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Si prepara la Grande Rotazione fra politica monetaria e politica fiscale

Maurizio Sgroi

I segnali sono sempre più numerosi e diffusi. Il terreno è stato dissodato e preparato alla semina. Ora bisogna agire. La Grande Rotazione dalla politica monetaria a quella fiscale è ormai ai nastri di partenza e comincerà, come sempre accade con le novità, dagli Stati Uniti, non appena riusciranno a darsi un’amministrazione. La Fed ha già iniziato a far capire che sulla politica monetaria ormai non c’è più da contarci troppo e le ultime minute pubblicate dalla Fed confermano l’intenzione della banca centrale Usa di procedere sulla via delle normalizzazione monetaria. La Fed già da un anno ha smesso di comprare titoli, e adesso si prepara al secondo rialzo dei tassi, che dovrebbe avvenire già quest’anno, mentre gli analisti ne ipotizzano almeno altri due o il prossimo. Le altre banche centrali come sempre, seguiranno, pure se con i loro tempi. Ma il segnale è chiaro: l’età dello stimolo monetario volge al termine.

Questo non vuol dire che la moneta facile sparirà. Tutt’altro. I tassi bassi sono un strumento essenziale per il secondo capitolo del lungo libro che l’economia internazionale sta scrivendo nel tentativo di rilanciarsi: il capitolo degli stimoli fiscali. Avere tassi bassi servirà almeno a due cose: da un parte a rendere sostenibili i debiti del settore privato e pubblico, ormai esorbitanti, e poi stimolare ulteriormente l’indebitamento per gli investimenti, ancora molto al di sotto rispetto a prima del 2008.

Ormai non si contano più gli appelli a fare spesa pubblica per investimenti produttivi. L’Ocse, il Fmi, l’Ue: praticamente tutti gli organismi internazionali, in questi mesi, hanno esortato i paesi con spazio fiscale, Germania in testa, a usarlo per investire sulle infrastrutture. A seguire, praticamente tutti i governi, direttamente o per il tramite di veicoli speciali, si sono fatti promotori di piani per roboanti investimenti pubblici o stimoli fiscali.

L’ultimo in ordine di apparizione è stato il governo canadese. Il primo ministro ha presentato un piano da 120 miliardi di dollari canadesi in dieci anni fra tagli fiscali e investimenti infrastrutturali. Una scommessa, ha scritto il WSJ, che sottolinea anche il limite raggiunto dagli stimoli monetari. La Banca centrale ha tagliato i tassi fino allo 0,5% due volte nel 2015, ma ha fatto capire di non poter fare di più. Sicché arrivano i nostri, ossia il governo (come se la banca centrale viva sulla luna).

Lo spazio fiscale il Canada ce l’ha. Il debito PIL è inferiore al 100%, il 94% riporta il WSJ, e la spesa del governo sul PIL supera di poco il 40%, poco sopra il Giappone, che però ha un debito PIL superiore al 230%, e inferiore alla Germania, dove la spesa pubblica sul PIL rimane intorno al 43% e il debito pubblico sul PIL all’80%. Come dire: se il Canada può fare un piano del genere, figuratevi se non potrebbe farlo la Germania, su cui infatti si concentrano le attenzioni di tutto il mondo che conta. Per finanziare il suo piano, il primo ministro canadese farà ricorso senza imbarazzi al deficit di bilancio che dovrebbe raggiungere l’1,5% del PIL. Sicché, conclude il WSJ, gli occhi del mondo si sono puntati sull’esperimento canadese. Come se veramente una soluzione economica si possa esportare da un paese all’altro.

Ma tant’è. Ormai da un secolo viviamo nel mito dell’economia manovrata, ora dal governo, ora dalla banca centrale, il più delle volte insieme, e quindi l’esperimento canadese servirà solo a dar fiato ai tanti che oggi auspicano una decisa scelta per i governi verso il deficit spending.

Non a caso, agli appelli reiterati dell’Ocse e del Fmi sono seguite le promesse elettorali dei candidati alle elezioni statunitensi, i pensierini dell’UK che deve pur far qualcosa per assorbire i contraccolpi di Brexit, e soprattutto il Grande Stimolatore fiscale, ossia il Giappone, che da circa un ventennio fa stimoli monetari e fiscali, ottenendone soltanto il prosieguo della deflazione e l’aumento dei debiti. E tuttavia di recente ha ribadito che avrebbe investito 74 miliardi di dollari in stimoli fiscali. Quanto all’Europa, rimane in piedi il mitico piano Juncker da 300 miliardi, di cui poco si sa e ancor meno si è visto.

Ma in fondo conta poco. Ciò che importa è capire come si svolgerà la prossima narrazione del governo collettivo, chiamiamolo così, che si nutre di mode culturali – oggi si parla di stimoli fiscali per investimenti produttivi – alimentate dalla disperazione per il fallito raggiungimento degli obiettivi. I governi, tutti, hanno sempre fatto credere di poter far crescere l’economia indefinitamente. Adesso devono dimostrarlo. A spese nostre, ovviamente.

Comments

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Claudio
Thursday, 27 October 2016 16:33
Ho apprezzato il suo scritto, ma la conclusione mi ha lasciato l'amaro in bocca. Francamente credevo che concludesse inserendo l'aspetto del mercato che non tira, oppure dell'eccesso produttivo nella maggioranza dei settori economici a livello globale, che, per quel poco che ne so, sono alla base dell'insuperabile crisi. Pazienza, sarà per la prossima volta, lo spero...
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