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Una nota al margine su Bob Dylan

di Brais Fernández

Bob Dylan sta alla musica come Jack Kerouac sta alla letteratura. Non mi viene in mente nessun’altra affermazione (calzante e allo stesso tempo difficile da difendere) con la quale iniziare un articolo dedicato al nuovo premio Nobel per la letteratura. Eppure, l’affermazione ha un intento diverso dal tentare di fare una precaria analogia. Durante gli anni 60 e 70, musica e letteratura si avvicinarono tanto che arrivarono ad incontrarsi, dando luogo a ibridi indissociabili: non si può comprendere “Sulla strada” di Kerouac senza il jazz beebop, e nemmeno si può intendere la letteratura del XX secolo senza i testi di Dylan. Dall’altro lato, Dylan fa parte di un’esperienza reale, che cambiò la concezione della vita di milioni di persone: la letteratura beatnick, le poesie di Allen Ginsberg, la musica, i viaggi lunghi senza destinazione attraverso gli Stati Uniti, le droghe, San Francisco, le vite spezzate, gli hippy, le manifestazioni contro la guerra. Bob Dylan è una figura molto particolare della letteratura; è un autore-personaggio, che costruisce e simbolizza un’epoca per milioni di persone.

Andiamo per punti, esplorando le tensioni e le contraddizioni. Non c’è dubbio che Bob Dylan sia una figura centrale di una generazione e di un immaginario culturale che tentò di cambiare il mondo, ma che non ci riuscì. Pertanto, che nessuno si aspetti da Dylan un gesto simile a quello di Sartre nel 1964. L’autore de “L’essere e il nulla”, convertito marxista e in processo di radicalizzazione verso posizioni nitidamente rivoluzionarie, rifiutò il premio Nobel per evitare di trasformarsi in una “istituzione”. Il caso di Dylan è un po’ differente: è da anni che è già una istituzione di fatto, capace di influire come nessun altro nella musica popolare, ammirato e accettato da tutti. Fare cover di Dylan è una tradizione americana tanto quanto il Giorno del Ringraziamento. Tuttavia, la sua istituzionalizzazione non si dà solo nell’ambito popolare: simbolizza come nessun altro la profonda impronta dell’ondata rivoluzionaria degli anni 60 e, allo stesso tempo, la sua successiva normalizzazione. Lo stesso Bob Dylan è sempre stato un po’ cinico riguardo al suo ruolo di icona radicale, arrivando ad auto-definirsi “ribelle contro la ribellione”.

La sua traiettoria riflette l’evoluzione dello “spirito di un’epoca”. Nel suo primo e unico anno nell’Università del Minnesota, Dylan assistette a varie riunioni del Socialist Workers Party (SWP, ndr Partito Socialista dei Lavoratori), partito trotskista diretto da James Cannon, mentre considerava se stesso un semplice successore di Woody Guthrie, cantante comunista che con la propria chitarra “ammazzava fascisti”. Gli eredi di Guthrie consideravano la musica folk un qualcosa di semplice e artigianale. Era un movimento che potremmo inquadrare in ciò che Michael Lowy chiama “anticapitalismo romantico”: rifiutavano l’elettrificazione della musica, ché una chitarra acustica era sufficiente per appoggiare le lotte operaie e studentesche. Dylan fu capace di crescere in questo mondo, ma di rompere con lo stesso per avanzare insieme al “movimento reale”, creando questa sintesi virtuosa tra la tradizione e la modernità, successivamente conosciuta come folk-rock. Non senza tensioni, peraltro, con i settori più ortodossi del movimento folk. A Newport nel 1965, Dylan tirò fuori la chitarra elettrica per la prima volta e il maestro Peete Seeger, indignato di fronte a cotanta eresia, minacciò di tagliare i cavi con un’ascia. E’ rimasta famosa anche la registrazione in diretta di “Like a rolling stone”, nella quale un fanatico folkie gli gridò dal pubblico “Giuda” e si sentì rispondere con tono cinico “Io ti credo”.

