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marx xxi

L’assoluzione (postuma) di Milosevic e la dissoluzione della Yugoslavia

di Giuliano Cappellini

Riceviamo dal compagno Giuliano Cappellini e pubblichiamo come contributo alla discussione 

A quasi vent’anni di distanza, la Corte Penale Internazionale per l'ex Yugoslavia ha scagionato Slobodan Milosevic dalle responsabilità che gli erano state imputate. Il casus belli non sussisteva, come si può evincere anche dal libro del procuratore capo di quel tribunale, il giudice svizzero Carla del Ponte (che ipocritamente si lamenta che non sapeva). Intanto Milosevic, malato di cuore e  privato delle necessarie cure mediche è, da tempo, morto in carcere. La sua morte ha tolto dall’imbarazzo i veri responsabili di quella guerra: i capi dei governi occidentali dell’epoca. Costoro, che godono dell’impunità che i vincitori si concedono, non sono stati deferiti a quel tribunale ma ciò non li sottrae al giudizio della Storia. Tuttavia ancor ora, praticamente inesistente nei media di regime l’informazione sul pronunciamento della Corte Penale Internazionale, i sostenitori del PD continuano a credere fermamente al racconto di comodo confezionato dalle centrali della disinformazione occidentale. 

Come è noto il governo italiano partecipò alla guerra di aggressione nei Balcani. Prima concesse l’uso delle basi Nato ed USA (pacta sunt servanda, si disse), poi intervenne direttamente nella guerra di aggressione contro la Repubblica Serba con l’aviazione e i reparti speciali dell’esercito. Lo stato di guerra non fu, però, deliberato dal Palamento (come previsto dall’articolo 78 della Costituzione) e, in questo modo, il governo trovò il modo di fare la guerra senza dichiararla, addirittura senza darne conto all’opinione pubblica. Si costituiva, anche, il precedente di sottrarre decisivi poteri costituzionali al Parlamento. C’era già aria di regime. Tutti gli organi di informazione pubblica furono mobilitati. La stampa e la TV si accanirono a raccontare le nefandezze di Milosevic e della Serbia, rei di pulizie etniche infami. Presso l’opinione pubblica si creò il casus belli (umanitario) per evitare il costo politico del passaggio parlamentare e ciò fu ritenuto sufficiente per fare la guerra. 

Ma mette conto ricordare le concitate fasi che precedettero quegli eventi in Italia. Fu fatto cadere il primo governo Prodi che sembrava indeciso sul coinvolgimento dell’Italia in un’operazione bellica che non aveva l’avvallo dell’ONU. Forse lo statista aveva compreso che dalla frantumazione  di quel paese l’Italia avrebbe solo perso peso politico e dignità internazionale. Forse Prodi era solo prudente. Fatto sta che il suo governo fu fatto cadere da Bertinotti e dal PRC e questo “delitto” è  l’unico evento che gli attuali seguaci di Matteo Renzi ricordano di questi ultimi 30 anni di storia [1]. Gli succedette il governo D’Alema (presidente del Consiglio e Scognamiglio UDEUR [2], ministro della difesa) i cui obiettivi in politica estera erano chiarissimi: far riconoscere a livello internazionale che l’Italia era diventato un paese “normale” (questo era lo slogan di D’Alema) e che anche esponenti ex-comunisti potevano guidare il governo di un paese Nato. Bisognava conquistare la fiducia di Clinton e degli altri alleati: la politica estera della coalizione di governo guidata dal suo partito si sarebbe allineata a quella della nuova fase adottata dal blocco occidentale che si definiva vincitore della Guerra Fredda. L’occasione della presenza della marina americana nell’Adriatico, era ghiotta e non si doveva perdere tempo. La partecipazione attiva alla guerra dell’Italia, avrebbe, anche, convinto tutti che non avrebbe avuto ripercussioni sulla stabilità del governo perché  la “sinistra” non era necessariamente “pacifista”. 

Le cronache politiche odierne registrano un crescendo di reciproche accuse tra Renzi e D’Alema che ormai si rinfacciano tutto. Nella contesa –  D’Alema è il principale oppositore di Renzi nel PD ed è  schierato col NO al referendum costituzionale – la figura di Prodi ritorna ad essere centrale. I due si rinfacciano la responsabilità di averlo, in vari momenti, tradito. 

