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 la citta futura

Crisi di capitale e tempo di lavoro Smart Work

di Carla Filosa

Il lavoratore smart diventerà il migliore sfruttatore di sé stesso

Il Nuovo Ordine Mondiale negli Usa degli anni ’70, a guida Kissinger, aveva già determinato un nuovo ordine del lavoro. Il dispotismo del capitale (occultato dietro la finzione della società universalistica) sull’organizzazione del processo sociale di produzione e di lavoro necessitava di una stabilità certa, attuabile mediante riforme istituzionali funzionali alla cancellazione dell’antagonismo reale di classe tra capitale e lavoro. Si intendeva in tal modo rendere obsoleta, e quindi impraticabile, la conflittualità tra gli interessi della produzione e riproduzione del capitale e quelli della sopravvivenza subalterna della forza lavoro. Quest’ultima si sarebbe definitivamente trovata imbrigliata da un rinnovato “ordine” neocorporativo, presumibilmente al riparo dalla minaccia di un’accumulazione mondiale in calo progressivo. Di fronte alla crisi ineluttabile e ciclica del sistema, la lotta di classe apparve per il momento vinta dalla classe borghese, essendo prioritario e dominante il conflitto tra capitale finanziario, speculativo (“fratello nemico”), e quello industriale. Prendeva così l’avvio il processo di deindustrializzazione di alcuni paesi – tra cui l’Italia – e di mobilità e flessibilizzazione della forza-lavoro, contemporaneamente all’istituzionalizzazione e cioè neutralizzazione dei sindacati riconosciuti, con la marginalizzazione di quelli più radicali e combattivi.

Di fronte alla crisi irrisolta di capitale, il tentativo di accaparrare il minor plusvalore prodotto passa sempre attraverso il controllo sulla scienza (tecnologia) e sul comando politico, quale estensione sociale e mediata di quello strutturale sul lavoro da rendere così più efficiente, e continuamente rinnovabile. Per giungere ai nostri giorni, dopo questa inevitabile cornice in cui si colloca la parvente riorganizzazione del lavoro di quello che ultimamente viene chiamato “smart work” o “lavoro agile”, è inevitabile ancora fare i conti con le reali ristrutturazioni che la precedono, denominate come taylorismo (1911) e ohnismo (o toyotismo, o “qualità totale”, o “produzione snella”) (1952-‘74). Illuminante è il confronto con lo “Spirito Toyota” (1993) che vantava la fabbrica a 6 zeri: zero scorte [sia in termini di capitale costante (materie prime, macchinari, ecc.) che variabile (lavoratori salariati come costi)], zero difetti, zero tempi morti, zero tempo di attesa, zero burocrazia, zero conflitto. I cardini di siffatto spirito erano: flessibilità, (intensificazione e condensazione lavorativa), compatibilità (aumento della giornatalavorativa), pieno controllo sul sindacato (il sindacato cogestisce una negoziazione moderata, interna ai fini produttivi stabiliti dalla concentrazione capitalistica, con riconoscimento istituzionale). Mutare le regole aveva per scopo rendere irriconoscibili le forme mutanti adeguate alla fase, ovvero l’abbassamento programmatico del salario sociale globale.

Le ultime innovazioni tecnologiche a carattere informatico, che riguardano quindi anche lo “smart work”, sono invece aspecifiche per il modo di produzione capitalistico. Applicate a questo scopo, per lo più non servono per aumentare il tempo di lavoro destinato al plusvalore, ma per aumentare il comando e il controllo sui lavoratori salariati su cui è stato fatto interiorizzare un forte senso del dovere lavorativo. Il lavoratore smart diventerà il migliore sfruttatore di sé stesso, su cui pesa l’affidamento dei suoi superiori, oltre la stimabilità generale che consegue all’esecuzione perfetta del compito a lui riservato. Il “lavoro agile” è perciò, per il capitale materializzato nelle singole imprese, solo “una modalità lavorativa” finalizzata a un’aumentata necessità di risparmio – presente e futuro - sul capitale costante (parte fissa e circolante) e sul capitale variabile, anch’esso divenuto parte fissa sebbene da ridefinire continuamente.

La preparazione di una forza-lavoro così docilmente ammansita richiede anni di formazione e questo viene predisposto nelle riforme scolastiche di cui qui non è possibile dare conto. Il mantra politico del “cambiamento”, svuotato di contenuti e soprattutto privo della direzione del cambiamento stesso, ha favorito un generico affidamento all’autorità che lo propaganda. La “svolta culturale del lavoro” può così trovare, nell’assenza di capacità critiche abortite, la disponibilità a recepire qualunque incarico senza nulla più pretendere.