Il passaggio di Bob Dylan dalla chitarra acustica a quella elettrica rappresenta anche un cambio di orientamento delle problematiche che tratta nelle proprie canzoni. Da una politicizzazione diffusa, più incline a creare inni di movimento che alla critica politica come altri cantautori radicali come Phil Ochs, Dylan passa a occuparsi dei problemi esistenziali di un’intera generazione, orientandosi più verso quel settore della gioventù che preferiva occuparsi dei grandi festival che militare nella SDS. Durante tutti gli anni 60 e 70 ci fu una tensione che attraversò tutto il movimento giovanile, tra “rivoluzionari” ed “esistenzialisti”, che, per quanto confluissero in un forte rifiuto del capitalismo e dell’imperialismo, optavano per forme di lotta differenti. Facciamo un esempio: mentre i “rivoluzionari” appoggiavano la resistenza armata vietnamita contro l’invasore statunitense, gli “esistenzialisti” manifestavano semplicemente contro la guerra: Normal Mailer descrive magnificamente questo conflitto nel suo romanzo “Gli eserciti della notte”.

Non si tratta, a mio avviso, di dare opinioni eccessivamente sommarie su questa tensione. Forse la cosa interessante sarebbe esplorare come si sviluppa la carriera di Bob Dylan in relazione a quei movimenti tettonici che cambiarono la relazione tra cultura e società. Dylan è il primo artista di culto di massa: i suoi testi combinano elementi tradizionali della cultura americana con metafore proprie delle avanguardie europee. Simbolizza come nessun altro l’emergere di una classe media molto particolare, che nasce nel dopoguerra, e che si autoconcepiva come una “intelligentsia” di nuovo tipo, guardando sempre verso le rivolte che venivano dal basso, però disposta, nel caso in cui la rivoluzione non andasse sufficientemente a buon fine, a costruire le sue aspirazioni vitali all’interno di un capitalismo dinamico e pieno di opportunità.

Con questo premio Nobel, l’establishment culturale riconosce in forma aperta la mutazione culturale che hanno prodotto gli anni 60. Ora non possiamo concepire l’arte come qualcosa di autonomo dalla società del consumo, ma piuttosto come qualcosa che deve incontrare i desideri delle masse. Ora non possiamo concepire l’arte al margine delle aspirazioni culturali delle masse: Dylan, senza dubbio, per milioni di persone ha più significato come poeta di Adonis, il poeta libanese, eterno candidato al Nobel e abituale nelle pagine di Babelia. Non possiamo pensare alla musica di culto pensando esclusivamente a Mozart e dimenticandoci di Bob Dylan. Non possiamo pensare alla musica di massa pensando solamente a Justin Bieber e dimenticandoci di Dylan, con il quale milioni di adolescenti continuano a scoprire che i propri problemi esistenziali sono gli stessi di quelli dei propri genitori. Infine, non possiamo dissociare Ginsberg da Dylan: erano entrambi poeti, solo che il genio di Dylan si è infilato con una chitarra e con maggiore abilità nella crepa nella quale nasce quell’ibrido tra cultura d’elite e cultura di massa tanto proprio del tardo capitalismo. In fondo, questo premio Nobel riconosce solamente un dato di fatto: che “the times they are changing” (“I tempi stanno cambiando”) e che i confini tradizionali dell’arte non si possono definire solo nell’accademia.

Infine, non ci dimentichiamo che svariati tipi di personaggi inquietanti come Henry Kissinger o Obama hanno ricevuto il Nobel e che il Nobel è un premio assegnato dalle elite. Però è curioso osservare che, normalmente, il tipico personaggio che critica con durezza il premio Nobel, è lo stesso che poi se la prende tanto sul serio, scandalizzato, e si indigna perchè lo abbiano assegnato a Dylan. In realtà, non cambia nulla. Con o senza il Nobel, Dylan è il poeta più grande per milioni di persone, allo stesso tempo di culto e popolare, a volte popolo e a volte elite.


Fonte articolo: http://vientosur.info/spip.php?article11793
Traduzione di Marta Autore

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