. Johnson, così come nella pretenziosa polemica sul Corriere della sera fra Ernesto Galli della Loggia sovranista e Bernard-Henry Lévy, principino del jet set o nelle penose divagazioni «psico-politiche» di Ezio Mauro per i lettori acculturati di Repubblica. Sono tutti nemici della democrazia, che agitano la bandiera o la felpa del «loro» popolo di riferimento (ottusi nazionalisti xenofobi o bramosi azionisti cosmopoliti) per svuotare la politica e il conflitto con soluzioni plebiscitarie. A proposito, non dimentichiamoci del nostro referendum costituzionale coming soon.

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