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Si può definire il PD “riformista”? Cosa non è il Pd

di Aldo Giannuli

Ci sono una serie di equivoci su cui il Pd galleggia e su cui è utile spendere qualche osservazione.

Spesso mi capita di discutere con colleghi storici (più o meno vicini al partito di Renzi) che danno questa lettura dello scontro in atto: l’estrema sinistra (da Sel ai centri sociali) è  l’erede della sinistra rivoluzionaria degli anni venti o degli anni sessanta, che, al solito, taccia di tradimento la sinistra riformista rappresentata dal Pd e non si rende conto del pericolo del M5s che è una riedizione del “diciannovismo” se non proprio del fascismo. Insomma la solita storia dell’irragionevole sinistra rivoluzionaria che aggredisce la povera sinistra riformista, rea di affermare una visione realista e non ideologica della politica.

A parte la formidabile trovata del M5s come equivalente dei fascisti (per caso avete visto qualche squadra d’azione del M5s? Avete indizi di una prossima marcia su Roma?), è tutta questa chiave di lettura ad essere un po’ delirante.

Renzi come nuovo Turati o nuovo Berlinguer? Spero stiamo scherzando. Bertinotti, Vendola e Ferrero come Gramsci e Bordiga?  Superato il momento di inevitabile ilarità, approfondiamo una parola che ha caratterizzato tutta la storia del Pd e, prima ancora del Pds-Ds: riformista.

Poniamoci questo problema: il Pd si può definire riformista ed in che senso? La parola Riforma inizia a caratterizzare il dibattito religioso (e quindi politico), dai primi del cinquecento con la Riforma luterana, con un significato più prossimo a quello che noi daremmo alla parola Rifondazione. Per i “protestanti” la Riforma avrebbe dovuto riportare la Chiesa all’originaria purezza, abbattendo le incrostazioni teologiche e  gerarchiche sorte nei secoli successivi al primo cristianesimo. Dunque, al di là del forte richiamo al mito originario, era una proposta assai radicale che, infatti, assunse i toni della guerra di religione. Ma, non facciamola tanto lunga e veniamo al XIX secolo in cui si è formata l’attuale nomenclatura politica che distingue fra rivoluzionari, riformisti, moderati, conservatori, reazionari.

I rivoluzionari erano quelli che auspicavano l’abbattimento dell’ordine sociale esistente attraverso un atto violento e l’edificazione di un nuovo sistema sociale e politico.

I riformisti (essenzialmente i socialdemocratici dopo la sconfitta della Comune) ebbero lo stesso fine di edificare un diverso ordine socio-politico, ma attraverso modalità tendenzialmente legali, come la conquista del potere attraverso le elezioni e conseguenti riforme che, con i tempi dovuti, avrebbero dovuto portare al nuovo sistema sociale. La moderazione dei riformisti non era nei modi e nelle forme dell’azione non nei fini che restavano gli stessi.

Particolare è il caso del Pci negli anni settanta, quando, già da tempo non più rivoluzionario, ma non potendo accettare la (allora) malfamata definizione di riformista, adattò a sé il termine di “riformatore”, sperando che significasse altra cosa.

I moderati (ad esempio liberali come Giolitti o democratici come Amendola o, più tardi, Moro o La Malfa) puntavano a riforme, ma non per sostituire l’ordine sociale esistente, quanto per ottenere effetti perequativi o modernizzanti interni al sistema. In qualche modo, i moderati rappresentavano una sorta di ponte fra riformisti e sistema politico.

Dichiaratamente opposti a riformisti e rivoluzionari erano i conservatori che, come suggerisce la stessa etimologia, mirano a “conservare” l’ordine esistente facendo meno concessioni possibili alla pressione sociale.

I reazionari furono quanti, dopo la caduta di Napoleone, inseguirono il sogno di una restaurazione dell’ancien regime.

