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Lezioni di economia non ortodossa

di Luigi Bosco

Vi sono diverse somiglianze fra la crisi economica del 1929 e quella del 2008, ma anche importanti differenze. Una delle più interessanti riguarda gli economisti e la teoria economica.  All’indomani della crisi del ‘29 davanti all’incapacità del paradigma economico tradizionale a interpretare le ragioni della crisi e a suggerire le adeguate contromisure, si diffuse in termini relativamente rapidi un profondo cambio di paradigma che non a caso prese il nome di rivoluzione keynesiana. Nulla di paragonabile è avvenuto dopo il 2008. Perché? Una delle ragioni è il conformismo. Per questo il libro di Sergio Cesaratto – Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Edizioni Imprimatur – può essere accolto come una sana boccata di aria fresca.

Come è noto, vi sono diverse somiglianze fra la crisi economica del 1929 e quella più recente del 2008 ma anche importanti differenze. Una delle più interessanti riguarda gli economisti e la teoria economica.  All’indomani della crisi del ‘29 davanti all’incapacità del paradigma economico tradizionale a interpretare le ragioni della crisi e a suggerire le adeguate contromisure, si diffuse in termini relativamente rapidi un profondo cambio di paradigma che non a caso prese il nome di rivoluzione keynesiana.

Benchè la crisi del 2008 abbia avuto la stessa natura epocale, nonostante l’identica incapacità dell’approccio neoclassico dominante di prevedere e spiegare la crisi, nulla di paragonabile alla rivoluzione keynesiana è avvenuto. Sarebbe molto interessante riuscire a spiegare perché.  Le ragioni sono tante e diverse e non è questa ovviamente la sede per discuterle. Ci fa gioco qui, tuttavia, notare quello che allo scrivente appare un dato di fatto: il sempre maggior conformismo che pervade l’accademia economica in generale, e forse quella italiana in modo particolare e che rende molto più difficile di prima una radicale inversione di tendenza.

Per questo il libro di Sergio Cesaratto – Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Edizioni Imprimatur – può essere accolto come una sana boccata di aria fresca, un esempio contro-corrente di straordinario interesse. Egli infatti vuole nel suo saggio fornire un approccio alternativo a quello mainstream. Ambizione che comunque la pensiate nello specifico dei punti presentati da Cesaratto è, per quel che si diceva prima, ambizione lodevole in sé.

La scelta metodologica dell’autore è, infatti, quella più diretta e interessante: non scrivere un saggio dove esporre più approcci diversi simulando una ipocrita terzietà rispetto a ciò che si scrive, quanto quello di esporre un chiaro e ben definito corpus coerente di interpretazioni alternative che, sempre misurandosi dialetticamente con il paradigma dominante e mantenendo alto il rigore analitico, offrisse tuttavia una teoria altra del funzionamento dell’economia moderna e della crisi economica mondiale ed europea.

Dietro questo saggio vi è una concezione della scienza economica non come disciplina solipsistica attenta solo alla coerenza interna dei suoi risultati, quanto una disciplina che utilizzando un rigoroso metodo scientifico si ponga come primo obiettivo quello di spiegare i fenomeni economici, accettando di mettersi in discussione quando non vi riesca.

Non a caso l’autore parte dall’analisi del sovrappiù tipica degli economisti classici – Ricardo e Marx fra tutti – rileggendolo nella versione sraffiana. Questa scelta non risponde tanto a una motivazione ideologica –pure presente – quanto alla finalità di sfruttare le potenzialità di questa teoria di spiegare la natura politico-economica dell’attuale clamoroso problema distributivo. C’è la politica, nel senso di scontro fra interessi socio-economici ben definiti – se non vogliamo parlare di lotta di classe – dietro il drammatico aumento della diseguaglianza economica che ha raggiunto livelli simili a quelli esistenti nei primi anni del secolo scorso. Non asettiche variazioni esogene – la rivoluzione tecnologica o il processo di globalizzazione – come suggerito dall’economia mainstream. C’è la politica dietro l’insorgenza della crisi mondiale e dietro l’infinita e drammatica crisi europea.

Nelle sue sei lezioni, l’autore usa questa stessa chiave di lettura per analizzare temi a noi vicini e di strettissima attualità: dal fiscal compact al QE, dalla crisi dei debiti sovrani al neo mercantilismo tedesco, dalla crisi dell’eurozona ai costi dell’unione monetaria, fornendo sempre delle spiegazioni diverse e spesso alternative degli accadimenti economici chiarendo costantemente gli effetti distributivi che sono quasi sempre alla base delle politiche economiche.

Il saggio è molto piacevole da leggere – anche per un non specialista – grazie anche all’ accattivante forma colloquiale e al linguaggio volutamente quanto meno gergale e specialistico possibile.

Si può essere più o meno d’accordo con le tesi di Cesaratto, si può forse discutere il ruolo centrale del mercato della lavoro come fonte unica di estrazione del sovrappiù, si può anche non sempre condividere la visione organicistica degli interessi e delle strategie del grande capitale, ma non si può riconoscere nel libro un interessantissimo sguardo alternativo che arricchisce il panorama dell’indagine economica.

Al contrario quello che colpisce negativamente è la singolarità del progetto: troppo pochi sono infatti i contributi alla Cesaratto. Non paga scrivere libri nel mercato accademico moderno e italiano in particolare. Tanto meno poi paga scrivere libri fortemente eterodossi. Gli economisti non scrivono più libri e non lavorano più a teorie generali come quella di Keynes. Questo rende forse più facile la conservazione del paradigma neoclassico basato su ipotesi inverosimili o, come suggerisce Cesaratto, minato da lacune teoriche di fondo mai risolte, benché questo paradigma appaia disarmato e impotente davanti alla crisi, non solo a quella finanziaria ed europea ma anche a quella ambientale.

Proprio per questo, la lettura del bel libro di Cesaratto non può che spingere a interrogarsi sul costo del maggior conformismo culturale cui si accennava all’inizio e sulla perdita del pluralismo scientifico come valore in sé. Specialmente nelle scienze sociali – come è l’economia, checché ne pensi qualcuno – in un mondo sempre più incerto, variegato e complesso la pluralità degli approcci scientifici, la varietà dei progetti di ricerca, la molteplicità dei metodi analitici dovrebbe essere un bene massimo da preservare. Non solo in nome della democrazia e della libertà di ricerca – pur importanti in sé -, quanto in nome di un criterio di efficienza e di saggia diversificazione del rischio: non potendo sapere quali siano i filoni più interessanti e promettenti nel futuro, ampliare il raggio della ricerca aumenta le probabilità di cogliere i filoni giusti. Troppo semplicisticamente invece la ricchezza dei modelli interpretativi viene messa in contrapposizione, esplicitamente o implicitamente, con la necessità di concentrare le sempre minori risorse pubbliche in pochi progetti di ricerca “migliori e vincenti”, e quindi con la necessita di usare rigidi criteri selettivi che utilizzando algoritmi bibliometrici, a volte arbitrari discutibili e spesso miopi (come dimostrato dalla recente ricerca di Wang e altri) finiscono per appiattire le diversità e spingere verso il conformismo.

Ma questi algoritmi non sono che regole sociali e le regole sociali, ci mostra esaurientemente Cesaratto, non sono mai neutrali e asettiche come il consolatorio pensiero dominante ci vorrebbe far pensare, sia nel mercato della moneta o dei beni sia nel mercato delle idee e della ricerca.  Anche perché tendono fortemente ad influenzare le scelte individuali dei ricercatori, specie di quelli giovani, che alla capacità di conformarsi a quelle regole faranno dipendere le loro carriere future.

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