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paginauno

Il tempo di lavoro che si divora la vita

Collettivo Clash City Workers

Il 4 agosto scorso compare su Bloomberg Businessweek un’intervista a Marissa Mayer (1), amministratore delegato di una delle più grandi corporation al mondo: Yahoo. Senza tanti giri di parole, la Mayer, già fra i primi dipendenti di Google, ci svela la chiave del successo del gigante statunitense e più in generale di ogni grande impresa: “Il segreto della fortuna delle aziende è quello di avere dipendenti che si impegnano duramente. Si può arrivare a una media di 130 ore alla settimana”.

Per anni abbiamo sentito raccontare la storia per cui, nelle grandi società del web 2.0, il lavoro era molto più rilassato: appositi spazi comuni dove prendere una pausa e fare un pisolino, e in Google addirittura la possibilità per i dipendenti di usare un’ora retribuita al giorno (o perfino il 20% del tempo) per dedicarsi a un libero progetto. Ma poi nel 2015 è stata proprio la Mayer a chiarire meglio la faccenda: “I’ve got to tell you the dirty little secret of Google’s 20% time. It’s really 120% time”. Ovvero, quel 20% di tempo era da considerarsi oltre il normale lavoro: straordinari, semplicemente, non retribuiti. Progetti che poi Google valutava ed eventualmente includeva tra quelli ufficiali. Sono gli stessi Page e Brin, fondatori di Google, ad affermare nel 2014: “Noi incoraggiamo i nostri dipendenti, in aggiunta ai loro regolari progetti, a utilizzare il 20% del loro tempo per lavorare su quello che loro pensano possa fare più bene a Google”, tanto che “molti dei nostri avanzamenti sono avvenuti in questa maniera”, da Google News a Gmail e addirittura il sistema che genera la fetta più grande di profitti per il colosso statunitense: AdSense. Solo nel 2013 Google ha escluso del tutto la politica del 20%, probabilmente per porre un limite all’eccessivo ritmo di innovazioni che rendeva difficile lo sviluppo organico dei progetti.

Dunque alla fine, in barba alla retorica sul lavoro agile e smart, il vecchio caro sfruttamento, quello dell’allungamento della giornata lavorativa, rimane ancora una strategia chiave per le imprese. Si tratta della sempre valida estrazione di plusvalore assoluto: si lavora di più, la notte, i festivi, si riducono le pause, lasciando infine al lavoratore il minimo tempo di riposo necessario per reintegrare le forze. Nell’Ottocento si collocavano i dormitori direttamente nelle fabbriche proprio per ridurre questo tempo; oggi accade ancora nelle fabbriche-dormitorio di Shenzen, nella Cina sud-orientale, dove si producono gli iPhone, ma evidentemente anche nelle modernissime Yahoo e Google. Per poter lavorare 130 ore a settimana, dice la Mayer, “si deve organizzare strategicamente il tempo del proprio sonno, quello della doccia e anche quante volte si va in bagno. E le nap room [stanze del pisolino, n.d.a.] a Google c’erano perché alle tre del mattino è più sicuro restare in ufficio piuttosto che camminare fino alla propria auto”. Perché a Google si poteva (si può, sicuramente) lavorare fino alle tre del mattino! E il colosso del web non è il solo, sono ormai diverse le società americane nelle quali il lavoro è ininterrotto giorno e notte (ma anche giapponesi, e il trend è in crescita) che hanno non solo nap room ma anche veri e propri dormitori.

Sembra l’Inghilterra ottocentesca di Dickens e invece è il lavoro nelle corporation della globalizzazione. Più di un secolo, in cui i lavoratori si sono organizzati, hanno strappato le otto ore lavorative giornaliere (in Italia nel 1923), il giorno di riposo, le ferie, sembra non essere mai esistito: oggi questi diritti sono rimessi in discussione e non solo nelle imprese americane, ma anche qui da noi.

 
In Italia?

In quest’ultimo anno l’Italia ha visto un’accelerazione sul tema: aumento del tempo di lavoro e riduzione del tempo di vita, come abbiamo evidenziato su queste pagine analizzando i rinnovi dei contratti collettivi nazionali (2).

Pensiamo soprattutto al settore commerciale con i supermercati di molte grandi catene (Carrefour e Auchan per prime) che hanno deciso di aprire h24, con lavoro domenicale e notturno obbligatorio (3). Qui non poteva essere venduta la favoletta del self-made man, la promessa che in cambio dell’impegno totale e assoluto puoi diventare il nuovo genietto dell’informatica e vedere ripagati i tuoi sforzi come un novello Steve Jobs, Bill Gates o la più classica Marissa Mayer; in questo settore tale retorica non poteva funzionare, e infatti è stata sostituita dal più diretto ricatto:

o così o stai a casa. Per i nuovi assunti, con la firma di contratti con cui si deve accettare l’orario flessibile (straordinari non pagati, turni notturni e domenicali obbligatori, ti chiamo all’ultimo quando mi servi, stai a casa quando decido io); per chi ha il vecchio contratto – teoricamente blindato – ecco il trasferimento punitivo, comminato in caso di rifiuto, come accaduto in vari punti vendita (4).

