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paroleecose

Roma contemporanea: la città fallita

di Francesco Pecoraro

In questi ultimi anni è stato un coro. Roma fa schifo, è ai minimi storici. Il giornalista medio, così come il cittadino medio, e come il politico medio, spacchettano il disastro praticamente in sole tre voci: Mondezza, Trasporti, Buche (MTB). Qualcuno aggiunge: Palazzinari. Altri: Mafia Capitale.

Nessuno, nemmeno chi scrive, è in grado di andare molto più in là della narrazione sul corrotto Mondo di Mezzo (siamo tutti noi?) e della percezione quotidiana di forte degrado fisico che, fin dai tempi dell’Allegoria del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti, denota cattiva gestione politica della civitas.

Ma al di là di MTB dovremmo tutti ricordare che, a partire dal Secondo Dopoguerra, Roma soffre di mali ormai divenuti strutturali. Sono nozioni apparentemente sdate, da tutti condivise, applicate ai meccanismi storici di espansione speculativa della città, che però mai sono stati davvero indagati nel loro continuo adeguarsi ai tempi, pur continuando a produrre quella che senza mezzi termini definirei città di merda.

Avercela con Roma è facile, così come argomentare contro Roma. Tutti i libri che sono stati scritti sulla Roma contemporanea, e non solo, erano contro questa città, a partire da quella bibbia del Bravo Urbanista che è Roma moderna di Italo Insolera, dove si espone la tesi inoppugnabile che l’Urbe di oggi sia frutto, oltre che di urbanisticamente criminali (non sempre, non ovunque) interventi fascistici, anche, soprattutto, di incultura tecnica & incultura tout court, speculazione, corruzione, cattiva amministrazione, mancanza di pianificazione, sciatteria amministrativa e ovviamente «potenti» lobby locali.

Verità inoppugnabile che sta sotto il libro di Insolera, è che la democrazia produsse una città peggiore di quella del fascismo, il quale a sua volta aveva realizzato una città peggiore di quella costruita in molti secoli dal politicamente esecrabile potere assoluto del Papa. In somma, la bellezza di Roma e l’enorme quantità di arte che, non ostanti i periodici saccheggi, vi si è accumulata, sono quasi esclusivamente frutto di secoli di dominazione aristocratica. Per esempio, la Fontana dei Quattro Fiumi a Piazza Navona fu costruita per soddisfare la volontà di papa Innocenzo X Pamphilj di abbellire lo spazio antistante il suo palazzo di famiglia. La stessa cosa aveva fatto Paolo III Farnese, acquistando edifici davanti al suo palazzo per demolirli e creare l’omonima piazza. Forma urbana ammirevole nata da un potere dispotico auto-glorificante, ma colto, quindi capace di usare il puro arbitrio di cui disponeva anche a fini estetici.

Del resto ovunque in Europa fu così per secoli. Il paradosso cui non facciamo quasi mai caso è che, non solo in Roma ma un po’ ovunque, ciò che maggiormente ammiriamo, vale a dire il motivo per cui andiamo a vedere una città, è quasi sempre il frutto di un oggi inaccettabile potere aristocratico. Oppure, peggio, della volontà autocratica di individui singoli esercitanti a vario titolo un potere capace di saltare ogni, per noi oggi normale e imprescindibile, processo decisionale democratico. Questione complicata e però è un fatto che, in termini funzionali quanto estetici, la nostra (e sottolineo nostra: altrove, declinata in modi diversi, si è data buona città contemporanea), democrazia non riesce a produrre una città non dico memorabile, non dico bella, ma anche solo accettabile.

È abbastanza logico che, almeno da noi, la democrazia liberale non sia interessata a costruire bella città. Alla democrazia interessa soprattutto stabilire regole, norme e standard, per poi controllarne il rispetto e la corretta applicazione. Nulla, negli attuali processi di pianificazione, riguarda davvero la forma urbana e la qualità della successiva produzione architettonica.

L’urbanistica contemporanea – ancora basata sui principi modernisti dello zoning e dello standard – è priva di strumenti di costrizione estetica. Negli uffici comunali se ne parla in continuazione, ma nei procedimenti burocratici non c’è niente che indirizzi ciò che si costruisce di nuovo verso la qualità. La parola bellezza travalica la cognizione stessa della progettazione urbana, in quanto considerata di percezione soggettiva, mentre all’interno dell’ideologia che l’ha partorita, la norma è o dovrebbe essere, oggettiva.

