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sollevazione2

Olimpiadi postmoderne

di Tonguessy

«Tutto è merce e tutto deve circolare per mantenere in vita il sistema, atleti inclusi. La nazionalità serve solo a fissare dei criteri per la “libera concorrenza” (altro dogma del capitalismo postmoderno), prodromo della corsa ai diritti civili»

Libera circolazione di merci, capitali e uomini. Uomini come merci. Uomini che danno spettacolo (Debord annuisce) e che fanno vendere le riprese televisive in qualità di merci. La sola RAI, per le olimpiadi da poco concluse, ha speso 65 milioni di euro in diritti. Vi lascio immaginare il totale a livello planetario.

Parafrasando de Coubertin si potrebbe dire che l'importante non è vincere, è vendere diritti. Il che è una bella commistione di virtualità e realtà. Simulacri, li chiamerebbe Baudrillard. Sui simulacri si fonda praticamente tutto il commercio postmoderno: le merci sono passate da oggetti reali, dotati di corpo fisico, ad oggetti virtuali dalla consistenza impalpabile. La transustazione delle merci, insomma.

Appare oggi ridicolo qualsiasi tentativo di dare dei connotati nazionali a questo mercimonio legato allo sport. La competizione non si svolge più tra appartenenti a luoghi geografici distinti ma, grazie all'intervento della globalizzazione, opera al suo esterno. Si fa credere che il tal sportivo o la tal squadra appartengano ad un certo luogo quando nessun luogo è ormai definito e definibile, se non per forzate quanto desuete specifiche.

Oggi tutto si muove all'interno del ou-topos, il non-luogo, dove l'intromissione della proclitica “ou” spoglia il luogo-topos di ogni connotato realistico. [1]

L'utopia è l'orizzonte che la macchina del capitale è riuscito a sdoganare dal limbo delle località indefinibili perché irreali. Siccome oggi nulla è più definibile (pena la lacerazione dei dogmi fondanti la nuova liturgia), ecco che ciò che era indefinibile per definizione diventa improvvisamente una realtà comunemente accettata in quanto ormai considerata tangibile.

Credo che qualche esempio valga più di cento ragionamenti. Semifinali di pugilato superleggeri 64kg maschile: Artem Harutyunyan contro Lorenzo Sotomayor Collazo. Il primo nato ad Erevan (Armenia) e a L'Avana (Cuba) il secondo. Quindi Armenia contro Cuba? Ma non scherziamo! Germania contro Azerbaigian. Dopo lo jus soli, lo jus sporti. Prendi il frutto di una rinomata scuola di boxe (quella cubana o armena) e gli dai una nuova nazionalità, rinvigorendo il concetto secondo cui la globalizzazione porta in giro solo il meglio. Cioè una cultura locale sfodera dei fenomeni e tu li vendi sul mercato. Uno se lo compra la Germania, l'altro l'Azerbaigian. Assieme alla fuga dei cervelli si assiste anche alla fuga dei muscoli. L'Italia non può che seguire questi flusso di simulacri di nazionalità. Se parliamo di Armenia non possiamo non citare i fratelli Petrosyan, campioni di Thai boxe. Napolitano, in un momento di enfasi patriottico-sportiva, ha concesso a Giorgio la nazionalità italiana per evidenti meriti sportivi. Storia analoga per Brunet Fernandez Zamora nato a L'Avana, n°3 della World Boxing Association e due volte campione Italiano.

Cambiamo sport? No problem... la nazionale pallavolo italiana non avrebbe avuto la brillante storia che le è propria senza Julio Velasco, l'allenatore argentino che negli anni '90 porta l'Italia ai vertici internazionali, poi sostituito da Paulo Roberto de Freitas, brasiliano. E che dire di Oleg Antonov, Ivan Zaytsev o Osmany Juantorena, attualmente titolari della nazionale?

In tutto questo cosa c'entrerebbe il tifo nazionale per persone di tutt'altra origine? Sicuramente il gesto atletico merita giusta attenzione e valutazione, indipendentemente dalla divisa indossata. Il problema è che a giudicare dal tifo sembra sia la divisa a fare le olimpiadi, non lo sportivo. Quest'ultimo si adatta alle circostanze, mostrando come le propria abilità possano essere al servizio della bandiera di turno, indipendentemente dai luoghi natali. Harutyunyan contro Collazo significa Germania contro Azerbaigian. Di Cuba o Armenia non è neanche il caso di parlarne: luoghi che hanno dato alla luce degli sportivi di prim'ordine, ma destinati a svanire tra le nebbie postmoderne del non-luogo, dell'utopia (ou-topos) sostanziale. Il luogo è diventato ormai una concezione puramente formale, e anche lo sport ci conferma questa tesi. Siamo tutti sradicati. Per principio. Fuga dei cervelli o dei muscoli con cittadinanze onorarie: l'importante è fa crescere la fiducia nella globalizzazione a cui il capitale ci sta chiedendo di offrire il nostro Sé. Alla fine vincono sempre i migliori, cioè i soldi.