“Smart work” significa quindi un’ulteriore flessibilizzazione dell’organizzazione del lavoro (si lavora anche fuori azienda, il controllo è assicurato dalla tecnologia digitale in uso), e una generale cottimizzazione (non solo all’interno dei settori economici e con l’avallo dell’intervento statale). La mediazione governativa è: a) ideologica (“cultura dell’innovazione” unita all’illusione della fine della misurazione in termini di tempo dell’attività lavorativa, ridotta a risultato); b) normativa (nuove regole); c) istituzionale (Approvazione del Consiglio dei ministri del ddl sullo “smart work”; gennaio ‘16). Un “lavoratore a progetto” (Project Worker) può lavorare in tempi non considerati convenzionali, e quand’anche in tempi misurabili. “Ogni progetto può essere scomposto in microfasi e ognuna di esse può essere etichettata con parametri di tempo di esecuzione, di qualità e di costo (project management). Il lavoro del progettista può essere così misurato in termini di fasi elementari portate a termine nell’unità di tempo (settimana, mese, ecc.). Alternativamente, può essere valutato in termini di tempo facendo riferimento a un obiettivo temporale di completamento delle fasi (benchmark). (D. Laise, “La natura dell’impresa”, Milano, Egea, 2015).

Si considera cioè il lavoro come attività umana in generale, cancellandone la funzione capitalistica di lavoro salariato. L’innovazione è almeno di due secoli fa. Il lavoro si solidifica in “pezzi” di cui non si sospetta neppure la quota gratuita. Per questo vengono offerti incentivi alle imprese come per il Jobs Act di cui è parte.

Il Trattamento economico dovrebbe essere “non inferiore” a quello percepito dai lavoratori, con le stesse mansioni, all’interno dell’azienda. Incentivi di carattere fiscale e contributivo (premi) sono applicati anche ai lavoratori “agili”. Le nuove Regole stabiliscono che l’accordo deve essere stipulato per scritto. Va individuato un tempo di riposo per il lavoratore. Il contratto può essere a termine o a tempo determinato; l’eventuale recesso è avvisato con 30 gg. di anticipo. Il datore di lavoro deve fornire: “misure atte a garantire la protezione dei dati utilizzati e elaborati dal lavoratore che svolge la prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile”. Il lavoratore è tenuto a custodire gli strumenti tecnologici messi a disposizione, è responsabile della riservatezza dei dati cui ha avuto accesso. Per la Sicurezza e assicurazione: il datore di lavoro deve garantire la salute e la sicurezza del lavoratore, fornire un’informativa scritta sui rischi generali cui può incorrere. L’assicurazione è obbligatoria. Il lavoratore ha diritto alla tutela contro gli infortuni, o malattie professionali. (Cristiana Gamba, il Sole 24 ore, 29.01.’16).

Slogan imperativo del “lavoro agile” è: innovare, conciliare, competere. Produttività partecipata (non agli utili ma organizzativa, suggerimenti premiabili). Responsabilità.

La “Nuova filosofia manageriale” vorrebbe fondarsi sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta di spazi, orari, strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilità sui risultati. Non c’è tracciabilità sociale della quantità di lavoro svolto. È approntato un approccio multidisciplinare a supporto dei Decision Maker (Responsabili dei Sistemi Informativi/Cio, Responsabili delle Risorse Umane, HR Facility Manager) di organismi pubblici e privati. Dal telelavoro si passa al lavoro esterno o da remoto, (professionisti, autonomi, fornitori di servizi, ecc.), su appalto, domanda, incarico o commissione in via straordinaria. I benefici dovrebbero riversarsi su aziende, persone, ambiente, puntando sul senso di appartenenza, fiducia, empowerment, ecc.

L’osservatorio “smart work” segnala, a favore delle imprese, un aumento di “produttività” di 27 miliardi € e riduzione di costi fissi in 9 miliardi. Del Jobs Act sembra (Marta Fana e Michele Raitano su “Etica e Economia”, 25.05.’16) che, dopo gli incentivi e bonus statali del costo tra i 14 e i 22,6 miliardi di €, possa produrre solo occupazione precaria e a termine. (1° scenario) il 13% cessano entro l’l1° anno, il 17,7% entro il secondo, il 10,3 entro il 3°. (2° scenario) il 41% dei contratti trasformati a tempo indeterminato dura meno di 3 anni, oppure (3° scenario) il 20% dura 18 mesi mentre l’80% raggiunge i 36 mesi (al 37° obbligo di assunzione secondo la direttiva europea ).

Il rischio è che senza incentivi crolli l’occupazione. Nel 2016 ci sono stati più voucher per tutti: +45% nel 2016. Questo sembra essere il concreto beneficio per il lavoratore. La maggiore produttività lavorativa (35-40%) per minori perdite di tempo o distrazioni, determina anche minori costi complessivi (27 mrd €) e costi fissi (10 mrd €), minor assenteismo (63%). Il tempo di lavoro e di vita si sovrappongono nella precarizzazione conciliata e nell’espulsione programmatica dal mercato del lavoro di un esercito mondiale di riserva sempre più stagnante o pauperizzato. La contraddizione reale può dar luogo al suo superamento qualitativo da questa immane quantità continuamente in aumento della disuguaglianza sociale, resa calamità.

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