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Senza via d’uscita? L’Europa da Est a Ovest e viceversa

Il risultato del referendum britannico dello scorso giugno ha offerto alle destre il pretesto per vendere a poco prezzo l’illusione di una via d’uscita praticabile dall’Unione europea e dalle sue politiche di austerità. La possibilità di un addio referendario è accarezzata tanto in Francia o in Italia quanto in alcuni paesi dell’Est che, appena un anno fa, hanno invocato la sovranità del proprio popolo per mettere a tacere il «no» greco all’ennesimo memorandum imposto dalla Troika come condizione per rimanere nell’Unione. Dopo avere sottratto agli Stati nazionali ampie quote di sovranità, ora l’assetto istituzionale dell’Europa sembra vacillare sotto il peso di spinte nazionalistiche rinnovate e aggressive. Questa decomposizione dell’Europa politica non coincide tuttavia con la fine delle politiche neoliberali, sebbene le trasformazioni istituzionali che investono l’Unione stiano già producendo i loro effetti su milioni di precarie, operai e migranti che vivono, lavorano e lottano nello spazio europeo. La Brexit ha fissato lo sguardo a Occidente, ma già da tempo a Est è in corso una sorta di Eastexit con la quale molti paesi stanno abbandonando procedure democratiche e di libertà anche sostanziale, pur rimanendo dentro all’Unione. Tra chi abbandona ufficialmente l’Unione e chi ne sta costantemente affermando una forma autoritaria si rivela però una continuità e la condivisione di fondo delle politiche neoliberali di controllo della forza lavoro. La vera domanda che si pone è allora: chi esce davvero dall’Europa? Ma ancora più chiaramente: si può davvero uscire dall’Europa?

Guardando la Brexit da Est è evidente che i rigurgiti nazionalisti che – a destra e a sinistra – stanno mettendo in discussione l’UE non sono in alcun modo una reale alternativa alle sue politiche neoliberali. Non è un caso che l’Unione abbia silenziosamente autorizzato nel tempo l’ascesa delle destre: la ferocia politica del realismo tecnocratico che ha travolto l’OXI greco si è tradotta in poco più di un blando ammonimento per la violenza poliziesca praticata sul confine dall’Ungheria, dove Orbán prepara il referendum del 2 ottobre sulle politiche migratorie europee con il più sfacciato e violento razzismo. La strenua resistenza che i paesi dell’Est come Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia e la stessa Ungheria hanno opposto lo scorso maggio alle ipotesi di accentramento politico dell’agenda europea sulle migrazioni ha chiaramente trovato terreno fertile anche in Gran Bretagna. Non parliamo solo dell’ottuso estremismo di Farage, ma del modo in cui l’intero spettro delle forze politiche «moderate» ha sostenuto – con encomiabile coerenza, benché con toni diversi – l’idea che i cosiddetti «turisti del welfare» abbiano eroso lo Stato sociale britannico con la stessa famelica azione di un’orda di cavallette. Il razzismo istituzionale è in tutta Europa uno specifico strumento per supportare ideologicamente e amministrativamente il governo della mobilità e della precarietà, ovvero un feroce controllo della forza lavoro e un’assoluta liberalizzazione dei movimenti del capitale. Benché quindi vi siano differenze innegabili tra Hollande e Le Pen, tra Corbyn e Farage, tra Renzi e Salvini, il problema che abbiamo di fronte non è quello dell’affermazione della destra in Europa, ma la logica neoliberale che inesorabilmente si afferma anche attraverso le forze che pretendono di essere antirazziste e, ovviamente, antipopuliste. La crescita delle destre a Est come a Ovest dell’Europa non dipende né dalla «naturale» arretratezza culturale di polacchi o ungheresi, né dal conservatorismo della classe operaia inglese che afferma così la sua sorprendente o crepuscolare esistenza. La crescita delle destre in Europa è parte costitutiva della politica di controllo della forza lavoro e dei confini che precarie, operai e migranti mettono quotidianamente in discussione.

