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alfabeta

Byung-Chul Han, il capitalismo delle emozioni

Lelio Demichelis

Lavoro, consumo e rete. In questi tre modi di essere e di vivere di ciascuno di noi, l'emozione – e le relazioni di dipendenza/coinvolgimento che l'emozione sa produrre tra chi produce l'emozione (oggi l'impresa, le merci, la rete: il tecno-capitalismo) e chi le deve vivere in sé – gioca un ruolo crescente, pervasivo e insieme invasivo. Il capitalismo era nato disciplinando gli uomini al lavoro. Michel Foucault ha spiegato (in Sorvegliare e punire), come le discipline siano state determinanti anche per produrre il lavoratore capitalista: subordinato, utile (a produttività crescente) e docile (l'esercizio ripetuto genera routine e automaticità). Ma poi ha affinato sempre più le sue tecniche di potere.

Già Henry Ford, dopo avere introdotto nelle sue fabbriche (nel 1913) la catena di montaggio (ripetitiva, alienante), nel 1914 aveva creato la «Sezione sociologica», un gruppo di consiglieri che avevano il compito di indagare e monitorare il comportamento extra-fabbrica (camera da letto compresa) dei propri dipendenti; e se raggiungevano un certo punteggio – introiettando i valori etici, diremmo psichici, della fabbrica e comportandosi conseguentemente – avevano diritto al raddoppio del salario. Se invece rileggiamo L'organizzazione scientifica del lavoro di Taylor – e quel taylorismo disciplinare che aveva prodotto – troveremo invece non solo l'invito a far fare squadra ai dipendenti, agendo quindi anche sulla loro psicologia (che si replica ancora oggi nel fare gruppo o nella creazione di comunità di lavoro), ma anche il racconto di come aveva manipolato l'operaio Schmidt per convincerlo (avendo la direzione stabilito scientificamente che questo era possibile) a trasportare a mano, ogni giorno, 47,5 tonnellate di materiale invece delle precedenti 12,5; e lo aveva fatto attivando l'autostima dell'operaio e la costruzione eterodiretta di una sua motivazione a fare di più. Dunque, sia Ford che Taylor avevano cominciato (sia pure empiricamente) a utilizzare la psicologia e le emozioni come mezzo per creare (Ford) una forza lavoro che condividesse i valori dell'impresa; e come strumento (Taylor) per ottenere una produttività sempre maggiore. Alla fine gli operai si mostravano addirittura felici di lavorare di più.

Da allora, dalla Scuola delle relazioni umane di Elton Mayo all'intelligenza emotiva di Goleman passando per il lavoro come collaborazione con l'impresa, è stato un costante e crescente affinamento di tecniche per far fare, senza dover dire di fare. Per far credere di essere liberamente motivati e responsabilizzati a fare ciò che serve all'economia (al capitalismo e al profitto). Di pari passo è cresciuto il consumo: passato dalle vecchie pubblicità ai nuovi messaggi personalizzati via rete e che sempre più giocano sulla promessa di personalizzazione, emozione (il marketing emozionale) e differenziazione, fino alle brand community, dove il consumatore scioglie se stesso nel prosumer (illuso di partecipare attivamente alle decisioni del brand). E ancor di più in rete, dove ciascuno crede di essere libero ma è sempre un nodo tra i molti, messo in mobilitazione permanente come produttore-consumatore-imprenditore di se stesso.

Il capitalismo usa dunque le emozioni e la psicologia da molto tempo. Per accrescere la produttività del lavoro (di produzione, di consumo e di cessione dei propri dati). Ma per accrescere, soprattutto, la sua pervasività, favorire la sua socializzazione, eliminare il conflitto contro di sé e promuovere il suo essere la forma stessa della società e degli individui. Capitalismo delle emozioni, lo chiama efficacemente nel suo ultimo, agile libro Byung-Chul Han (filosofo coreano ma docente di filosofia e studi culturali in Germania – autore tra l'altro della Società della trasparenza, Nello sciame e La società della stanchezza, tutti tradotti da nottetempo), mostrandoci la psicopolitica del capitalismo, il suo agire non più razionalmente ma producendo emozioni. Con le quali ci illude di essere liberi mentre sono una nuova tecnica di potere, subdola proprio perché gioca sulla psicologia, su un'incessante allusione alla libertà, su una promessa di individualizzazione/soggettivazione, quindi di libertà e autonomia.