Nel 1998, Renzi aveva 23 anni, proveniva dalla DC, dal Partito Popolare, dalla Margherita ed era animatore dei Comitati Prodi. Posso presumere che fosse politicamente legato alla figura di Prodi e che da dentro l’Ulivo abbia vissuto la sua defenestrazione come un insulto alla classe politica proveniente dalla DC e convergente nel centro sinistra con l’ex PCI. L’antipatia di Renzi verso D’Alema potrebbe avere origini lontane. Ma rimestare tra le beghe di partito, le lotte personali acuite dalla “rottamazione” renziana della vecchia classe dirigente del PD, dalla spregiudicata ricerca di Renzi di sponde ovunque, anche tra la destra berlusconiana e fascista, che ha logorato i legami del partito con la sua base sociale di riferimento, non ci porta molto lontano. E, comunque, certe coerenze, certi legami, si sono sciolti nell’acido del tatticismo referente a ben altre contingenze politiche, tant’è che anni dopo, quando se ne presentò l’occasione, Renzi lasciò cadere la candidatura di Prodi a Presidente della Repubblica. Ma per cercare di capire fruttuosamente quegli eventi bisogna abbandonare la pista delle contrapposizioni personali e  cercare di “contestualizzare” la vicenda nel più vasto ambito politico di quel momento. 

Dunque 1998. L’Unione Sovietica era caduta da pochi anni, il Patto di Varsavia era stato sciolto nel 1991. Europa e Stati Uniti avevano deciso di cogliere ogni vantaggio strategico da quegli eventi. Sostenuta da camion pieni di armi e di marchi si sostenne la guerra civile che lacerava la Yugoslavia, un prospero pese adriatico, vicino all’Italia. A partire da eventi creati da classi dirigenti europee più che sentimentalmente legate al nazismo ed al fascismo, desiderose di una revanche sugli slavi e decise a ridiscutere gli equilibri europei nati della II Guerra Mondiale, e dalla partecipazione alla guerra contro la Serbia l’Italia non ebbe più governi progressisti. Il PD, comunque si chiamasse, abbracciando la “religione Atlantica” abbandonò ogni precauzione, ossia la regola della difesa degli interessi e della dignità nazionali. Si trovò, quindi, alla mercé dell’aggressione delle destre, costretto a chiedere i voti in nome del “meno peggio”. Sempre più condizionato dalla destra interna, divenne ancor più moderato e conservatore, finché oggi è approdato alla nuova rivoluzione copernicana del partito populista che sostiene l’attacco contro la Costituzione antifascista con le ragioni tipiche delle destre (l’antipolitica, la lotta contro le cosiddette “corporazioni” dei sindacati, giornalisti, magistratura, pensionati, lavoratori non precari). Alle sempre meno numerose feste dell’Unità, non è ammessa la presenza dei gazebo dell’ANPI. Ai dibattiti, siamo certi, parteciperanno Verdini ed i suoi sodali che si salutano col saluto fascista.

C’è da giurarlo, non passeranno altri vent’anni che verrà riabilitato anche Mu'ammar Gheddafi, ma allora, la Libia sarà probabilmente disgregata come la Yugoslavia. Un altro paese vicino e amico dell’Italia sarà cancellato dalle carte politiche. Ora, in presenza di un nuovo intervento militare a guida statunitense di diversi paesi occidentali in Libia, si confeziona il nuovo casus belli per spingere l’Italia a parteciparvi: il pericolo del terrorismo in Italia ed in Europa nascosto nei barconi dei disperati che attraversano il Mediterraneo! I giornali della grande borghesia soffiano sul fuoco a pieni polmoni, chiedono che ci si muova, che si superino le incertezze: Annibale è alle porte! A che conta in questi casi una discussione parlamentare? C’è il precedente della Yugoslavia e quello dell’aggressione alla Libia di cinque anni fa – sette mesi di bombardamenti quotidiani senza che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, abbia sentito il dovere di dichiarare quello stato di guerra formale contro un paese riconosciuto dall’ONU. Messo su dalla Nato, c’è il governo fantoccio di Tripoli che chiede l’intervento militare dell’Italia e ciò è sufficiente. D’altronde non sono le riforme costituzionali e la legge elettorale partorite da Renzi a dichiarare la fine del regime parlamentare, convergendo tutti i poteri sul capo del governo eletto in modo plebiscitario? Il Parlamento, la Costituzione … cose del passato! E l’attivista “renziano” annuisce convinto.


NOTE
1. Ciò li rassicura sulla coerenza del PD (PDS, DS, PD). La pistola fumante era quella di Bertinotti. Il movente, l’estremismo del PRC e l’eccessivo numero di partiti. Mancano solo i mandanti.
2. Partito di parlamentari usciti dal Polo e nato con l’avvallo del Presidente della Repubblica, Cossiga (Gladio), per sostenere il governo D’Alema in sostituzione di quelli del PRC.

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