Ovviamente, ci sono state anche molte sfumature intermedie e spostamenti di correnti su cui qui sorvoliamo. Man mano c’è stato una sorta di slittamento semantico per cui le parole hanno subito una “riduzione” di significato. Quasi più nessuno si autodefinisce rivoluzionario o reazionario (le due punte estreme dello spettro semantico appena descritto). Anche la parola conservatore, quando non sia il nome ufficiale di un partito come quello inglese, è usata sempre più malvolentieri: sembra un corrispondente di “passatista”, “misoneista”. “retrogrado” e difficilmente un partito sceglierebbe una simile definizione.

Meno ostilità raccoglie il termine “moderato” che, però appare politicamente poco incisivo e suggerisce identità indefinite, poco coraggiose. L’idea che se ne ricava è quella di un’area politica lenta ad adattarsi ai mutamenti. Alcuni usano questo termine ma spesso per sottintendere un “estremismo” dei propri avversari e, comunque, spesso in associazione ad altre definizioni (ad esempio, l’area berlusconiana alterna la definizione di “polo dei moderati” a quello di “centro destra”). Ma anche questi “moderati” non  disdegnano il termine Riformista.

Ormai in Europa, l’area che si riconosce nel riformismo include quasi tutte le forze politiche interne al sistema, dai socialisti ai liberali, dai verdi ai democristiani.

E qui veniamo alla depauperazione di senso della parola. Il riformismo, nella sua definizione etimologica implica l’idea di una trasformazione dell’ordine sociale e politico in qualche precisa direzione, poco importa se molto o poco lontana dall’esistente, ed il termine riceve significato dall’aggettivo che segue: riformismo socialista, cattolico sociale, liberale ecc.

Vice versa, privato della sua coloritura politica, il riformismo si riduce al semplice “fare leggi” che è quello che normalmente un Parlamento fa e tutti diventano “riformisti” da Fratelli d’Italia al M5s.

Per definirsi “riformisti” ci sono due requisiti irrinunciabili: mantenere una certa alterità rispetto all’ordine sociale esistente e qualificare il proprio progetto denominandolo in modo specificativo. Il riformismo non prescinde  affatto da una visione ideologica: Turati, Berlinguer, Togliatti, Nenni, Don Sturzo, Moro, Kautsky o Bernstein avevano una loro precisa ideologia di riferimento, anche se poi questo non implica necessariamente un atteggiamento poco realistico, come dimostra il caso di molti dei personaggi appena citati. D’altro canto anche il neo liberismo è una ideologia.

Ed è sulla critica dell’esistente che si fonda l’alterità che caratterizza una forza realmente riformista.

Ciò premesso, si può definire riformista il Pd? E in che senso? Il Pd, peraltro privo di una qualsiasi cultura politica che non sia la piatta gestione dell’esistente, è totalmente interno all’ordine neo liberista e lo dichiara esplicitamente. Tutte le compatibilità del sistema neo liberista (dalle regole di Marrakech, all’esistenza dell’Euro, dai limiti imposti dalla Bce ai condizionamenti della Nato) sono esplicitamente ed orgogliosamente tenute ferme dal Pd e non cogliamo critica alcuna all’ordine neo liberista da parte del Pd, neppure della sua sbiadita “sinistra” interna.  Dunque, la definizione più esatta sarebbe quella di partito conservatore neo liberista.

E questo fa giustizia anche della definizione di sinistra: se la sinistra ha come suoi valori fondanti quelli di libertà ed eguaglianza, non può esistere una sinistra neo liberista, perché il neo liberismo è esplicitamente antiegualitario ed implicitamente autoritario.

Neppure si adatta il termine moderato perché le riforme del Pd (da quella della scuola al job act alla riforma costituzionali) non sono affatto indirizzate a “moderare” i rigori  ideologici ma semmai a concretizzarli.

Dunque, partito di destra, conservatore e di ispirazione antidemocratica (ma su questo torneremo) e, di conseguenza, nemico da combattere e non possibile alleato.

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