Nonostante le minacce di Juncker, che promette di far pagare alla Gran Bretagna un prezzo molto caro per la sua secessione, nessuno crede seriamente alla possibilità che l’Unione governi decisionisticamente i rapporti con i suoi Stati. Sebbene dal punto di vista istituzionale questi ultimi agiscano costantemente come forze centrifughe, essi sono allo stesso tempo condannati a esistere dentro lo spazio europeo perché solo al suo interno assumono la loro rilevanza. Il neoliberalismo in Europa ha esplicitato il suo paradosso politico. Non è possibile nessun ritorno alla sovranità nazionale, perché i singoli Stati sono incatenati alla loro funzione di guardiani del neoliberalismo. Per questo lo spazio politico dell’Europa non può essere identificato con quello delineato dai suoi confini istituzionali. Come la Brexit non comporta una reale uscita britannica dallo spazio transnazionale delineato dalle politiche neoliberali europee, così l’Eastexit, ovvero la resistenza nazionalistica opposta dai paesi dell’Est all’accentramento politico del governo dell’Unione, non coincide in alcun modo con una messa in questione della sua esistenza neoliberale. Le politiche neoliberali verranno semmai applicate regionalmente nel quadro di una concertazione europea capace di sincronizzare, dentro a un comune processo di estrazione di valore e realizzazione di profitto, le differenze che attraversano il suo spazio, anche facendo leva sulla concorrenza tra i singoli Stati. È d’altra parte questa la direzione indicata dal primo ministro slovacco Fico al momento di insediarsi alla presidenza del semestre europeo, quando ha chiarito che democrazia in Europa significa ridare voce ai parlamenti nazionali e che la libera circolazione nell’area Schengen può essere salvaguardata soltanto al prezzo di un irrigidimento del controllo sui confini esterni e di una rimodulazione dell’agenda europea sulle migrazioni che tenga conto delle diverse posizioni nazionali. D’altro canto, si può seriamente pensare che il Front National, che in Francia promette di riaffermare la sovranità nazionale, abolirebbe la loi travail? No. Semplicemente ci aggiungerebbe un corredo di razzismo per renderla «più francese». Guardando tanto da Est quanto da Ovest sembra che non possa più esserci un’Europa dei diritti, perché il suo spazio è costituito da differenze e gerarchie organizzate secondo la logica neoliberale che combina razzismo istituzionale, governo dei movimenti del lavoro vivo e piena libertà di circolazione del capitale.

Brexit ed Eastexit sono allora due facce della stessa medaglia, ovvero di un processo di destrutturazione delle istituzioni europee che è parte integrante dell’attuale processo di costituzione dell’Europa come spazio transnazionale. Se è chiaro che le ipotesi nazionalistiche non sono in contrasto, ma coerenti con questo spazio, deve essere altrettanto chiaro che il sogno di un’Europa socialdemocratica si è ormai trasformato nell’incubo incarnato nella sua forma più spaventosa da M. Hollande. Se l’Europa delle istituzioni e quella del neoliberalismo sono sconnesse, per quanto in relazione funzionale, l’occupazione democratica delle istituzioni europee non può costituire da sola una risposta al potere sociale del capitale che si dispiega su scala transnazionale. La via d’uscita va dunque organizzata praticando un discorso politico capace di dare voce e direzione all’insubordinazione e alle legittime pretese di precarie, operai e migranti che attraversano lo spazio politico transnazionale. Una via d’uscita difficile, ma praticabile.

In quest’ottica si pone il processo del Transnational Social Strike, che non a caso ha visto il primo momento allargato di discussione a Poznan, in Polonia, riconoscendo nell’Europa dell’Est il terreno di sperimentazione della sconnessione strutturale tra lavoro e diritti che ora è il modello delle relazioni industriali nel resto d’Europa. Il processo del Transnational Social Strike è una prospettiva concreta per accumulare il potere necessario ad agire all’interno dello spazio europeo. Per questo il TSS sta discutendo da mesi della possibilità di individuare rivendicazioni comuni capaci di catalizzare un percorso organizzativo transnazionale: un salario minimo, un welfare e un permesso di soggiorno europei possono aggredire i punti nevralgici delle politiche neoliberali, possono permettere di contrastare il regime del salario e il governo della mobilità che l’Unione Europea cerca con ogni mezzo di imporre, con l’obiettivo di sottrarre spazio al discorso neoliberale e di accumulare un concreto potere sociale. Lo scoglio da superare e con cui è necessario fare costantemente i conti è il riconoscimento che queste rivendicazioni comuni devono prendere le mosse dalla diversità delle condizioni esistenti. Se in Polonia un salario minimo orario di 8.50 € significherebbe per milioni di precarie, operai e migranti l’emancipazione da una condizione di sfruttamento e di subordinazione, in Germania o in Francia esso sarebbe il salario ordinario della miseria quotidiana e politica. Farci carico di queste differenze senza incorrere in una rinazionalizzazione dell’iniziativa politica, in ultima istanza funzionale alla sincronizzazione neoliberale dello sfruttamento, è la sfida che abbiamo di fronte. Determinare i contenuti delle nostre rivendicazioni, perciò, non può significare dare loro una misura locale o territoriale, ma identificare i punti di impatto con il capitale per incidere sul tempo, sulle condizioni e sullo spazio in cui esso pretende di esercitare il suo dominio. Quanto devo lavorare per avere un salario, come posso vivere con il mio reddito, dove posso muovermi per sottrarmi allo sfruttamento? Organizzando una risposta non subalterna a queste domande, la pratica dello sciopero sociale può attraversare e incidere sui tempi e gli spazi della produzione e della riproduzione sociale, da quelli metropolitani a quelli transnazionali dei movimenti del capitale e del lavoro vivo. Su questa scala, i contenuti delle nostre rivendicazioni comuni possono puntare all’acquisizione di potere sociale dentro lo spazio transnazionale europeo, contro il dominio del capitale.

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