Ma pensiamo anche allo straordinario comandato per i lavoratori Fca (5), costretti a lavorare il sabato fino a quando, sfiniti per i carichi di lavoro, non si sono organizzati e hanno imposto all’azienda la sospensione. O pensiamo ai turni di 12-14 ore di tanti facchini della logistica, turni che erano la regola finché, anche qui, molti lavoratori non hanno cominciato a organizzarsi con alcuni sindacati di base e sono riusciti, in molti siti, a porre un freno allo sfruttamento selvaggio (6).

Sembra quindi che non solo nelle corporation ma in linea generale, nel 2016, nelle società che prospettano l’industria 4.0, il tanto agognato aumento della produzione e la riduzione dei costi passi ancora per l’aumento dello sfruttamento assoluto, quindi del tempo di lavoro che mangia sempre più tempo di vita. Per fortuna la Mayer ci rassicura che lavorare 130 ore a settimana è possibile, basta pianificare tutto, anche quando andare in bagno. La chiamano “conciliazione del tempo di vita e lavoro”, ma molto più banalmente è la drastica e diretta riduzione del tempo libero in favore del tempo di lavoro supplementare (per altro non pagato con maggiorazioni). Una situazione che di fatto impedisce ogni possibile organizzazione della propria vita, sociale, culturale, affettiva.

Così arriviamo al paradosso di oggi: una società tecnicamente evoluta che continua a far lavorare allo sfinimento le persone. Una società in cui c’è chi è costretto a lavorare 60/70 ore la settimana (per rimanere su soglie leggermente più ‘umane’) e una massa sconfinata di disoccupati.

Secondo una ricerca dell’Ilo (7),l’Organizzazione internazionale del lavoro, nel 2007 un lavoratore su cinque in tutto il mondo – ovvero 600 milioni di persone – lavorava ancora per più di 48 ore la settimana, e nella maggior parte dei casi solo per riuscire ad arrivare alla fine del mese.

Oltre all’impossibilità di organizzare una propria vita al di fuori del lavoro, occorre fare anche valutazioni sui costi sociali e umani che questo aumento netto dello sfruttamento si trascina dietro. Orari molto lunghi, soprattutto per lavori pesanti, combinati con età pensionabile sempre crescente e sempre minori obblighi per le imprese nel campo della sicurezza sul lavoro (8), aumentano spaventosamente i rischi di incidenti. Con costi spesso drammatici per chi si infortuna (o peggio perde la vita) e alti costi sociali per tutti.

Lavorare 130 ore la settimana è possibile, ci dice la Mayer. Forse seduta comodamente al sessantesimo piano di un ufficio con aria condizionata e sedia ergonomica, e a casa la governante e la baby sitter. Ma quanto lo è per la maggioranza delle persone che non guadagna certo 6.500 dollari l’ora come la protagonista dell’intervista? E soprattutto, al di là dello stipendio, quanto è desiderabile un mondo in cui tutti lavorano sempre, senza orari, senza soste? Costretti a fare la spesa la notte e così obbligando la cassiera del supermercato a fare il turno notturno?È un cortocircuito da cui dovremmo uscire, pretendendo per tutti orari di lavoro più umani e tempo libero per coltivare i nostri interessi, le passioni, gli affetti.

Non è impossibile economicamente, basti pensare alla quantità di ricchezza di cui si appropriano i detentori di grandi capitali, e soprattutto a quante merci finiscono nei rifiuti e a quanti beni e servizi inutili vengono prodotti; non è impossibile nemmeno tecnicamente, visti i progressi della tecnologia. È impossibile solo perché il sistema capitalistico si regge sulla vendita della forza lavoro e sulla pretesa, per chi l’acquista, di disporne a piacimento, per trarne ogni anno valori di profitti che il lavoratore mai vedrà in una intera vita; è impossibile perché il capitalismo, in preda a una crisi sistemica, torna a mostrare il volto più brutale, mettendo a guadagno la vita stessa (9). Il buon vecchio motto lavorare meno lavorare tutti non è mai stato così attuale.


Note
1) Cfr.https://www.bloomberg.com/features/2016-marissa-mayer-interview-issue/
2) Cfr. Clash City Workers,Salari da fame, orari da pazzi: i nuovi contratti nazionali, Paginauno n. 46/2016
3) Cfr. Clash City Workers,Il tempo è il nostro, è il nostro tempo. La flessibilità lavorativa daIkea e da Carrefour, 10 settembre 2015
4) Cfr. G. Guccione, Beffa Auchan: raddoppia ma trasferisce le cassiere ribelli, La Repubblica, 24 febbraio 2016
5) Cfr. Clash City Workers, C’è ancora chi lotta contro il modello Marchionne!, 29 maggio 2016
6) Sfruttamento che è emerso con tragica violenza a metà settembre, quando un lavoratore di un magazzino del corriere GLS, in sciopero a Piacenza, è stato ucciso da un camion che ha provato a forzare il picchetto dei lavoratori
7) Cfr. Studio Ilo, Gli orari di lavoro nel mondo: un lavoratore su cinque lavora troppo, 7 giugno 2007
8) Cfr. Un disegno di legge per ridisegnare la normativa sulla sicurezza, Puntosicuro.it, 4 agosto 2016
9) Anche in un senso immediatamente tragico: al 19 settembre 2016 sono 960 i lavoratori morti per infortunio dall’inizioanno, 466 sul luogo di lavoro e i rimanenti mentre vi si recavano o rientravano. Uno, Abd ElSalam Ahmed Eldanf, ucciso mentre manifestava in picchetto

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