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sbilanciamoci

Pokémon Go, verso l’algoritmo definitivo

Lelio Demichelis

Pokémon Go è anche una nuova modalità del vecchio panem et circenses usato dal potere tecno-capitalista per governare le masse oggi individualizzate

Pokémon Go. Qualcuno – Stefano Bartezzaghi – ha usato l’ironia e giocato (facile per lui) con le parole: un bel gioco dura Pokémon. Altri – Marino Niola, ad esempio – hanno richiamato, ma andando oltre, l’ormai classica distinzione tra apocalittici e integrati o tra iper-critici e iper-ludici della rete. Una distinzione manichea, quest’ultima che impedisce – nella contrapposizione sportiva o meglio schmittiana tra amici e nemici o tra in e out – la comprensione analitica e razionale di una tecnica sempre più pervasiva e soprattutto invasiva, ma anche sempre più ambiente di vita virtuale che ci fa perdere la realtà della realtà, producendo una realtà aumentata (in rete) ma sempre più diminuita (nella realtà-realtà – che è un altro modo per impedirci di provare a cambiare questa realtà). Tecnica verso la quale servirebbe un vero pensiero critico – le cui voci stanno crescendo, ma non bastano ancora – e non l’abbandonarsi ai suoi giochi infantili. Perché Pokémom Go è un gioco infantile e infantilizzante che serve solo – ricordando il Grande Inquisitore di Dostoevskij e la sua filosofia del potere nei confronti del popolo: noi li faremo lavorare ma noi organizzeremo per loro anche giochi infantili e cori di bimbi – a rafforzare il (bio)potere di tecnica e capitalismo.

Pokémon Go, dunque: cos’è e come va interpretato? Risposte differenti.

Come grande e innocente caccia al tesoro, di massa ma virtuale; come momento/bisogno collettivo di distrazione di fronte a una realtà che non si comprende più e che piace sempre meno (la grande stagnazione, il terrorismo, le disuguaglianze che crescono); o come autentica ludopatia. Ma anche e soprattutto come una pedagogia per accettare il dogma capitalistico del dover essere connessi e del dovere di adattarsi alla realtà, fuggendo in una piacevole e molto divertente realtà oltre la realtà. Pokémon Go è anche una nuova modalità del vecchio panem et circenses usato dal potere tecno-capitalista per governare (governamentalizzare, direbbe Foucault) le masse oggi individualizzate (ma sempre massa sono). Così com’è una nuova versione, appunto 2.0 della vecchia industria culturale di Adorno e Horkheimer. O forma disciplinare e insieme biopolitica della modernità secondo (ancora) Michel Foucault. Certo è che dobbiamo ragionare sul potere del divertimento, non quello creato da noi umani per giocare e divertirci – il gioco è parte ineliminabile, per fortuna, della vita – ma quello creato appunto dal potere (ancora Dostoevskij) per noi; perché il potere (il Potere, pasolinianamente) sa che il divertimento (lo scriveva il filosofo Günther Anders) è potente e il divertimento – da sempre, ma oggi tutto è più facile grazie ai mezzi di comunicazione di massa individualizzata – è l’arte di tendenza del potere, perché ci disarma totalmente e noi ci abbandoniamo al divertimento senza precauzioni, ci consegniamo a esso senza difese e incomparabilmente più incauti e indifesi che nei confronti di ogni altro terrore. Giustamente. il mercato dei videogiochi vale oggi 100 miliardi di dollari, con una previsione di 120 miliardi nel 2019.

Forse, chi ha meglio compreso questa ennesima fuga verso l’eteronomia tecnologica di massa è stato il regista Oliver Stone: Pokémon Go, ha detto, «è un fenomeno di idiozia collettiva che alza il livello di invasione della propria privacy ad altezze tali che sfiorano il totalitarismo. Pokémon Go emerge dalla cultura della sorveglianza e apre le porte al capitalismo del controllo. E tutti a correre appresso ai Pokémon, senza capire cosa sta succedendo». Appunto – perché non far capire cosa sta succedendo è un’altra modalità normalissima di esercizio del Potere, soprattutto nella sua forma moderna e biopolitica.

Qualcuno ha provato a richiamarci alla realtà reale: i bambini siriani. Con i disegni dei Pokémon in mano hanno chiesto di essere catturati loro (e quindi salvati) al posto dei mostriciattoli giapponesi. Le loro foto sono state pubblicate su Twitter dall’organo di comunicazione e informazione delle diverse opposizioni al governo di Bashar-al-Assad. Già, perché mentre il videogioco ha conquistato la rete e milioni di persone – e già si favoleggia di nuovi business per le imprese – in Siria continua un conflitto promosso e sostenuto anche dall’Europa e dagli Usa, che negli ultimi cinque anni ha provocato la morte di 470mila persone. Ma questa è una realtà reale che appunto non ci piace, anche se ne abbiamo colpa, e preferiamo nasconderla sotto il tappeto della realtà aumentata.

