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azioni parallele

Brevi scritti sulla fine dell’uomo

Il sobrio disincanto di Günther Anders

di Giuseppe D’Acunto

Günther Anders, Brevi scritti sulla fine dell’uomo, Asterios, Trieste 2016, ISBN: 9788893130134, pp. 112, €9,00

Va detto, innanzi tutto, che di Günther Anders (1902-1992), avevamo a disposizione, fino a questo momento, in italiano, quasi tutte le forme di scrittura da lui coltivate: dal testo filosofico al saggio di critica d’arte o letteraria, dalle riflessioni sull’attualità ai suoi diari ed epistolari. Mancavano all’appello solo i suoi apologhi. Preceduti da un libro di favole filosofiche, Lo sguardo dalla torre (2012), escono ora, in una pregiata veste editoriale e con testo originale a fronte, a cura anche questa volta di Devis Colombo, presso la casa editrice Asterios di Trieste, sotto il titolo di Brevi scritti sulla fine delluomo (pp. 104, euro 9).

Partiamo proprio dal titolo. Come segnala il curatore nella sua «Introduzione», la formula «fine dell’uomo» intende evocare tre cose. In primo luogo, funge da richiamo alla tesi esposta nell’opera teoretica più importante di Anders: Luomoèantiquato (2 voll.: 1956 e 1980). In secondo luogo, trattandosi di scritti redatti, per lo più, in età avanzata, rispecchiano uno stato d’animo in cui l’autore sente avvicinarsi sempre di più la propria morte. Infine, si allude alla minaccia di estinzione totale che incombe sull’umanità, nell’era della bomba atomica, temuta da uno che, come è noto, ha avuto uno scambio epistolare proprio con il pilota che l’ha sganciata su Hiroshima.

Il primo apologo, Il futuro rimpianto, ha come protagonista Noè, intento ad annunciare l’imminenza della catastrofe. Egli, richiamando all’urgenza di provvedere alla costruzione dell’arca, non è preso sul serio da nessuno, visto che il giorno del diluvio non arriva mai. È ovvio, così, che se la prenda con il suo Dio, della cui volontà si è limitato a farsi esecutore. Arriva anche a pensare di essere vittima di un raggiro, perché solo grazie al mancato adempimento Dio non si vede costretto a distruggere ciò che in precedenza aveva creato, regnando annoiato «su una terra ammutolita […] per tutta l’eternità» (p. 27).

Decide, pertanto, di rompere il patto di fedeltà: la salvezza della sua gente gli sta più a cuore della docile acquiescenza della sua obbedienza. Scende in strada vestito a lutto, con il capo cosparso di cenere e si produce in un nuovo annuncio, il quale, confliggendo con le consuetudini del suo popolo, «offendeva gravemente i comandamenti più sacri del suo Dio» (p. 33). Infatti, a chi degli astanti gli chiede il nome del morto che sta piangendo, egli risponde: «Davvero non lo sai? Molti mi sono morti». Molti? E chi sono? «Noi tutti siamo questi molti». E la disgrazia, quando sarebbe accaduta? «Davvero non lo sai? Domani è accaduta» (p. 41), così che dopodomani il diluvio non potrà dirsi nient’altro che un qualcosa «che è stato» (p. 43). E conclude: solo a questa condizione tutto quello che «cera prima del diluvio, sarà ciò che non è mai stato» (p. 45).

Ora, è proprio in quest’ultima frase che si condensa la “morale” contenuta nel presente apologo: solo se la catastrofe è consegnata ad un passato che si è compiuto in modo assoluto, l’uomo può liberarsi dal peso opprimente di qualsiasi fatalità, disponendosi verso l’avvenire – il futuro del titolo – nel segno di un atteggiamento pienamente libero e responsabile, dove diviene finalmente capace di ammirare la bellezza di un «mondo rifondato» (p. 55).

Il testo successivo, ricollegandosi a quanto visto in quello precedente, consiste nella formulazione di un paradosso: stabilisce l’impossibilità – in un domani in cui «non ci sarà più nessuno» (p. 57) – di formulare enunciati che vertano sulla nostra esistenza. Per cui, agli occhi di coloro che verranno dopo e che non saranno mai stati, noi stessi solo così potremo definirci: «i-mai-stati» (p. 59).

Il terzo scritto inscrive il lavoro umano nello scarto che si dà fra il “già” e il “non-ancora”, nel senso che esso, in quanto si avvale di macchine, non dovrebbe assumerle per ciò che queste già sono, ma assecondarne la propensione verso «il non-ancora-esistente» (p. 61).

Segue un altro scritto che modula un nuovo paradosso: fare le pulizie significa sollevare un certo giorno proprio quella polvere che il giorno successivo sarà tolta. E così via all’infinito, con la conseguenza che la donna che se ne incarica, per eseguire il suo lavoro, deve per forza vedersi garantita l’immortalità.

Un altro apologo ha per oggetto delle pillole che un medico raccomanda di comprare alla moglie di un cardiopatico il giorno successivo alla visita. Malato che, morendo di notte, le lascia in consegna il compito di provvedere all’acquisto di esse in farmacia e di fargliele trovare ogni giorno sul comodino pronte per l’assunzione. Qui, la cifra di sobria ossessione metafisica impersonata dalla donna ci sembra consegnata alla sigla prescelta da Anders per indicare il marito: K.

Il terremoto è la metafora intorno a cui si organizzano i due testi che seguono. In uno, esso sta per la scossa che un sacerdote spera che si produca nella coscienza di un filosofo miscredente, portandolo, in punto di morte, a convertirsi. In un altro, è preso ad esempio di quegli eventi catastrofici che, nel linguaggio giornalistico, si cerca di esorcizzare, nel momento del loro incombere, usando nomi propri o vezzeggiativi.

Dicevamo, in precedenza, di come in questi scritti Anders, vista la sua età avanzata, senta avvicinarsi inesorabilmente la propria morte. Ebbene, in Ferie dal nulla, presentandosi come il testimone oculare della propria vecchiaia e della consunzione della propria carne, egli riflette sul fatto che l’uomo trarrebbe senz’altro molto vantaggio dal concepire la vita come un periodo di ferie, le quali possono essere positivamente godute, nonostante debbano necessariamente avere una fine.

Chiudono il volume cinque testi. Il primo riprende il motivo, già incontrato in precedenza, secondo cui, se in futuro non ci saremo più, allora, non ci resta che dire che «in passato non c’eravamo (ancora)» (p. 87). Il secondo fa sua la tesi seguente: «I morti disturbano meno dei morenti» (p. 89), argomentata, in qualche modo, anche nel terzo. Il punto è che solo i primi, proprio perché sono già stati, hanno guadagnato, a differenza dei secondi, la condizione – che non procura più inquietudini a nessuno – del non-essere. Nel quarto, Anders indossa un’altra maschera dopo quella di Noè: del filosofo Zenone. Il quale, da stoico, riflette sullo scandalo dello spreco di tempo, che si protrae per tutta l’eternità, che l’esser-morti inevitabilmente comporta. Nell’ultimo, Anders esprime la sua volontà di rinunciare alle pubbliche esequie, poiché esse trasformano un fatto irrevocabile, come la morte, in un oggetto di piacere, e chiede che, in quell’occasione, sia suonata una solenne marcia funebre. L’augurio è che proprio ciò che è «immotivatamente solenne» possa aiutarci a «credere che esista qualcosa di veramente serio» (p. 101).

Conclusivamente, non possiamo che consigliare questo libro alla lettura, soprattutto per la lezione di scanzonato pessimismo e di sobrio disincanto che ci viene da esso.

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