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palermograd

Daniele contro i burosauri?

di Pavlov Dogg

Tra i molti meriti di Io, Daniel Blake – la storia di un carpentiere cardiopatico che si vede negare l’indennità di malattia - il principale è quello di aver saputo confondere le idee all’avversario di classe, perlomeno in patria. Plateale a tal proposito la reazione della critica del Sunday Times Camilla Long che, in una tipica recensione dettata più dai propri pregiudizi che da una effettiva considerazione del film, ha parlato di “safari in mezzo ai poveri per filantropi middle-class” e di “pornografia della miseria”. In realtà, i meccanismi di identificazione tra spettatore relativamente agiato e personaggi “sfigati” che il regista Ken Loach cerca e trova sono lontanissimi tanto da quelli della “visita guidata” che da quelli del titillamento usa-e-getta. Una delle prime scene-madri del film ruota intorno all’esperienza frustrante e potenzialmente angosciante dell’attesa infinita di poter parlare con l’operatore di un Numero Verde (qui peraltro la chiamata non è manco gratis), mentre la musichetta d’ordinanza si accanisce sugli organi riproduttivi di chi rimane in attesa: è capitato a quasi tutti, indipendentemente dalla classe sociale, tranne forse al proverbiale “1%”, che ha la possibilità di far invecchiare al telefono i propri dipendenti. Si cementa così subito una solidarietà tra il pubblico e Daniel che resiste anche quando il protagonista del film precipita suo malgrado in una condizione lumpenproletaria: non è un caso, peraltro, che nell’unica scena di aperta ribellione, quando Blake scrive con la bomboletta spray sul muro del Jobscentre, la seconda frase – grazie alla quale esplode l’ilarità dei passanti, che cominciano così a parteggiare per lui – sia: “E cambiate quella musica di merda nel telefono”.

Chiarito questo punto, Loach va difeso anche dalla critica di sinistra, che ne approva le intenzioni e la “carica umana” ma spesso gli rimprovera di non disporre di un linguaggio “personale”. Tutto al contrario, a me pare si possa addirittura parlare di un vero e proprio manierismo loachiano, caratterizzato fra l’altro dall’anti-climax espositivo proprio dei passaggi più patetici dal punto di vista del contenuto. E anche in Io, Daniel Blake l’emotività è spesa soprattutto riguardo alle piccolissime cose (la defunta compagna di Dan che aveva registrato su cassetta la sigla musicale del Bollettino del Mare, il taroccaro cinese che si esalta per il gol dalla propria metà campo del giocatore “fuori moda” Charlie Adam), laddove nei momenti di maggior pathos potenziale subentra una certa laconicità nord-britannica, che curiosamente recupera a modo suo qualcosa dell’estraniamento brechtiano.

Detto questo, dobbiamo concludere che nel film tutto funzioni alla perfezione, che vi si svolga un discorso assolutamente limpido? Se rispondessi affermativamente non sarei onesto: ma non è certo “colpa” del regista se il momento attuale – segnato da un’enorme confusione economica, sociale, politica, ideologica e dunque anche artistica – non è il più propizio ad un cinema “di denuncia” che colga pienamente nel segno. E Loach questo lo sa benissimo, se è vero che l’unico discorso che si vorrebbe esplicitamente “politico” di tutto il film viene posto in bocca a un pittoresco e in ultima analisi ininfluente mezzo ubriacone da strada. La stessa immedesimazione – cercata e trovata, lo ripeto – con lo spettatore “borghese” è un risultato positivo che tuttavia non può far sparire d’incanto tutte le ambiguità, e implicitamente corre una serie di rischi: il più macroscopico dei quali è quello di aver voluto girare un film “contro l’Austerity” per poi ritrovarsi in mano un film “contro la Burocrazia”. Puntualmente non meno di una dozzina di recensioni del film uscite in Italia portano proprio questo titolo, e quella dell’Indice dei Libri si è spinta ad additare nella “burocrazia dell’epoca del Welfare” (manco fossimo negli anni Cinquanta e non nell’era dei tagli alla spesa pubblica) il bersaglio del film; mentre dal canto suo Giorgio Carbone su Libero – non avendo lo stesso problema della critica conservatrice inglese, cioè di difendere anche solo in maniera obliqua la propria classe dominante nazionale – tesse le lodi di Io, Daniel Blake e ha buon gioco a trarne la seguente ‘morale della favola’: “il Welfare è palesemente inadeguato e non tutela più, come si diceva una volta il cittadino ‘dalla culla alla bara’.Un’opinione che possiamo non condividere (e, soprattutto, sappiamo dove va a parare) ma che non si può assolutamente definire una “forzatura” del film se, come sempre, bisogna credere più alla storia che a chi la racconta. Tra le non illegittime “conclusioni” politiche che si potrebbero trarre dalla vicenda narrata da Loach e dallo sceneggiatore Paul Laverty, ci potrebbe perciò essere (a destra) quella di un “Aboliamo i sussidi, disarmiamo la burocrazia, facciamoci tutti le assicurazioni private, lavoro-guadagno-pago-pretendo”. Mentre da una prospettiva di centro-sinistra si potrebbe riproporre un Basic Income che però – come dovrebbe far sospettare, ad esempio, la realtà tedesca – non esclude affatto (anzi…)  forme di coercizione al lavoro, che sarebbero peraltro gestite dalla… burocrazia.

Certo: Ken Loach si è poi speso a “spiegare” il film, ha rilasciato interviste specificando che le umilianti torture amministrative cui è sottoposto Daniel fanno parte di una deliberata “politica aziendale” da parte Tory, volta a scoraggiare gli utenti di questo famoso Welfare, così da demolirlo ancora un po’. Ma che tale spiegazione sia stata necessaria (e va anche detto che la logica “aziendale” inizia a regnare nel Department for Work and Pensions già con il New Labour) lungi dal fugarli, rafforza i “sospetti” (a livello di impatto sullo spettatore, beninteso) che ho avanzato sopra. E rispetto a questa possibile deriva non mi pare abbia giovato mettere in scena due personaggi rigidamente contrapposti come le due funzionarie del Jobscentre: la “stronza” e la “buona”. Distribuire più equamente tra i due personaggi stronzaggine e bontà avrebbe forse permesso di alludere alla regia politica che sta dietro i comportamenti apparentemente sadici o inutilmente “comprensivi” di chi amministra l’erogazione dei sussidi in Gran Bretagna. Ma queste, come direbbe Bruno Pizzul, sono osservazioni che si fanno “standosene comodamente seduti in tribuna”. Il valore e la forza di Io, Daniel Blake restano tutte: come ha scritto Roberto Silvestri, “si entra proprio nella pelle di Daniel Blake”, e scusate se è poco. Infine: due Palme d’Oro in carriera, per il regista di KesPoor CowThe Golden Vision Riff Raff, forse sono pure poche.

 
Pavlov Dogg ringrazia Bill Sheppard per le spiegazioni e Alessandro Locatelli per i Burosauri.

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