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thewalking

La fine (illusoria) della globalizzazione

Maurizio Sgroi

Legami profondi si stanno allentando nel tessuto delicato dell’economia e della politica internazionale. La Crisi, che si declina in continue crisi locali, ha indebolito la cerniera che in questi decenni ha unito gli stati sotto la narrativa incessante della globalizzazione. E se ne vedono le conseguenze. Brexit, per dirne una. Ma poi le varie elezioni europee, che ormai si connotano come un costante referendum pro o contro l’Europa istituzionale. O le elezioni americane, con i loro echi isolazionisti. Poi c’è la Turchia, che mette sul piatto le sue relazioni economiche con l’Europa, mentre decide nel suo modo essenzialmente asiatico di reprimere la sua dissidenza interna. E infine ci sono gli altri paesi emergenti, cui qualcuno di recente ha persino consigliato di usare i controlli sui capitali per limitare le influenze nefaste delle politiche monetarie occidentali.

Sopra ogni cosa campeggia la paura: del terrorismo, delle migrazioni, dello straniero che non ci somiglia, delle banche mezze fallite, della finanza periclitante. In una parola: del futuro. Questi sono fenomeni che raccontano di una semplice tendenza: la disgregazione e l’isolamento. L’esito del bad equilibrium, tema narrativo della quarta stagione del blog che oggi si conclude, è tutto qui.

In gioco ormai è il destino stesso della globalizzazione, ossia l’idea che il contesto istituzionale odierno favorisca l’integrazione internazionale dei mercati e per loro tramite delle nostre società. Questa narrazione è stata declinata con un lessico tipicamente sociologico, che ha impedito di cogliere la natura più autentica del fenomeno.

E’ passato il messaggio che la globalizzazione sia solo un fenomeno economico che ha ricadute sociali e politiche. Ma non è così, o almeno non solo. La globalizzazione obbedisce a una pulsione assai più profonda. Per comprenderla non serve la lingua della socio-economia ma quella della fisica. Paradossalmente l’economia contemporanea, che vuole così disperatamente somigliare alla fisica per sentirsi scienza, ha evitato accuratamente di servirsene.

Un concetto, in particolare, descrive assai meglio di altri la sostanza del nostro mondo: l’entanglement. Le relazioni fra le entità socioeconomiche, proprio come accade con le particelle, si sovrappongono implicando correlazioni a distanza illimitate tra le loro quantità fisiche. Il limite estremo di questa rappresentazione è la teoria del caos, che determina il carattere non locale, ma appunto globale, degli eventi che noi percepiamo. Questi ultimi sono rappresentazioni che il nostro intelletto ordina secondo il principio di causalità proprio per renderceli intellegibili, e quindi potenzialmente manipolabili. In tal modo a una realtà sostanziale caotica si sovrappone una verità ordinata secondo la nostra logica, proprio come la pellicola di un film ne rappresenta l’ordito senza però essere il film. E’ solo lo strumento che noi costruiamo e tramite il quale percepiamo il film. In tal senso la globalizzazione è stata la rappresentazione filmica contemporanea dell’entanglement. Ma questo non vuol dire che sia l’unica possibile.

Oggi il bad equilibrium, generando crisi, sta lacerando questa pellicola e messo perciò in discussione il film della globalizzazione, che le società e gli individui iniziano a percepire come un’evoluzione nociva di cui liberarsi, come se isolandosi possano proteggersene. Ma tale illusione, che abbiamo vissuto non più tardi di ottant’anni fa, è perniciosa. Trascura la profondità subatomica dell’entanglement sociale. E’ vero che le relazioni degli individui e delle società sono soggette a rotture traumatiche. Ma questo non vuol dire che a tale rottura corrisponda una separazione autentica. Nessun uomo è un’isola, come scriveva John Donne nel 1624, e tantomeno una società.

Le forze dell’entanglement, una volta dissolta una cornice istituzionale – come nel caso della globalizzazione economica appunto – troveranno altre vie per esprimere la loro potenza. Negli anni Trenta al tentativo autarchico, che stracciò il tessuto delle relazioni economiche fra gli stati, seguì molto presto il conflitto globale. L’entanglement riannodò la società mondiale sotto l’egida delle armi. Ciò in quanto le società evolute sono destinate ad essere interconnesse, per un canale o per un altro. Nessuno può sapere quale sarà il prossimo film che ci racconterà la realtà, ma tutti dovremmo ricordare che verrà proiettato e introiettato dentro ognuno di noi. L’illusione del disentanglement prepara un nuovo ordine istituzionale globale: una nuova manifestazione dell’entanglement.

Si potrebbe discorrere a lungo se l’alba alla quale stiamo assistendo, e che occuperà la quinta stagione del blog da metà settembre in poi, sia l’effetto del bad equilibrium, o semplicemente il suo proseguimento. Ma così facendo ricadremmo nella trappola della causalità, che così tanto ha nuociuto alla nostra intelligenza dei fatti. Sicché l’unico strumento che possiamo utilizzare per raccontare questa evoluzione, pur riconoscendone i limiti – sempre in omaggio a un altro concetto della fisica, ossia il principio di indeterminatezza – è quello dell’osservazione, ricordando però l’insegnamento di Goethe. Non ci proponiamo di perseguire l’esattezza della matematica che, come scriveva nel 1917 Osvald Spengler nel suo Tramonto dell’Occidente, disegna solo forme morte, ossia il contrario di un corpo sociale, ma quella dell’immaginazione: un’immaginazione esatta.

La metafora, l’analogia, l’allegoria, il simbolo: strumenti di conoscenza che rimangono gli unici espedienti linguistici utili a raccontare la realtà e di conseguenza i principali protagonisti della nostra narrazione. Chi conosce la letteratura economica sa bene quanto estensivamente faccia uso di parabole per spiegarsi. Per cui non stupitevi se questo blog continuerà a utilizzarle. Le cronache, che sono meri epifenomeni, saranno come sempre la nostra guida: spie sintomatiche di linee di faglia. Ma dobbiamo discorrere del sostrato spirituale dei fatti economici, pure a costo di risultare fuori tema. E si comincia ricordando che qualunque costruzione matematica – nella quale oggi in fondo si risolve il nostro ragionare economico – implica una visione del mondo, e altresì la stessa scelta della matematica come ingrediente dei nostri ragionamenti. Perciò rompere lo specchio narcisistico nel quale si rispecchia il nostro intelletto quando guarda ai fatti socioeconomici dovrebbe essere lo scopo dell’economista, che però è a sua volta imprigionato in ciò che gli hanno insegnato a pensare, e perciò cieco.

Tale rottura, quindi, arriverà da altrove. Se sarà la violenza bruta dell’illusorio disentanglement a condurre a questa liberazione, o la pazienza illuminata dei più saggi, lo dirà soltanto il tempo. Noi possiamo solo testimoniarlo.

Bon Voyage.

 

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