La stessa nozione di qualità ha diverse interpretazioni. Esiste la qualità estetica e esiste la qualità prestazionale. La prima non è apparentemente normabile, la seconda invece sì, ma sempre e comunque in termini numerici e, come vedremo, secondo uno schema planimetrico infinitamente modificabile.

Alla base della città fisica contemporanea c’è la città numerica: una volta soddisfatti i numeri, vale a dire le destinazioni d’uso stabilite dal Piano Regolatore, l’indice di edificabilità, le percentuali di metri quadrati da destinarsi a servizi e soprattutto a parcheggio pubblico & privato, la garanzia tecnica dell’accessibilità e delle sezioni stradali eccetera, il gioco è fatto e può cominciare la giostra delle varianti, con le quali il «soggetto privato», leggi il costruttore, modifica gradualmente il piano a proprio vantaggio, discostandolo dal disegno originario fino a renderlo irriconoscibile.

I più accorti tra i «soggetti privati» per la prima stesura progettuale chiamano e pagano un buon architetto, quando non un’archi-star. Per le fasi successive basteranno i tecnici dell’impresa, in genere architetti e geometri pronti a tutto, che avranno cura di stravolgere completamente quello che sulle prime poteva persino sembrare un buon progetto. È in questa fase – può durare anni, il «soggetto privato» non ha fretta – che si annida la corruzione minuta, in quanto motore indispensabile del procedimento: non grosse somme, ma un continuo moderato flusso di denaro verso i tecnici di basso livello che concretamente lavorano le carte. In sede di variante tutto può essere modificato, i gradi di libertà già piuttosto vasti entro cui si muove il progetto urbano, si allargano progressivamente a dismisura e tutto diventa possibile. È così che, senza fretta & senza clamore, un (già piuttosto raro) buon progetto iniziale, finisce per diventare la solita merda.

Roma moderna è brutta perché corrotta, si afferma. È sicuramente vero. Si potrebbe aggiungere che la sua non-forma fisica assurge a forma simbolica della corruzione. In fondo cos’è la corruzione se non la compravendita di gradi di libertà (di azione rispetto alla norma) tra privato e pubblica amministrazione? Ma le cause di questa bruttezza non sono tutte nella corruzione. Perché il privato una volta compratosi, non sempre agilmente, un certo grado di franchigia, costruisce inevitabilmente un brano di città di merda? Se ciò cui tiene sono i numeri – che devono tornare a suo vantaggio – perché la forma fisica che assumono questi numeri è sempre, o quasi sempre, riprovevole? Esistono specifiche regioni culturali? È possibile che la non-qualità di Roma moderna sia il prodotto della sua intera classe dirigente (tecnici compresi, comprese destra, sinistra e centro) e dei cittadini tutti che, non ostante vivano nei luoghi dove è stata inventata la cultura della forma urbana, ignorano, cosa sia una città?

Prima di abbozzare un’ipotesi, è necessario porsi almeno due domande. Quand’è che un brano di città è considerabile come «di merda»? E soprattutto chi lo considera tale? Non certo coloro che ci vanno ad abitare e che accendono mutui, non proprio leggeri, per comprarsi casa dentro quella roba, in quel quartiere, nella desolazione di un impianto urbano periferico – privo di luoghi attrattivi, vale a dire di spazi formati e vivibili che non siano i soliti parchi «a standard» – nel linguaggio nuovo-vecchio in cui sono progettati gli edifici, nell’inesistenza del trasporto pubblico, che tanto c’è quello privato, con belle strade larghe, ottimi svincoli di collegamento a una struttura viaria metropolitana che risale a duemila anni fa e che resta giorno e notte intasata. Come disapprovare questi cittadini del nulla se poi si rifugiano nel più vicino centro commerciale? Come non capire che (lontanissimo dall’essere un non-luogo) è proprio il centro commerciale l’agorà del nostro tempo?

È così che nell’apparente correttezza tecno-amministrativa, la cultura abitativa del ceto medio dell’Urbe si auto-determina in un loop tra domanda e offerta – ti vendo ciò che ti piace (merda), ti piace ciò che ti vendo (merda) – che nei fatti produce la città che conosciamo e che tutto sommato sta bene a tutti. Anche gli urbanisti che lavorano nella/per l’amministrazione non hanno nulla da eccepire: se i numeri tornano (sovente si fanno tornare) allora, piaccia o non piaccia, questa è Roma.

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