Scrive Han, che nel saggio si occupa di rete, capitalismo, Big Data: «Oggi non ci riteniamo soggetti sottomessi, ma progetti liberi, che delineano e reinventano se stessi in modo sempre nuovo. Il conseguente passaggio dal soggetto al progetto è accompagnato dal sentimento della libertà. L'io come progetto, che crede di essersi liberato da obblighi esterni e costrizioni imposte da altri, si sottomette ora a obblighi interiori e a costrizioni auto-imposte, forzandosi alla prestazione e all'ottimizzazione di se stesso. E il soggetto di prestazione che si crede libero è in realtà un servo: è un servo assoluto nella misura in cui sfrutta se stesso senza un padrone». E ancora: «Il neoliberismo è un sistema molto efficace nello sfruttare la libertà, intelligente perfino: viene sfruttato tutto ciò che rientra nelle pratiche e nelle forme espressive della libertà, come l'emozione, il gioco (la gamification e la ludicizzazione della vita), la comunicazione e il condividere. Sfruttare qualcuno contro la sua volontà non è efficace. Soltanto lo sfruttamento della libertà raggiunge il massimo rendimento».

Così viene prodotto l'auto-sfruttamento che investe e coinvolge ogni classe. Quindi la lotta di classe necessariamente evapora, la contrapposizione e il conflitto sono esecrati e impossibili (come fare conflitto contro sé e la propria libertà?) – e chi fallisce non accusa il sistema e il suo darwinismo politico e sociale ma se stesso, producendo un'auto-colpevolizzazione funzionale (al capitalismo) e, quindi, ulteriore auto-assoggettamento. La logica religiosa del tecno-capitalismo è quindi – come sosteniamo da tempo – assoluta. Ed è dunque una perfetta descrizione del mondo di oggi, quella di Byung-Chul Han.

Ma con un dissenso (personale). Han cerca di distinguere la sua psicopolitica dalle discipline ma anche dalla biopolitica foucaultiana. Perché certamente è vero che le discipline, secondo Foucault, riguardavano la modellizzazione dei corpi e il potere disciplinare (Han) era un potere normativo che sottoponeva il soggetto a un insieme di regole, obblighi e divieti, che elimina le anomalie e le anormalità; ed è anche vero che le biopolitiche (sintetizza sempre Han) scoprono la popolazione come massa produttiva e riproduttiva da amministrare. Ma non è vero, come invece sostiene Han, che «la morte precoce ha tolto a Foucault la possibilità di riconsiderare la propria idea di biopolitica e di abbandonarla in favore di una psicopolitica neoliberale». In realtà, le stesse discipline che agiscono sui corpi (sul corpo-macchina) sono implicitamente ma inevitabilmente un'azione anche sulla psicologia, perché addestrare un corpo significa anche agire sulla psiche del soggetto addestrato. Per analizzare le forme biopolitiche del potere (e bìos non è zoé), Foucault parte dal potere pastorale cristiano, inteso come paradigma del potere biopolitico moderno, ma allora è evidente che nel gregge il pastore di anime non guida (e guidare è molto diverso da disciplinare) le sue pecore con la forza ma con la parola, con l'ascolto, agisce cioè sulla psicologia del gregge e dei singoli, individualizzando la sua azione pastorale, motivando e orientando i comportamenti collettivi. Senza dimenticare che le analisi foucaultiane sul neoliberismo americano e sull'ordoliberalismo tedesco guardano proprio alla trasformazione psichica da questi prodotte sull'uomo (l'idea di capitale umano, la forma-impresa che deve assumere l'uomo, eccetera). Di fatto, la psicopolitica di Han non sembra diversa dalla biopolitica di Foucault; semmai la affina e la attualizza all'oggi.


 

Byung-Chul Han: Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere, traduzione di Federica Buongiorno, nottetempo, 2016, 110 pp., € 12

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