E la Societè du Spectacle è un oggetto costoso, i cui costi di manutenzione e aggiornamento vanno equamente suddivisi. Cioè ognuno deve accollarsene una parte, in modo eguale. Questa è l'unica forma di uguaglianza ormai rimasta: per tutto il resto vale sempre la vecchia forma di premialità in base alla fascia che si occupa nella piramide sociale.

L'importante è partecipare, si diceva.

La bandiera, gli inni nazionali, le divise...tutti simulacri di qualcosa che una volta si chiamava nazionalità e che oggi deve cedere il passo alla globalizzazione, ovvero alla libera circolazione.

Tutto è merce e tutto deve circolare per mantenere in vita il sistema, atleti inclusi. La nazionalità serve solo a fissare dei criteri per la “libera concorrenza” (altro dogma del capitalismo postmoderno), prodromo della corsa ai diritti civili. Vorremmo forse negare al cubano, armeno o senegalese di turno la possibilità di acquisire una nazionalità diversa quando “se lo merita” (ovvero quando è massimamente funzionale al sistema)? Il postcolonialismo non ha nessun colore particolare, non vuole una identità definita e definibile, nel nome dell'utopia che estrae corpi e tradizioni per spalmarle lì dove conviene. Il non-luogo per eccellenza è la non-nazione. E lo sport (differentemente dalla scienza, ad esempio) sembra ancora soffrire terribilmente di questa schizofrenia, senza peraltro rendersene conto. Significativi quindi gli inni nazionali cantati da persone di tutt'altra provenienza geografica, raggruppati per convenienza sotto bandiere che non rispecchiano né la loro cultura né le loro tradizioni di origine. Immigrati di lusso che si muovono in business class invece che a bordo di barconi fatiscenti e per cui il centro di accoglienza è il mondo intero, ovvero il non-luogo per eccellenza. Improvvisamente passaporti e permessi di soggiorno appartengono ad ontologie tipicamente postcoloniali. Non deve stupire se negli ultimi decenni la pelle del francese medio è virata verso il marroncino: frutto della legge Lamine Guèye che nel dopoguerra conferiva la cittadinanza francese agli abitanti delle ex colonie con l'intento di “sopprimere l'indigenato”. [2]

Lamine Guèye è anche il nome del nipote dell'estensore di quella legge del 1946: nato a Dakar nel 1960 è un ex-sciatore alpino senegalese nonchè presidente della federazione sciistica del proprio Paese, da lui stesso fondata nel 1979. [3]

Qualcuno si ricorda la squadra di bob giamaicana? Perchè negare il piacere della pista da bob alla Giamaica o l'ebbrezza dello sci alpino al Senegal?

L'ontologia utopica risponde a queste domande con delle certezze. Apoteosi della Res Cogitans contro la Res Extensa. Maledetto Cartesio.

A Sri Lanka ho conosciuto un pescatore che mi chiedeva con sentita curiosità come fosse la neve. E ho conosciuto dei montanari che non avevano mai visto il mare. Per queste persone neve e mare sono ou-topos, non luogo. Fino alla postmodernità l'utopia era un luogo sacro perché immaginario (salvo le solite eccezioni come la rivoluzione francese o russa). Era in qualche modo il garante della inviolabilità del sogno, ovvero della potenza dell'inconscio individuale e collettivo. Tutti potevano accedervi, dato che ognuno aveva il diritto di avere visioni utopiche. Oggi di quell'ontologia cosa resta? Desacralizzata in quanto merce è ormai diventata uno strumento discriminatorio, utile solo a garantire molti benefici a sempre meno persone. Nemesi postmoderna: mentre tutto il reale si è spostato verso il virtuale, il non-luogo si è spostato verso il reale rendendoci tutti un po' orfani perché meno indigeni, meno individui radicati, meno consapevoli delle proprie tradizioni e culture.

La competizione (o competitività) in presenza di non-luoghi diventa quindi una partita truccata. Prova ne sia che la passata edizione resta un “monito perenne di come le Olimpiadi possono diventare un boomerang per i conti pubblici”: con 15 miliardi di euro Atene forse poteva assicurarsi un futuro migliore invece di trasformarsi in un non-luogo zeppo di “rovine moderne”. [4]

Al confronto della televisione omologante denunciata da Pasolini, la filosofia e la prassi globalista del non-luogo sta facendo danni immensamente maggiori e di una profondità inaudita. Non si tratta di “spianare” delle differenze che gli italiani si trascinano dall'epoca dei Comuni: questa nuova liturgia mercantile sta asfaltando intere nazioni destinate a sventolare dei vuoti vessilli sotto cui cantano i relativi inni nazionali (sempre meno convincenti) stonati cori di persone di qualsiasi provenienza.

Viva l'Italia, ci mancherebbe!


Note
[1]http://www.lefrivista.it/lef/categorie/approfondimenti/alienazioni-e-disalienazioni/item/41-tra-ou-topos-ed-eu-topos
[2] B. Droz “Storia della decolonizzazione nel XX secolo” pg. 68
[3]https://it.wikipedia.org/wiki/Lamine_Gu%C3%A8ye
[4]http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-02-14/olimpiadi-grecia-2004-furono-132654.shtml?uuid=AaovUirE&refresh_ce=1

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