Senza capire cosa sta succedendo, ha detto Oliver Stone. Noi sempre più funzionando (e divertendoci) – aggiungiamo – come richiesto dall’apparato tecnico e capitalista. Dal suo essere ormai diventato (noi illusi che la tecnica – e il suo accrescimento infinito, e anche la realtà aumentata concorre a questa logica dell’accrescimento infinito e illimitato della tecnica, oltre che del profitto – sia ancora un mezzo e non il nostro fine) un vero e proprio sistema autopoietico. Perché tali sono appunto quei sistemi che funzionano producendo essi stessi (organizzando e auto-organizzandosi) le norme e le forme di funzionamento e di organizzazione, che incessantemente si autoriproducono riproducendo il sistema.

Senza capire cosa sta succedendo. E cosa ci sta succedendo. Perché il Potere a cui ci stiamo assoggettando inconsapevolmente ma entusiasticamente (2.0, appunto) è un biopotere, che produce biopolitiche sulla e della vita, per una vita (la nostra) integrata, connessa e sempre al lavoro nella grande fabbrica digitale: è bio-economia, ma è anche e soprattutto (come l’avevamo definita) bio-tecnica. Che governa le nostre vite, le orienta, le attiva in certe direzioni funzionali al suo funzionamento (ancora l’autopoiesi), noi di fatto fedeli (per di più entusiasti) di un tecno-capitalismo ormai diventato una religione, che mette al lavoro le vite individuali e collettive (e le diverte) secondo forme economiche di mercato (tutti imprenditori di noi stessi, tutti makers, tutti nella spettacolarizzazione e nella mercificazione di sé) e forme tecniche di connessione in rete (il dover essere connessi, altrimenti il tecno-capitalismo non funziona al meglio delle sue potenzialità).

Una lettura troppo pessimista? In realtà, nessuna tecno-fobia (stiamo scrivendo usando un pc e insieme navigando in rete), nessun tono apocalittico, ma un tentativo di usare un pensiero critico per provare a capire la realtà.

E ai tecno-entusiasti/integrati si potrebbe suggerire di leggere L’industria della felicità (appena uscito per Einaudi), del sociologo inglese William Davies, dove si spiega di come la produzione industriale di felicità (quindi eteronoma – la felicità come un prodotto/merce – ma fatta percepire e percepita come individuale e reale) sia un obiettivo bi-secolare e sempre più affinato e raffinato (usando la psicologia) del capitalismo: nel marketing emozionale per produrre, attraverso quello che sembra un semplice atto di consumo, relazioni con un brand; nel management terapeutico per mascherare l’alienazione e far collaborare ciascuno con l’impresa o con il sistema (anche qui trasformando e intensificando una mera prestazione di lavoro in una relazione di lavoro, perché collaborare è molto diverso da lavorare). E non siamo forse oggi circondati da parole e da retoriche che ci descrivono un mondo smart (smart-phone, smart-jobs, smart-cities)? Non è anche Pokémon Go un prodotto dell’industria della felicità? Nintendo ha raddoppiato in due settimane il suo valore in borsa, oltre i 40 miliardi di dollari mentre i ricavi da Pokémon Go si aggirano sui 2 milioni di dollari al giorno, solo sugli iPhone.

Ma si potrebbe suggerire anche di leggere L’Algoritmo Definitivo, dell’esperto di information and computer science, Pedro Domingos (edito da Bollati Boringhieri). Un libro agghiacciante per chi crede ancora nel libero arbitrio, nella libertà intrinseca e naturale dell’uomo, nella sua capacità/possibilità di costruire liberamente se stesso e il proprio futuro facendo un autonomo discorso sui fini della propria vita individuale e dello stare in-comune/insieme con gli altri, di uscire cioè dal suo stato di minorità smettendola di cercare sempre qualcuno che pensi per lui. Un libro dove si narra di machine learning, di algoritmi capaci di imparare da soli – sognando il Santo Graal della ricerca informatica, cioè l’Algoritmo Definitivo (scritto con le maiuscole, come Dio) – in grado di estrarre dai dati che elaborano e che noi lasciamo a disposizione del Potere, tutte le informazioni per farci fare tutto ciò che vogliamo, persino prima di averlo pensato/immaginato.

Ma questa è appunto la sublimazione dell’autopoiesi. Dell’eteronomia e della non-libertà. Della nostra minorità. Gli algoritmi sono il nuovo girello per bambini – come lo definiva Kant – dentro cui ci tiene il potere (il biopotere, la religione) di tecnica e capitalismo, impedendoci di camminare con le nostre gambe e di pensare con la nostra testa. L’Algoritmo Definitivo – nuova escatologia, nuova teleologia, nuova teologia tecnica – definisce la nostra ultima fuga dalla libertà (riprendendo Erich Fromm), verso il totalitarismo degli algoritmi. Ma anche del gioco infinito. E della nostra minorità.

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